Dalai Lama: Dare conforto in un mondo di caos. Di Charles A. Radin, The Boston Globe
Middlebury, Vermont – Il suo paese è occupato da stranieri aggressivi e armati, i suoi luoghi popolari di culto sono abitualmente profanati, monaci e suore torturati e stuprati.
Un milione e più di connazionali sono stati macellati per il crimine di asserire che erano Buddisti Tibetani e non Comunisti Cinesi. Invece di vivere in contemplazione pacifica, sicuro in magici palazzi in cima al mondo, come i suoi predecessori hanno fatto per secoli, il 14° Dalai Lama viaggia per il mondo in esilio.
Tenzin Gyatso, capo spirituale e temporale del Tibet, vincitore lo scorso anno del Premio Nobel per la Pace, non è un vagabondo ne un disperato. Ne indietreggia, quando chiedono che bene sia venuto da tutte le sue sofferenze. Quel bene si solleva dal male ed è la pietra d’angolo della sua fede.“Questa tragedia mi da nuova vita”, ha detto la scorsa settimana, in una conversazione avuta sulla cima di una collina del Vermont spazzata dal vento. “Se fossi rimasto in Tibet senza questo problema, tutto il mio modo di pensare potrebbe essere diverso”.
Poiché i Cinesi sopravvalutano la sua patria inoffensiva costringendolo a scappare, il Dalai Lama ha detto di aver avuto “più larghi contatti con il mondo esterno” che non altrimenti e “la cultura tibetana ora raggiunge un maggior numero di luoghi”.
“Quando le cose sono disperate, non c’è alcuna necessità di pretendere che tutte le cose siano belle. Occorre accettare la realtà. Questo mi aiuta ad essere più vicino al mondo reale”.
Il Dalai Lama veste un semplice saio marrone e tutti gli altri suoi accessori – scarpe, occhiali, orologio – sono i più ordinari che si possano immaginare. Allo stesso modo la sua camminata suggerisce ne timidezza ne orgoglio. La sua voce è normale, le sue parole, anche se spesso profonde, sono semplici.
Per giungere faccia a faccia con lui, si deve abbracciarlo. Chiaro, occhi brillanti, in un viso senza spigoli che ti fissano, e nient’altro; l’estrema concentrazione ed un identico estremo rilassamento lo mettono in grado di essere simultaneamente investigativo ed empatico.
È lo stesso con chiunque. Un tipo.
Con i ragazzi è un compagno di giochi che si meraviglia molto dei loro segreti. Questi restano senza fiato quando chiede loro se amano di più la madre o il padre, ridono quando chiede se essi preferiscono veramente i giocattoli agli strumenti militari quali le armi così brillanti e scintillanti o le uniformi tanto colorate.
È un visitatore veterano dei college i cui studenti sono su strade che cercano di esplorare, li assicura che possono fare la differenza, che la loro civiltà occidentale inculca molto di positivo nei loro approcci al mondo.
Per gli adulti, come quelli del New England che sono accorsi la scorsa settimana nella piccola Middlebury per sentirlo parlare, è stato di conforto proponendo un mondo dove hanno trovato una piccola e preziosa pace.
“Se un problema è risolvibile, se una situazione è tale per cui potete fare qualcosa per essa, allora non è necessario che vi preoccupiate”, ha detto loro. “Se non è risolvibile, allora non riceverete alcun aiuto. Non c’è beneficio nel preoccuparsi in ogni caso”.
Tenzin Gyatso è largamente considerato la quintessenza della filosofia che espone, una persona che emerge da quello che è considerabile la più variegata delle esperienze nella recente storia umana.
Nato nel 1935 da una famiglia di contadini nella provincia tibetana di Amdo – ora ricostituita come la prigione cinese della provincia di Quinghai – fu identificato, all’età di due anni e mezzo, attraverso varie visioni e segni mistici, come la 14° incarnazione del Dalai Lama. Il primo nacque nel 1351.
All’età di cinque anni assunse la residenza a Lhasa nel favoloso palazzo dalle mille stanze il “Potala”, fu posto su un grande Trono Leonino incastonato di gioielli e designato come leader spirituale del Tibet. È divenuto il leader politico all’età di 15 anni alla vigilia dell’invasione cinese.
Prima che divenisse ventunenne, aveva lottato per tenere viva l’identità indipendente della tradizionale dichiarazione pacifista del Tibet come aveva negoziato con Mao Zedong e Zhou Enlai. La loro risposta fu un insieme di politiche cinesi che andavano dalla coercizione alla repressione armata e al trasferimento di massa di colonizzatori di etnia cinese in Tibet.
Non solo la regione di origine del Dalai Lama fu separata dal Tibet ma anche la provincia tibetana di Kham – la più fertile e popolosa regione del paese – fu spaccata e annessa alle province cinesi di Sichuan e Yunnan.
In contrasto col clamore sollevato dall’invasione dell’Iraq in Kuwait, il mondo fece del suo meglio per ignorare la conquista cinese del Tibet e le nazioni asiatiche ed occidentali allo stesso modo fecero pace con la nuova trionfante sovranità della Cina.
Nel 1959, di fronte all’imminente attacco di Lhasa e della sua persona, il Dalai Lama raggiunse l’India attraverso l’Himalaya.
Nessuna nazione avrebbe riconosciuto il governo tibetano in esilio, ma il Dalai Lama ed i suoi seguaci furono ben trattati dal governo indiano che fornì un luogo di rappresentanza a Dharamsala, a nord dell’India, ed offrì aiuto a circa 100.000 tibetani rifugiati, dando ai loro figli un’educazione scolastica che permettesse di conservare la loro lingua nativa e le loro tradizioni culturali.
Il Dalai Lama non ha mai cessato di parlare di quello che era accaduto alla sua gente ed alla sua patria. E lo sforzo di focalizzare l’attenzione del mondo sui loro problemi sta guadagnando slancio per via della maggior conoscenza del fatto che i Cinesi profanano gli ambienti religiosi e naturali del Tibet e della diffusione, dappertutto, della generale disillusione per i trattamenti che la Cina fa verso i propri studenti e cittadini.
Dei più di 6.000 monasteri buddisti che vi erano nel paese quando Tenzin Gyatso nacque, 37 continuano a funzionare e “una vecchia nazione con un’unica cultura sta per lo più morendo” ha detto alle migliaia di persone accorse qui a Middlebury. “Abbiamo bisogno del vostro aiuto”.
Tuttavia, non è la voce della disperazione. Come ha già detto in una intervista, è certo che i Cinesi abbiano fallito nell’annientare gli insegnamenti del Buddismo Tibetano e lo stesso Comunismo Cinese sta traballando. La silenziosa e crescente importanza del Dalai Lama, un pacifista riconosciuto da tutto il mondo, come testimone delle barbarie cinesi è certamente un altro fattore. Così come testimonia la tragedia, egli parla con compassione dell’umanità del popolo cinese.
Il soffocamento delle dimostrazioni di piazza Tiennanmen, dello scorso anno, dimostra la debolezza del regime, non la sua forza, egli asserisce, e mostra che lo spirito trionferà in Cina e che svilupperà il futuro del Tibet.
Il regime “non può distruggere il movimento per la libertà e la democrazia. Questo è qualcosa che il sentimento umano desidera”, ha detto. “Nessuna forza può fermare questo desiderio”.
Mentre insegna che la gente dovrebbe avere amore e compassione uno per l’altro non senza la pietà ma perché è nel loro interesse per il benessere e la pace mentale, ha ragione quando dice i grandi e i potenti del mondo devono scommettere sul destino del Tibet.
“Primo, quello tibetano è un problema morale”, dice. “Tra gli uomini, è importante tenere viva la giustizia morale. Se l’umanità perde il valore della verità, diventa un disastro”.
“Secondo, il Tibet ha una lunga storia, un’eredità storica ed una cultura uniche, è qualcosa che appartiene al mondo. Non è necessario conservare la consuetudine sociale di questa cultura. La parte di questa cultura che offre speranza, fiducia e calma mentale – questa si che è molto utile da conservare come contributo all’umanità”.
Si alza al sollecito delle sue segretarie perché è prossimo un altro appuntamento. Parlando ancora del Tibet, è naturalmente il miglior posto per dedicarsi alla natura, agita le mani. Niente è superficiale con quest’uomo; la sua sensibilità non manca mai. Agitando le mani sente che i suoi ospiti si sono raffreddati durante la conversazione avuta sulla ventilata cima della collina. Senza mai interrompere il contatto visivo, prolunga il discorso sulla natura e le mani degli ospiti applaudono finché non si sono riscaldate.
Poi ha detto “grazie” ed è andato via. Tratto da The Boston Globe 24.09.1990.