Insegnamenti di Sua Santità il XIV Dalai Lama
a Melbourne, Australia
19-22 maggio, 2002
Commentario al testo di Atisha Dipamkara:
“La lampada sul sentiero verso l’illuminazione” https://www.sangye.it/altro/?cat=14
Traduzione dal Tibetano in Inglese del Prof. Thubten Jinpa e dall’inglese all’italiano della Dott.ssa Nicoletta Nardinocchi, revisione del Dott. Luciano Villa, per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.https://www.sangye.it/altro/?p=81
Seconda parte del primo giorno d’insegnamenti 19 maggio, 2002
Sua Santità il Dalai Lama
Se osserviamo attentamente gli insegnamenti delle Quattro Nobili Verità troviamo che il Buddha espone tutti gli aspetti chiave importanti per il nostro impegno sul sentiero verso l’illuminazione. Quello che troviamo nelle Quattro Nobili Verità sono gli oggetti della nostra pratica, gettando le basi per stabilire una conoscenza primaria del modo in cui le cose esistono.
Su questa base troviamo poi la pratica vera e propria presentata o contenuta nei tre addestramenti superiori di moralità, concentrazione e saggezza. Di questi addestramenti superiori, la moralità serve come base e in questo insegnamento esistono diverse categorie di precetti. Per esempio in generale esistono i precetti dei laici e dei monaci ordinati. In totale sono elencati sette o otto diverse classi di precetti che insieme rappresentano gli insegnamenti sulla moralità. Quindi, prendendo la moralità, la disciplina etica come fondamento, come base, il praticante individuale coltiverà la concentrazione univoca della mente e in tal modo svilupperà il secondo addestramento superiore, che è l’addestramento superiore nella concentrazione. Il motivo per cui i buddisti denominano superiori tali pratiche è per distinguerle dalle pratiche ordinarie di etica o di concentrazione univoca. La pratica della concentrazione univoca in sé non è affatto peculiare del buddismo, quello che è richiesto nel contesto del buddismo, per fare tale pratica di addestramento superiore, è avere una motivazione adeguata. La presa di Rifugio nei Tre Gioielli, in particolare il Gioiello Dharma, è da intendersi come cessazione della sofferenza, come moksha o liberazione. Anche la nostra pratica della concentrazione univoca deve fondarsi su una realizzazione profonda di genuina rinuncia. Quindi, con queste due come basi, la coltivazione pratica di concentrazione univoca diventa un addestramento superiore alla concentrazione. Sulla base di queste due, la moralità come fondamento e la concentrazione univoca come metodo, il sentiero effettivo è custodito negli insegnamenti sulla saggezza.
Questi insegnamenti sulla saggezza sono illustrati nel Primo giro della Ruota del Dharma, nel quadro di ciò che sono noti come I Trentasette Aspetti del Sentiero per l’Illuminazione. Poi c’è il Secondo Giro della Ruota del Dharma dove tutti gli insegnamenti sono in sanscrito. Questi insegnamenti, in particolare la serie più popolare degli insegnamenti conosciuta come la Perfezione della Saggezza furono insegnati dal Buddha a Rajagrha sul Picco degli Avvoltoi. Queste scritture, che appartengono al Secondo Giro, sottolineano e spiegano in dettaglio due punti essenziali della pratica buddhista. Una è la coltivazione della intenzione altruistica di raggiungere la Buddità per il beneficio di tutti gli esseri senzienti, il cui numero è pari allo spazio infinito. Generando compassione nei confronti di tutti questi esseri senzienti coltiviamo l’aspirazione altruistica a raggiungere la Buddità per il loro bene. Questa è la prima pratica essenziale insegnata nel Secondo Giro. L’altro aspetto della pratica presentata in questi sutra del Secondo Giro della Ruota del Dharma è la natura ultima della realtà.
Quando parliamo di natura ultima di una realtà facciamo davvero riferimento ad una più profonda comprensione della Terza Nobile Verità. La Prima Nobile Verità è la verità della sofferenza, la seconda è la Verità dell’Origine della Sofferenza e la terza è la verità della cessazione. Nei testi della Perfezione della Saggezza, la terza verità, la verità della cessazione viene spiegata ed approfondita molto dettagliatamente con un’ approfondita comprensione della natura delle vere cessazioni. Per capire cosa sia la vera natura di cessazione, la cessazione si riferisce alla cessazione delle emozioni e pensieri afflittivi, che raggiungiamo come risultato dell’applicazione degli antidoti o rimedi appropriati. Al fine di comprendere la vera natura di cessazione prima di tutto bisogna avere una certa comprensione di cosa c’è alla radice delle afflizioni. Quale stato della mente agisce come antidoto diretto verso pensieri ed emozioni afflittive? Queste emozioni e pensieri afflittivi hanno una base solida? Esiste la possibilità di sradicare le basi di queste emozioni e pensieri afflittivi? Il punto è in che senso possiamo comprendere la possibilità di conseguire tale vera cessazione?
Cosa rende possibile eliminare le emozioni e pensieri afflittivi?
Questi punti sono sviluppati in modo molto dettagliato con un approfondimento nel Secondo Giro di Ruota del Dharma. La necessità di comprendere la natura ultima della realtà, cui le Scritture si riferiscono come Talità, la modalità ultima di esistenza e di come nella propria esperienza quotidiana di impegno nel mondo spesso ci accorgiamo di un divario tra il modo in cui le cose esistono e il modo in cui sono veramente e il modo in cui le percepiamo. Quindi c’è un abisso tra l’aspetto della percezione delle cose e la realtà delle cose. Così approfondendo il modo ultimo di essere delle cose o realtà ultima, questo abisso può essere colmato. Troviamo tutte queste spiegazioni in grande dettaglio nei Sutra Perfezione della Saggezza e questo livello di comprensione approfondita è in effetti il vero sentiero. Allora, negli insegnamenti del Secondo Giro troviamo un’ulteriore elaborazione sui temi presentati nel Primo Giro della Ruota del Dharma, in particolare la Terza e la Quarta Nobile Verità, la Verità della Cessazione e la Verità del Sentiero. Il Terzo Giro della Ruota del Dharma è da dove il termine stesso “tre giri” proveniva nella tradizione Mahayana.
Questo si trova nel Sutra chiamato Samdhinirmocana, il “Sutra che Svela le Intenzioni del Buddha” in cui si fa la distinzione fra i tre Giri di Ruota del Dharma. Il Sutra Samdhinirmocana è identificato come sutra chiave della terza classe degli insegnamenti pubblici del Buddha. E’ anche descritto come il sutra che spiega chiaramente le intenzioni ultime del Buddha. Ovviamente questa comprensione è dal punto di vista della Scuola Solo Mente mentre le altre tradizioni buddhiste non riconoscono questo sutra come rappresentante gli insegnamenti definitivi del Buddha. La Scrittura, che viene poi citata come esempio chiave degli insegnamenti definitivi della terza classe degli insegnamenti pubblici è il Sutra Tathagatagarbha, l’essenza del Sutra del Buddha. Questo sutra è la base per la composizione di Maitreya, il ben noto Uttaratantra, il Sublime Continuum che contiene discussioni dettagliate sulla comprensione della natura ultima della mente. Si insegna che la natura ultima della mente è luminosa e priva di esistenza intrinseca. Questa è un’ulteriore presentazione della vacuità della mente come opposta ad un oggetto esterno, ad esempio un vaso.
Sebbene per quanto riguarda la vacuità del vaso e della mente, questi siano entrambi vacuità senza alcuna differenza, tuttavia, poiché una è vacuità della mente, mentre l’altra è vacuità di un oggetto esterno, esiste una grande differenza per l’impatto che ha il capire questi due diverse vacuità.
Nel Sutra Tathagatagarbha e sul trattato di Maitreya, basato su di esso, viene detto che, se esaminiamo con attenzione la natura ultima della mente scopriamo che la natura ultima della mente è vacuità, priva di esistenza intrinseca. In effetti la mente nel suo stato naturale è luminosa, semplice conoscenza e chiara. Tutte le afflizioni che inquinano la mente sono separabili in linea di principio dalla mente di base, applicando gli antidoti e correttivi adeguati. Ciò suggerisce che le afflizioni della mente sono in un certo senso avventizie, non essendo parte della natura essenziale della mente.
Sono avventizie mentre il potenziale per la perfezione dell’illuminazione, il potenziale per la realizzazione dell’ onniscienza o il potenziale per le qualità di un Buddha illuminato sono tutti inerenti alla mente. Maitreya ricorda che le afflizioni della mente sono avventizie, eliminabili, e separabili dalla natura essenziale della mente. Le qualità di illuminazione, le qualità di perfezione stanno nella mente in forma di un seme e sono indicate come Buddha, l’essenza del Buddha. Queste qualità di Buddha non sono qualcosa che bisogna coltivare da fuori, ma piuttosto sono seme o potenziale che esiste naturalmente in tutti noi, quindi ciò che è richiesto è attivare questo potenziale e perfezionarlo. Questi punti sono spiegati in grande dettaglio nel Sutra Tathagatagarbha e in questo sutra vi è una comprensione molto profonda della Quarta Nobile Verità, la Verità del Sentiero. Il testo in cui viene dato questo insegnamento è “La lampada per il sentiero per l’illuminazione”, un testo molto completo, che riunisce tutti i punti essenziali degli insegnamenti di tutte e tre i Giri della Ruota del Dharma.
Questi sono integrati da una breve discussione sul Buddhismo Vajrayana come mezzo per chiarire dubbi. Alcuni dei maestri Kadampa in Tibet, quando insegnavano “La Lampada di sentiero per l’illuminazione” di Atisha, che integra la maggior parte dei punti essenziali delle varie scritture, sebbene il testo stesso sia molto breve (tre fogli, in tibetano), se ne vantavano un po’. Dicevano che sebbene il testo fosse breve, era cosi profondo e riassumeva insieme tutte le varie scritture che quando veniva insegnato potevano sentire tremare gli altri volumi di grandi insegnamenti. Questo testo è stato composto dal maestro indiano Atisha Dipamkara in Tibet.
Il catalizzatore immediato fu la richiesta di comporlo da parte del monarca tibetano nel Tibet occidentale, Byang-chub-od. Quando chiese ad Atisha di insegnare disse esplicitamente che non stava cercando un insegnamento che suonasse come profondo o molto impressionante, ma piuttosto un insegnamento che fosse di beneficio per il popolo del Tibet. Al che Atisha ne fu profondamente commosso e contento per la sincerità di questa richiesta e compose questo testo in risposta. Nei termini di trasmissione degli insegnamenti di questo testo, il mio lignaggio, ho ricevuto la trasmissione di questo testo da parte dell’ultimo maestro di Drepung, il maestro Khunu, Rinzen Tempa (SP?) che a sua volta lo ricevette da Depsekansha (SP ?) Rinpoche. Ho ricevuto un’altra linea di trasmissione dall’ultimo Serkong Rinpoche che a suo volta lo ricevette da un meditatore molto sincero di Drepung Gomang il cui nome credo sia Gendun Tushi (SP?). Egli era un monaco ordinario, ma grande praticante e meditatore. Così ho ricevuto la trasmissione di questo testo da due diversi lignaggi. Sembra come se a un certo punto, la trasmissione di questo testo fosse abbastanza rara. Ad esempio, entrambi i miei tutori non avevano la trasmissione di questo testo. Noi ora leggeremo dal testo. Inizia con il titolo sanskrito Bodhipathapradipam e in tibetano byang-chub lam-gyi sgron-ma. Quindi segue un omaggio a Manjusri:
Omaggio al bodhisattva, al giovane Manjusri.
La prima strofa recita:
Rendo omaggio con grande rispetto
A tutti i Vittoriosi dei tre tempi
Ai loro insegnamenti ed a coloro che aspirano alla virtù.
Sollecitato dal buon discepolo byang-chub-‘od
Illuminerò la Lampada per il Sentiero dell’illuminazione.
In Tibet vi era una consuetudine consolidata di dare per prima cosa il titolo indiano, per indicare l’autenticità dell’insegnamento importato dall’India, in particolare di quei testi originariamente testi tradotti dalla lingua indiana. Questo voleva dire affermare l’origine del testo e anche la sua autenticità. Naturalmente in tempi più recenti perfino per i testi scritti in Tibet, anche alcuni maestri tibetani utilizzavano un titolo sanscrito, ma in origine la pratica era rassicurare la lettura di insegnamenti autentici Riguardo al significato del titolo del testo, La lampada per il Sentiero per l’illuminazione, il termine illuminazione in sanscrito è bodhi. Etimologicamente parlando Bodhi ha la connotazione di dissipare qualcosa, di chiarire ma anche la connotazione di realizzare qualcosa, di perfezionare qualcosa. Così i traduttori tibetani invece di scegliere una parola sceglievano due sillabe per trasmettere il duplice significato. L’equivalente per il Tibet bodhi è byang-chub dove byang indica il concetto di dissipazione o di chiarire mentre CHUB indica perfezione o aspetto della realizzazione. Insieme veicolano il concetto di illuminazione.
Ora, correlare la comprensione del termine byang-chub, che traduce il termine sanscrito bodhi, che fa parte del titolo del testo ed è tradotto qui come illuminazione. Il termine bodhi o illuminazione può essere collegato alla discussione delle Quattro Nobili Verità, che ho presentato in precedenza.
Qui sono i due elementi del significato del termine illuminazione, una è sgombrare, disperdere , l’altro è realizzazione, ottenimento. Questi due riguardano le Quattro Nobili Verità e indicano anche i due aspetti chiave della qualità di un Buddha illuminato. Uno è la qualità del Buddha, del totale abbandono o l’eliminazione di tutti i difetti e l’altro è la realizzazione totale di tutte le qualità positive. Ora mettiamo in relazione questo con la discussione sulle Quattro Nobili Verità. L’idea di scacciare o sgombrare è direttamente collegata alle prime due Nobili Verità, la verità della sofferenza e della Verità dell’Origine della Sofferenza. Ciò che è spazzato via, ciò che viene dissipato sono tutte le sofferenze e le loro origini. Così, quando parliamo di sofferenza nel contesto del sentiero buddista, naturalmente bisogna capire che la sofferenza si verifica a diversi livelli. Nel buddismo parliamo di tre diversi livelli di sofferenza.
In primo luogo è la sofferenza manifesta che istintivamente giudichiamo dolorosa, indesiderabile e così via ed è conosciuta come la sofferenza della sofferenza. Il secondo livello di sofferenza è conosciuto come la sofferenza del cambiamento, in cui convenzionalmente tendiamo ad identificare questo livello di esperienza come piacevole e non doloroso. Tuttavia, se continuiamo a persistere in questa esperienza anche queste esperienze piacevoli in ultima analisi, culmineranno in insoddisfazione, sofferenza e dolore. Quindi queste sono note come sofferenza del cambiamento, alla base di entrambi i due precedenti livelli di sofferenza, la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento vi è uno stato molto più fondamentale di esistenza che ancora una volta il buddismo caratterizza come stato di sofferenza. Questo è lo stato di esistenza condizionata della nostra esistenza e questo livello di sofferenza è noto come sofferenza del condizionamento pervasivo. Questo è il fatto stesso di esistere come esseri condizionati e costituisce la base che dà origine agli altri due livelli di sofferenza. Ciò che viene eliminato qui, spazzato via nel contesto di comprendere il termine bodhi o illuminazione sono queste sofferenze assieme alle loro cause e condizioni che le creano, l’origine della sofferenza. Attraverso l’applicazione dei corrispondenti antidoti e rimedi, quando raggiungiamo una condizione di libertà da queste sofferenze e dalla loro origine, abbiamo realizzato la Terza Nobile Verità, la verità della cessazione. La verità della cessazione e il sentiero che conduce ad essa, i mezzi che rendono possibile la cessazione sono ciò che è stato realizzato nel contesto dell’illuminazione byang-chub. Sebbene la cessazione non sia direttamente prodotta da cause e condizioni, ma sia ancora una conseguenza di sforzi e anche di ricerca delle condizioni che le originano, queste condizioni e lo sforzo coinvolto nel rendere possibile la cessazione, sono la Verità del Sentiero. Pertanto, il secondo elemento del termine byang-chub, chub o realizzazione riguarda la Nobile Verità della cessazione e il sentiero che conduce ad essa. In questo modo, guardando le due sillabe capiamo che nella etimologia stessa del termine Bodhi o byang-chub vi è la comprensione dei punti essenziali delle Quattro Nobili Verità. Inoltre, per estensione, comprendiamo i due aspetti delle qualità della mente del Buddha, uno è l’eliminazione totale di tutti i difetti e l’altro è la realizzazione totale e la perfezione di tutte le qualità positive. Quando parliamo di Sentiero ci riferiamo a stadi progressivi di sviluppo nel proprio continuum mentale a partire dalle prime fasi di realizzazione spirituale che culminano infine nella mente onnisciente del Buddha. In questo stato di piena illuminazione l’individuo è in grado di percepire sia la realtà convenzionale e che la realtà ultima all’interno di un singolo evento cognitivo, all’interno di un unico momento di tempo. Quindi il sentiero si riferisce a questo intero processo dall’inizio fino alla realizzazione finale della mente onnisciente del Buddha. Quindi è indicato come sentiero dove si viaggia. Qui la metafora del sentiero è utilizzata per un viaggio interiore, che si svolge nei limiti del proprio continuum mentale. La lampada qui si riferisce all’insegnamento vero e proprio, così come enunciati in questo testo, perché l’insegnamento presenta tutti gli elementi chiave del sentiero nel giusto ordine e con tutti i punti essenziali del tutto definiti. Viene spiegata la giusta sequenza della pratica è spiegato ed anche tutte le relazioni tra i vari elementi del sentiero. Quindi, in questo senso questo testo ha la funzione di una lampada che mostra il sentiero da seguire e questo è il motivo per cui viene dato questo titolo La lampada per il sentiero verso l’illuminazione.
Quando parliamo di illuminazione in generale, secondo il Buddhismo, resta inteso che tra i praticanti spirituali esistono diverse inclinazioni mentali. Sulla base di queste inclinazioni alcuni praticanti sono più inclini verso l’illuminazione di un sràvaka o Uditore, alcuni sono più inclini verso la Pratyekabuddha o illuminazione dei Realizzatori Solitari, mentre alcuni sono più inclini verso il sentiero del bodhisattva che si conclude con la piena illuminazione di Buddha. L’illuminazione a cui si riferisce il presente testo particolare è illuminazione di un Buddha, pertanto è a volte indicato anche come Grande Illuminazione per distinguerlo dagli altri due aspetti di illuminazione.
A seguire il saluto di Manjusri, che è stato inserito dal traduttore del testo per due obiettivi all’inizio del testo.
Uno è quello di assicurare che il compito di tradurre questo testo non incontri ostacoli, che sia completato con successo. Più specificatamente lo scopo è conformarsi a un decreto emanato da uno dei primi sovrani tibetani che, quando i testi venivano tradotti dall’indiano in tibetano per aiutare il lettore ad individuare quale dei tre principali canestri appartenesse un particolare testo. I Tre Canestri sono il Tripitaka di Vinaya o insegnamenti etici i Sutra e Abhidharma. Se il testo appartiene al Vinaya Pitaka allora il saluto è rivolto all’onnisciente Buddha.
La logica è che quando parliamo di aspetti minuti dei precetti etici, in particolare i codici etici di condotta per la comunità monastica e ciò che costituisce una infrazione, questi possono essere pienamente compresi solo da una mente onnisciente. Al fine di riconoscere questa umiltà, porgiamo omaggio al Buddha onnisciente se il testo appartiene al canestro Vinaya. Se un testo appartiene al canestro dei Sutra, il saluto è rivolto ai Buddha e Bodhisattva. Se il testo fa parte del canestro Abhidharma il saluto è rivolto al bodhisattva Manjusri, come in questo caso. Sebbene La lampada per il sentiero dell’illuminazione riunisca gli insegnamenti di tutti e tre i canestri, il tema principale presentato appartiene più alla collezione Abhidharma, quindi questo è il motivo per cui il saluto è rivolto a Manjusri
La prima stanza comprende il saluto e la promessa di scrivere il testo. I Vittoriosi sono i Buddha, che sono descritti come vittoriosi perché hanno conquistato i Quattro Mara o le quattro forze ostruttive. Hanno superato i livelli grossolani e i livelli sottili delle quattro forze ostruttive. L’essere sottile viene qui definito in termini di emozioni e pensieri afflittivi e anche le propensioni sottostanti alle afflizioni sono conosciute come le ostruzioni sottili alla conoscenza. Così Buddha pienamente illuminati sono coloro che hanno acquisito la vittoria su tutte e quattro le forze ostruttive e pertanto si porge omaggio ai Buddha dei tre tempi.
Si porge omaggio anche ai loro insegnamenti, al loro Dharma, che non si riferisce tanto ai testi letterari, ma piuttosto alle realizzazioni interiori di questi Buddha e degli esseri Arya, specialmente Arya Bodhisattva che hanno raggiunto alti livelli di realizzazione insieme alla realizzazione diretta della natura ultima della realtà.
Allora, ciò che qui è tradotto come insegnamenti o Dharma si riferisce in realtà alle realizzazioni interiori dei Buddha dei tre tempi e anche dei bodhisattva così come anche degli Esseri Arya che hanno acquisito conoscenza diretta della verità. Questo è il Dharma. Poi si legge ai loro insegnamenti e a coloro che aspirano alla virtù e ciò si riferisce al Sangha. Il Sangha qui si riferisce agli esseri Arya che hanno raggiunto il Sentiero della Visione, e quindi hanno acquisito una realizzazione diretta della verità. Quindi si porge un saluto ai Tre Gioielli, il gioiello Buddha, Dharma e Sangha. Dopo di ciò viene la promessa di scrivere il testo. Perché Atisha compose un saluto ai Tre Gioielli? Qual è il compito che intraprende? Egli afferma: Illuminerò la Lampada per il sentiero per l’illuminazione attraverso la scrittura di questo testo. Perché sta scrivendo? Atisha scrive che è stato sollecitato dal buon discepolo byang-chub-‘od. Il fatto che Atisha menzioni esplicitamente di scrivere questo testo perché sollecitato a farlo, rientra in una prassi generale negli insegnamenti buddisti. Possiamo leggere nel Sutra Pratimoksa, la Scrittura sulla Liberazione Individuale, che non dovremmo dare insegnamenti senza essere stati sollecitati ad insegnare. Quindi, in generale, è usanza nel buddismo non dare insegnamenti a meno che si sia stati inviatati a farlo. Vorrei fare un commento breve sul saluto a Manjusri del traduttore. Si legge Omaggio al bodhisattva, al giovane Manjusri. Sembra che il traduttore sia piuttosto entusiasta di usare la parola “giovane”. Su Manjusri nella tradizione tibetana esiste una diversa comprensione in contesti diversi. Ad esempio, nel contesto Vajrayana, Manjusri è riconosciuto più come Buddha pienamente illuminato piuttosto che come bodhisattva. Tuttavia, nel contesto degli insegnamenti del Veicolo della Perfezione, Manjusri è inteso a livello di Bodhisattva, piuttosto che di Buddha. Così dobbiamo capire i diversi contesti in cui appaiono bodhisattva come Manjusri, Avalokiteshvara e Maitreya. Il nome Manjusri in tibetano è Jampel dove JAM significa gentilezza e PEL indica gloria. Così ancora una volta, proprio come le due sillabe per l’illuminazione byang-chub qui il nome di Manjusri, Jampel si compone di due sillabe, dolcezza e gloria. Nello stesso sanscrito Manju e Shri sono due sillabe e connotano due aspetti dello stato illuminato. Uno è il superamento di tutti i difetti, qui connotato dal termine dolcezza (JAM), che descrive il suo stato della mente o del suo continuum mentale che è stato reso gentile, eliminando tutte le forze afflittive che potrebbe renderlo agitato o disturbato. La libertà da ciò comporta dolcezza o completa calma della mente. Gloria (PEL) allude alla realizzazione da parte di Manjusri dei segni maggiori o minori che indicano o illustrano una persona completamente illuminata. Quindi, se nel contesto di un sutra, Manjusri è un bodhisattva a un livello molto elevato di realizzazione che ha raggiunto una similitudine dei maggiori e minori segni di un Buddha pienamente illuminato. Nel nome di Manjusri vediamo sia le qualità di abbandono che di realizzazione o perfezione. Nel verso di saluto di questo testo, l’oggetto di omaggio è stato identificato come Buddha, Dharma e Sangha. Quindi questi sono i tre oggetti di rifugio e nel buddismo sono conosciuti come i Tre Gioielli. Il primo gioiello è il Buddha definito come un essere che ha raggiunto la perfezione totale di tutte le realizzazioni e conoscenza, nonché la totale eliminazione di tutti i difetti e le limitazioni. Come comprendiamo un tale essere completamente illuminato? Come capiamo le caratteristiche di un tale essere completamente illuminato? A questo proposito è utile riflettere su un verso scritto dal maestro indiano Dignaga. Nel suo testo “Compendio sulle cognizioni Valide” egli rende omaggio al Budda, sottolineando “Tu che sei diventato un essere valido”.
Mi inchino a colui che correttamente girò la ruota del Dharma,
Che aiuta tutti gli esseri, il Maestro,
Colui che ha raggiunto la beatitudine,
E il nostro Protettore.
Compendio di Valida Cognizione
La parola operativa, chiave è qui la parola divenire. Il punto è che il Buddha pienamente illuminato, il maestro non fu eternamente un essere illuminato, ma piuttosto qualcuno che era diventato un insegnante valido, diventato pienamente illuminato. Così questa parola DIVENTARE ha un significato molto significativo, ossia che la buddhità non sorge senza cause; la buddhità ha origine da cause.
Inoltre non proviene da cause che sono completamente discordanti dal risultato. In altre parole, le cause stesse sono non permanenti. L’illuminazione deriva da una causa e anche da cause commisurate ai loro risultati. Dignaga identifica quindi qual è la causa fondamentale per il raggiungimento della buddhità. E’ la coltivazione della compassione universale, la grande compassione, identificata come il fattore chiave, la causa fondamentale. Quindi, nel saluto al Buddha da parte Dignaga egli rende omaggio al Buddha come qualcuno che è diventato un valido insegnante, un valido essere, un essere autentico attraverso la pratica costante della compassione.
E ora per amore
Per coloro che sbagliano nella loro logica.
Qui vediamo che l’essere completamente illuminato aveva raggiunto quello stato di illuminazione come risultato di una pratica costante e prolungata di compassione e di altri aspetti connessi al sentiero come la saggezza che realizza la vacuità. La chiave qui è la realizzazione che il Buddha ha raggiunto, il che è il vero Dharma. E’ sulla base della realizzazione del Dharma che definiamo Sangha e Buddha, perché coloro che sono ancora sul Sentiero e hanno raggiunto il sentiero della visione, ottenendo una visione diretta della natura ultima della realtà, costituiscono il vero Sangha. Procedendo su questo sentiero e raggiungendo il culmine totale di questa realizzazione, quello è lo stato in cui otteniamo la buddhità. Così è sulla base del Dharma che sono definiti gli altri due gioielli, il Gioiello Sangha e il Gioiello Buddha.
Così dobbiamo comprendere la natura e le caratteristiche del Buddha pienamente illuminato, sulla base della comprensione della natura e caratteristiche del vero Dharma. In termini di cronologia di un’era particolare esiste una sequenza nei Tre Gioielli in termini di evoluzione. Nel caso del presente Buddha Shakyamuni in termini di evoluzione degli insegnamenti di questo Buddha, in primo luogo il Buddha Shakyamuni è venuto come Nirmanakaya, Emanazione di Buddha. Quindi insegnò il Dharma, inizialmente gli insegnamenti a livello di testi scritturali erano scritture insegnate dal Buddha. Sulla base delle scritture insegnate dal Buddha, i suoi discepoli s’impegnarono nella pratica e coltivarono le realizzazioni di queste scritture quindi evolvero il Dharma come realizzazione. Coloro che hanno ottenuto la realizzazione della fase di Arya, il Sentiero della Visione divennero Sangha. Così nel contesto di una sola epoca possiamo dire che il Buddha viene per primo, il Dharma è per secondo ed il Sangha si evolve come terzo. Per questo motivo prendendo rifugio o porgendo omaggio ai Tre Gioielli l’ordine è sempre il Buddha, Dharma e Sangha.
Per questo in riferimento a questi tre Gioielli troviamo nei testi la metafora della medicina. Il Buddha è paragonato a un medico, il Dharma è paragonato alla medicina prescritta e la comunità spirituale, il Sangha è paragonato a un infermiere che aiuta e si prende cura dei malati. Che cosa dobbiamo intendere da questa analogia è che è in realtà il Dharma è la vera medicina che direttamente risponde al disturbo spirituale. E’ il Buddha che prescrive la medicina del Dharma e i colleghi, i compagni sul sentiero, il Sangha agisce da supporto, mentre siamo nel processo di terapia. Pertanto, il Tre Gioielli sono spesso indicati come Buddha, il vero maestro, Dharma come l’insegnamento rivelato e il Sangha come compagni che ci supportano nella nostra pratica. Sorge il problema che cosa sia esattamente questo gioiello Dharma, che definisce gli altri due gioielli Buddha e Sangha? Quali sono le sue caratteristiche? Come possiamo coltivarlo in noi stessi? Come ho già detto in precedenza quando parliamo del Gioiello Dharma, nel contesto dei Tre Gioielli, il vero Dharma si riferisce proprio alla vera cessazione che è la Terza Nobile Verità.
Cessazione qui si riferisce alla libertà che un individuo ottiene applicando gli antidoti contro le emozioni e pensieri afflittivi, gli aspetti negativi della mente. A seguito dell’applicazione degli antidoti corrispondenti, otteniamo una libertà che impedisce il sorgere in futuro delle afflizioni il che è chiamata cessazione. Tali cessazioni possono essere di diversi livelli. Questo è il vero Dharma e anche il sentiero che conduce a tale cessazione è il vero Dharma. Così il vero Dharma si riferisce alla nobile Terza Verità, la verità della cessazione ed alla Quarta Nobile Verità, la Verità del Sentiero. Ora la domanda è, se il vero Dharma si riferisce a questa cessazione degli aspetti negativi della mente, pensieri ed emozioni afflittivi, qual è il processo o procedura per realizzare tale cessazione? Come possiamo coltivare gli antidoti e come funzionano nel determinare la cessazione degli aspetti negativi della mente?
Bisogna capire che, secondo il buddhismo la nostra esistenza di esseri condizionati è caratterizzata dalla sofferenza. Esistenza condizionata si riferisce alla sofferenza pervasiva dell’esistenza condizionata, il terzo livello di sofferenza. In questo senso il nostro essere, incluso il nostro corpo, è della natura della sofferenza e di qualcosa di cui in definitiva dobbiamo sbarazzarci o eliminare.
Tuttavia nel buddismo quando parliamo della nostra stessa esistenza come sofferenza, questo non implica che la semplice esistenza fisica o corporale sia sofferenza. Dal punto di vista buddista, perfino Buddha Shakyamuni è visto come un essere incarnato, tuttavia il Buddha è privo di sofferenza come gli Arhat che hanno realizzato la libertà da tutte le emozioni e pensieri negativi, sebbene abbiano ancora i cinque skandha.
Ciò che indichiamo come sofferenza è una esistenza condizionata, la nostra attuale esistenza condizionata dal karma e dalle afflizioni. La radice della nostra esistenza condizionata sono le cause del karma e le afflizioni. Karma qui è inteso come azione, un atto individuale, con una motivazione positiva o negativa. Quando si parla di azioni, le azioni di un essere senziente implicano automaticamente un agente, un motivo o intenzione. Gli atti stessi non sono la causa primaria, la causa primaria è la motivazione dietro l’azione, ciò che ha spinto l’azione. Quindi qui parliamo del mondo delle intenzioni, il mondo dei pensieri e delle emozioni.
Alla base di gran parte del nostro karma, in particolare delle azioni negative, sono gli stati afflittivi della mente. In definitiva alla radice della nostra sofferenza sono le afflizioni, i pensieri ed emozioni afflittivi. Nel Buddhismo sono chiamate klesha e l’entomologia klesha suggerisce stati della mente la cui stessa presenza provoca turbamento nella mente dell’individuo. Questi contaminano i nostri pensieri ed emozioni affliggendo l’individuo da dentro. Sono queste afflizioni che si trovano alla radice della nostra sofferenza e sono queste afflizioni che devono essere eliminate mediante l’applicazione degli antidoti. Ora la domanda è come gli antidoti operano contro le afflizioni? Queste sofferenze non scompaiono semplicemente pregando o desiderandolo, ma devono essere eliminate, coltivando i loro possibili rimedi o antidoti. Come funziona questo processo di applicazione degli antidoti? Possiamo osservare processi simili nel mondo fisico. Nel mondo fisico possiamo contrastare caldo e freddo. Se soffriamo il caldo possiamo spostarci in un luogo più fresco per contrastare gli effetti del caldo e se abbiamo freddo usiamo il calore per combattere il freddo. Perfino in un mondo fisico possiamo vedere casi in cui le forze opposte si contrastano l’un con l’altra. Allo stesso modo possiamo utilizzare un’altra metafora, come luce e buio che sono tra loro opposti. Nel momento in cui vi è una sorgente di luce il buio viene dissipato e quando vi è oscurità non c’è luce. C’è una relazione istantanea o dicotomia tra questi due opposti. Tuttavia, nel mondo delle emozioni e dei pensieri interiori, il processo con cui gli antidoti si oppongono ai loro opposti è diverso. Per queste dobbiamo coltivare un antidoto specifico o un giusto stato della mente per contrastare un’afflizione. Il modo in cui lo facciamo è, concentrandosi sullo stesso oggetto, ma coltivando direttamente un modo opposto di impegno con questo. Ad esempio qualcuno nutre odio e compassione/amore. Nel caso di odio e compassione sono due emozioni diverse, ma entrambe possano essere focalizzate sullo stesso oggetto come un altro essere. Su questa base, quando sperimentiamo odio o rabbia abbiamo un’esperienza ostile verso quell’oggetto. D’altra parte se proviamo compassione per quello stesso oggetto, la nostra attitudine e sentimenti nei confronti di questo oggetto sono completamente differenti.
In effetti si potrebbe dire che, rafforzando un lato si può, in modo automatico e naturale, diminuire la forza del sentimento opposto. Ad esempio un individuo che non ama la compassione e vuole ridurre ciò che della compassione potrebbe essere rimasto dentro di lui.
In tal caso la persona può fare questo in modo efficace, coltivando deliberatamente ostilità nei confronti di qualsiasi oggetto che possa generare sentimenti di compassione. Inoltre analizzerà l’aspetto negativo di nutrire sentimenti di compassione, gli svantaggi della gentilezza amorevole e così via. In questo modo ci si può aspettare che rabbia e odio aumentino. Tuttavia per un praticante spirituale, questo non è l’obiettivo, perché la rabbia porta danno, turbamento e afflizione. Quindi dal punto di vista di un praticante spirituale rabbia e l’odio sono qualcosa che deve essere dissipato, abbandonato mentre compassione e amorevole gentilezza devono essere deliberatamente coltivati. Queste portano pace della mente, benefici e aiuto. Quindi questo è il modo in cui gli antidoti lavorano per diminuire e alla fine eliminare pensieri ed emozioni afflittivi.
È possibile chiedere se in caso di due opposti stati della mente, di due opposte emozioni come odio e compassione, se è vero che, rafforzando l’una diminuisca automaticamente la forza dell’altra,significherebbe che vi è totale simmetria tra i due?
Non c’è alcuna differenza tra loro? Potremmo eliminare completamente la compassione? E’ importante capire in modo più approfondito il contrasto tra emozioni positive come compassione e gentilezza amorevole e le emozioni negative come rabbia e odio.
In generale se consideriamo che cosa il Buddismo intenda per klesha o afflizione, abbiamo due categorie generali di afflizioni. Da un lato sono le afflizioni che tendono ad essere istintive come l’attaccamento, la rabbia ecc.
Sebbene in determinate circostanze, potrebbe esserci qualche immediato catalizzatore dove la ragione può svolgere un ruolo, in generale queste afflizioni sono reattive ed impulsive. D’altra parte vi è una categoria di afflizioni che tendono ad essere molto più cognitive e qui sono incluse le opinioni false o sbagliate come aggrapparsi a vedute estreme come autentiche o valide. Sebbene siano afflizioni più cognitive, più nella categoria dell’intelletto, in effetti questa seconda categoria di afflizioni a volte viene denominata intelligenza afflittiva poiché il ragionamento svolge un ruolo maggiore nel loro sviluppo.
Questa è una comprensione generale buddista delle due grandi categorie di afflizioni, ma guardando più a fondo, capiremo che la natura più profonda delle emozioni, la loro radice è un sentimento più sottile di illusione, in particolare la mente illusoria che si aggrappa all’esistenza vera di cose e eventi. Troviamo una più profonda comprensione della natura delle afflizioni negli scritti Madhyamika. Ad esempio, nei Quattrocento versi sulla Via di Mezzo, Aryadeva scrisse, così come la facoltà corporea permea tutte le facoltà sensoriali, allo stesso modo l’illusione sottende a tutte le afflizioni. Ossia quando esaminiamo con attenzione l’esperienza di una forte afflizione come rabbia o attaccamento, troviamo alla sua base una sorta di attaccamento ad un oggetto. Questo oggetto può essere percepito come desiderabile o indesiderabile il che dà poi luogo ad una risposta emotiva o reazione.
Come il [senso tattile pervade] il corpo
135 La confusione è presente in tutti.
Superando la confusione potremo
Superare anche tutte le emozioni disturbanti.]
Quattrocento versi
Così, a livello grossolano, l‘illusione agisce come causa del sorgere di queste afflizioni, ma a livello sottile Aryadeva suggerisce che le illusioni coesistono con le afflizioni stesse proprio come gli organi del corpo permeano tutte le facoltà sensoriali. Allo stesso modo l’illusione che si aggrappa all’esistenza reale di cose ed eventi è alla base di tutte le afflizioni. Infatti possiamo dire che l’insorgere di afflizioni dipenda da questo aggrapparsi all’esistenza vera delle cose.
Questa mente illusoria che si aggrappa all’esistenza vera delle cose è distorta, perché la vera natura delle cose è vacuità. Tuttavia, questa mente illusoria si aggrappa agli oggetti come se avessero un qualche tipo di esistenza reale. Al contrario, se guardiamo a sentimenti positivi, come l’amorevole gentilezza, sebbene vi siano casi in cui l’afferrarsi illusorio alla vera esistenza di un oggetto può far sorgere o supportare la gentilezza amorevole, tuttavia il sorgere della gentilezza amorevole non dipende dall’afferrarsi all’oggetto come se avesse una sorta di vera esistenza. In realtà la gentilezza amorevole è un’emozione che può essere sviluppata con un infinito potenziale mentre emozioni negative come rabbia, dato che la loro radice sottesa è uno stato distorto della mente, non hanno un valido supporto o valido motivo sia nella ragione che nella realtà. Per questo coltivando una visione diretta nella vera natura delle cose, che è vacuità, saremo in grado di squarciare l’illusione del fraintendimento della realtà intesa come avente vera esistenza. In questo modo possiamo alla fine eliminare le afflizioni tagliando la stessa base che fa sorgere le afflizioni. Quindi sicuramente c’è una grande differenza tra le emozioni positive come la gentilezza amorevole e compassione da un lato, e le emozioni negative come rabbia ed attaccamento, dall’altro in termini di sostenibilità e le loro potenzialità per uno sviluppo infinito. Ora si porge la domanda se alla base di tutte le afflizioni è questa illusione, che le corrobora, su quali basi capiamo che questa illusione è l’aggrapparsi alla vera esistenza delle cose?
Nei Quattrocento versi sulla Via di Mezzo, subito dopo il verso che ho prima citato, Aryadeva scrisse che ottenendo la visione nella verità dell’origine dipendente, causeremo la cessazione dell’illusione. Quando un individuo sviluppa la visione profonda negli aspetti sottili degli insegnamenti sull’Origine Dipendente, svilupperà la cessazione delle illusioni.
L’illusione qui è identificata o definita come concezione errata o uno stato della mente che percepisce il mondo ed il sé in modo contrario al principio di Origine Dipenedente. Secondo il principio di Origine Dipendente tutte le cose e gli eventi sorgono come risultato di dipendenza da altri fattori.
Quando si vede il sorgere dipendente
136 non si verificherà confusione
Così è stato qui fatto ogni sforzo
Per spiegare precisamente questo argomento.
Quattrocento versi
L’opposto di ciò sarebbe accordare uno status di esistenza indipendente a cose ed eventi. Se le cose possedessero uno status indipendente, o un’esistenza indipendente ovviamente non potrebbero avere natura di dipendenza da altri. Questo proiettato status di indipendenza è quello che viene denominato sé nel contesto della dottrina sulla mancanza del sè. Insegnando la mancanza di un sé, si insegna l’assenza di un’esistenza indipendente di cose ed eventi poiché tutte le cose ed eventi sorgono come risultato di dipendenza da fattori, quali cause e condizioni.
Aryadeva conclude dicendo che ciò che ha origine dipendente non può possedere la natura di indipendenza. Questa assenza di esistenza indipendente è chiamata Origine Dipendente. Riguardo alla questione se aggrapparsi alle illusioni possieda o meno una vera esistenza, se sia una deturpazione nella categoria delle afflizioni o una ostruzione sottile alla conoscenza, esiste divergenza di opinione tra i discepoli di Nagarjuna. Da un lato vi sono i commentatori come Bhavaviveka che aveva capito che aggrapparsi alla vera esistenza delle cose può essere un ostacolo sottile alla conoscenza piuttosto che una deturpazione o afflizione. Mentre sulla base delle Settanta Stanze della Via di mezzo di Nagarjuna, altri commentatori hanno sostenuto che in realtà è parte delle afflizioni o uno stato afflitto della mente. Hanno sostenuto che, perfino per raggiungere lo stato di Arhat o libertà dal samsara dobbiamo eliminare questo aggrapparsi alla vera esistenza. E’ sulla base di questa comprensione che affermiamo che la percezione della vacuità è l’unica via di liberazione, non c’è un secondo sentiero o porta che la saggezza del non-sé o mancanza del sé.
Qui la saggezza della mancanza del sé è in termini di ciò che sono chiamate le tre porte della liberazione completa dove la visione della vacuità di cose ed eventi è coltivata sulla base della comprensione della sua natura dal punto di vista delle sue cause ed effetti. Quando parliamo di raggiungere il non-sé e di capire la mancanza del sé, dobbiamo ritornare agli insegnamenti sulle Quattro Nobili Verità dati dal Buddha nella prima cerimonia pubblica.
Quando il Buddha insegnò le Quattro Nobili Verità le presentò in termini di 16 caratteristiche, quattro in relazione a ciascuna verità. Le quattro caratteristiche della Prima Nobile Verità della Sofferenza sono impermanenza, insoddisfazione, vacuità e non-sé. Tutte le diverse scuole del buddismo, tutti i seguaci di Buddha in un modo o nell’altro comprendono che l’insegnamento fondamentale del Buddha è racchiuso nella dottrina sul non-Sè o anatman. Naturalmente vi sono interpretazioni divergenti su ciò che questo non-sé significhi. In effetti se guardiamo alla storia del pensiero filosofico in India vediamo una lunghissima tradizione di analisi su questo tipo di mancanza del sé, sulla natura dell’essere. Quando proviamo dolore o piacere, chi è che ne fa esperienza? Chi è che subisce questa esperienza?
Quando parliamo di accumulare karma, chi lo accumula? Chi è l’agente dell’azione karmica? Quando parliamo di sperimentare i frutti del karma che matura, chi fa esperienza dei frutti del karma?
Il fatto che esista un individuo, un essere a cui diamo l’etichetta di “io” è qualcosa comunemente accettato, ma la questione è che cosa sia esattamente la natura di questo sé, qual sia la natura di questo essere? Qui troviamo una lunghissima tradizione nell’antica India nell’analisi della natura di questo sé. Nel complesso tra le scuole non-buddiste in India, specialmente quelle scuole che accettano l’idea della rinascita, c’è stata una convergenza di opinione che il sé non possa essere identificato nel corpo, poiché il corpo fisico è contingente ad una vita particolare ed è transitorio in quanto termina con la morte. Pertanto, nel complesso, le scuole non buddiste sostennero che il sè deve essere qualcosa di completamente indipendente dai componenti fisici e psicologici che compongono l’esistenza di un individuo. Ci deve essere un sé, un principio eterno, durevole, in quanto trascende i cicli delle vite individuali e mantiene la sua continuità in tutte queste fasi temporali.
Se questi lo caratterizzino o meno come eterno, immutabile, unitario, la convinzione in questo atman le cui principali caratteristiche, se sondiamo più profondamente, sono essere temporalmente parlando eterno, unitario e indivisibile e indipendente o autonomo. Questo è l’Atman o sé e nel complesso tutte le scuole buddiste respingono questo tipo di nozione di un sé, la nozione di un sé eterno.
Tuttavia nel buddismo le diverse scuole hanno opinioni divergenti riguardo al fatto se questo tipo di sé possa essere postulato, allora come intendiamo il concetto di persona? Come intendiamo l’agente? Chi è questo essere? Tra le scuole buddiste, alcune cercano di identificare la persona o il sé sulla base degli aggregati psico-fisici. Ad esempio alcune scuole sostengono che la totalità dei cinque skandha sia il sé, mentre altri sostengono che il sé è il continuum della coscienza. La Scuola della Sola Mente dei seguaci della Scrittura sostiene che non è solo la coscienza mentale, ma piuttosto un continuum unico di coscienza, chiamato la coscienza di base, che viene identificato come persona.
I seguaci di Nagarjuna, soprattutto quelli che capiscono il suo punto di vista ultimo, sostengono che è insostenibile qualsiasi tentativo di identificare il sé come qualcosa di indipendente da corpo e mente. Come spiegare la relazione tra il sé e il corpo e la mente transitori? Altrettanto insostenibile è il tentativo di identificare il sé all’interno del corpo e della mente. I seguaci di Nagarjuna, in particolare quelli che accettano la visione sottile di Nagarjuna, sostengono che entrambe queste dicotomie, che identificano il sé come indipendente da corpo e mente, o come uno degli aggregati sono problematiche. Il sé o persona deve essere intesa solo come una semplice etichetta, una denominazione, una denominazione sulla base degli aggregati di mente e corpo. Quindi dobbiamo capire la natura del sé o persona come semplice denominazione, qualcosa senza alcuna realtà intrinseca o assoluta. Se osserviamo le cose e gli eventi attentamente riconosceremo che tutte le cose ed eventi nascono come risultato dell’ aggregazione di molti fattori. Dipendono da molti fattori per la loro esistenza e nessuno di loro ha esistenza indipendente. La natura ultima di tutte le cose e degli eventi è la semplice dipendenza da altri fattori.
Tuttavia, quando percepiamo o osserviamo cose ed eventi in qualche modo tendiamo ad avere l’impressione che possiedano una sorta di realtà distinta, indipendente per loro parte. Non percepiamo cose ed eventi come interconnessi e di origine dipendente, ma se avessero ciascuno parti indipendenti, separate e identificabili. Esiste un divario fra le cose come realmente sono e come sono percepite. Questa disparità tra la nostra percezione del mondo e la realtà delle cose corrobora le varie risposte afflittive ed emozionali che abbiamo nel trattare con il mondo.
Quindi questo suggerisce che la base, la radice di molti delle afflizioni come attaccamento, rabbia ecc. è uno stato distorto della mente, una concezione distorta del mondo.
Così la radice delle afflizioni è questo stato distorto della mente e in secondo luogo questa percezione del mondo come avente una realtà indipendente è priva di fondamento, senza un motivo valido. In terzo luogo quando coltiviamo l’antidoto diretto, che è la saggezza del non-sè questa saggezza del non sé si scontrerà con il concetto errato del mondo come avente un qualche tipo di esistenza vera e indipendente.
Quando confrontiamo le due, la falsa visione del mondo come opposto alla visione nel non-sé abbiamo una validissima base, sia per esperienza che per ragionamento, mentre la falsa opinione è priva di fondamento valido sia per ragionamento che per esperienza. Per questo, quando confrontiamo i due punti di vista e li lasciamo competere tra loro, ovviamente l’opinione con valida base sia per ragionamento che esperienza, ci porterà sviluppandola e coltivandola, al punto in cui sapremo eliminare totalmente la falsa visione del mondo. Inoltre questa visione del non-sé, la saggezza del non-sè, dato che è una qualità della mente, la sua base è molto duratura. Non è una caratteristica come una qualità fisica, la cui base è limitata, è una qualità mentale la cui base è molto durevole a causa del suo continuum. Un’altra caratteristica di questa qualità mentale è che, se la coltiviamo fino a diventare spontanea, per il futuro sviluppo non avremo bisogno di sforzi coscienti per portarla alla mente.
Un semplice catalizzatore o impulso può immediatamente dare origine a tale comprensione, far sorgere nella nostra mente quella qualità mentale. Così, quando confrontiamo tutti questi punti insieme e quando capiamo che le afflizioni sono separabili dalla natura stessa della mente, in quanto la loro base è uno stato distorto della mente che può essere superato, alla fine arriveremo ad un punto in cui la parola liberazione, o moksha avrà un significato davvero profondo. Riceveremo anche un senso che la liberazione è possibile e che questo è il significato di liberazione. Così, quando capiamo che la liberazione è possibile potremo estendere questa combinazione, questa comprensione alla nostra comprensione della Natura di Buddha, come spiegato nel Tathagatagarbha Sutra. In questo sutra la natura essenziale della mente è descritta come luminosa, pura luminosità ed incontaminata. Quando capiamo questo ci renderemo conto che non solo le afflizioni, ma anche le propensioni e le impronte lasciate dalle afflizioni possono essere rimosse. Se le afflizioni stesse possono essere eliminate naturalmente, le loro propensioni ed impronte lasciate dalle afflizioni possono essere eliminate. In questo modo otteniamo comprensione della reale possibilità di liberazione.
Con la mia visione di Buddha
Vedo che tutti gli esseri senzienti sono così.
All’interno del loro guscio fangoso di passioni,
hanno tutti la natura di Tathagata.
Per mezzo della saggezza adamantina,
distruggiamo l’ottenebrazione dei klesha
E riveliamo il Tathagatagarbha,
Come oro puro splendente.
Tathagatagarbha Sutra
In questo modo comprendiamo la possibilità di ottenere la buddhità che è totale eliminazione non solo delle afflizioni, ma anche le loro inclinazioni ed impronte. Lo stato risultante della buddhità nelle Scritture sul Bodhisattva, nelle scritture Mahayana è definito e descritto nei termini dei Quattro Corpi di completa illuminazione o Quattro Kaya. La comprensione più profonda e dettagliata dei Quattro Kaya può essere sviluppata con lettura e studio dei testi Vajrayana. Lì la comprensione dei Quattro Kaya è presentata sulla base della mente sottile, la mente innata fondamentale di Chiara Luce. Qui la vacuità della mente fondamentale, innata di Chiara Luce dello stato di Buddha è denominata Svabhavakaya, il Corpo Naturale di Buddha. La mente onnisciente del Buddha in quello stato è Dharmakaya o Corpo di Verità.
L’energia sottile, o prana, che è inseparabile dallo stato di Dharmakaya del Buddha è spiegata come Sambhogakaya, il Corpo del Buddha della Perfetta Risorsa. Quando questa energia sottile assume una forma visibile a un livello grossolano, il corpo di Buddha è denominato Nirmanakaya, il Corpo del Buddha della Perfetta Emanazione.
Quindi possiamo vedere che la spiegazione Vajrayana dei Quattro Kaya è in termini di comprensione della mente innata, fondamentale di Chiara Luce. Avendo compreso ciò, se riflettiamo in tal senso avremo una più profonda comprensione di che cosa si intende per Dharma e sulla base del Dharma capiremo il Buddha che è l’esempio della perfezione totale del Dharma e il Sangha che sono coloro che sono sul sentiero della realizzazione di questo Dharma.
Questo è come, sulla base del primo verso di questo testo, il verso di saluto ai Tre Gioielli che possiamo avere un’introduzione generale a cosa si intende per Buddha Dharma. Quindi è importante per chi si ritiene di essere buddista praticante avere queste conoscenze in modo che quando prende rifugio nel Buddha, Dharma e Sangha sappia o capisca gli oggetti di rifugio.
Coltivando una profonda ammirazione, riflettendo sulle qualità di Buddha, prendiamo rifugio nel Buddha del passato e coltiviamo una profonda convinzione e fiducia nelle loro qualità e ottenimenti. Ma è anche importante capire che la presa di rifugio nei Tre Gioielli deve essere collegata alle nostre realizzazioni interiori ed esperienze del sentiero cosicchè quando prendiamo rifugio nella nostra fede, vi sia anche la fede di emulazione. Non soltanto ammiriamo i Tre Gioielli, ma emuliamo anche i loro esempi cosicchè aspiriamo per noi alla realizzazione dei Tre Gioielli. Attraverso la fede di emulazione ci impegniamo nel sentiero e coltiviamo in noi tutti i vari livelli di realizzazioni, a partire dal livello dello scopo inferiore. Come risultato di ottenere il Vero Sentiero, otteniamo cessazioni che ci permettono di essere parte del Sangha Arya e come risultato del continuare il nostro cammino culminiamo nella nostra realizzazione in cui otteniamo lo stato di Buddha.
Quindi, in questo modo dovremmo non solo essere in grado di capire la presa di rifugio in relazione ai Tre Gioielli storici, ma anche in relazione ai nostri futuri ottenimenti di Buddha, Dharma e Sangha.
Avendo ora spiegato il verso di saluto, dal secondo verso inizia la spiegazione propria degli insegnamenti. Vi si legge:
Comprendere che esistono tre tipi di persone
2 (a, b) secondo le loro capacità inferiori, medie e supreme.
Ciò che viene qui presentato qui e che è unico di questo testo di Atisha è che la presentazione degli insegnamenti è organizzata secondo una sequenza definita, secondo l’ordine dei diversi temi delle pratiche. Queste sono disposte in conformità o relazione al modo in cui devono essere praticate nella loro sequenza corretta. Ad esempio, in diversi altri trattati indiani come Madhyamikakulakarika di Nagarjuna, i Fondamenti della Via di Mezzo e Il supplemento alla Via di Mezzo, Madhyamakavatara di Chandrakirti tutti i sentieri sono presentati correttamente e la maggior parte degli elementi fondamentali del percorso sono presentati. Ovviamente questo è fatto con diversi gradi di enfasi. Ad esempio, nei Fondamenti della Via di Mezzo di Nagarjuna l’accento principale è sugli insegnamenti dell’Origine Dipendente, la vacuità e la loro relazione sebbene anche gli altri aspetti del percorso siano presentati.
Ciò che manca in questi trattati è che la presentazione degli insegnamenti non è fatta con una sequenza precisa delle pratiche per una effettiva applicazione per chi voglia avviare la pratica. Atisha ricorda che è molto importante, per avviare le pratiche, una piena comprensione della giusta sequenza in cui si dovrebbe impegnare nel sentiero. Quale pratica dovrebbe essere effettuata per prima? Quali pratiche devono seguire questa pratica iniziale ecc.? Atisha afferma che senza questa conoscenza, l’efficacia della propria pratica non potrà essere molto grande. Ad esempio prendiamo bodhicitta, l’aspirazione altruistica a raggiungere la Buddità a beneficio di tutti gli esseri. Non si tratta semplicemente di dire possa raggiungere la Buddità a beneficio di tutti gli esseri senzienti. E’ facile dirlo a parole, ma quando si tratta di coltivarla in effettivamente, come facciamo? Fino a quando il praticante non ha sviluppato una certa comprensione di ciò che è l’oggetto di aspirazione, la piena illuminazione o Buddhità, non è possibile sviluppare veramente bodhicitta. Quindi è importante una certa comprensione di cosa si intenda per l’illuminazione e una più profonda comprensione della natura della sofferenza da cui aneliamo liberarci. Per sviluppare questa forte compassione che vuole liberare gli altri dalla sofferenza, dobbiamo avere una comprensione più profonda della natura della sofferenza in relazione alla nostra esperienza personale.
Sulla base di questa esperienza personale della nostra comprensione della sofferenza saremo in grado di coltivare un forte desiderio di ottenere la libertà dalla sofferenza che è la vera rinuncia. Quando tutti questi elementi sono combinati insieme saremo in grado di generare bodhicitta, l’aspirazione altruistica ad ottenere la Buddità per il beneficio di tutti gli esseri. Affinché un aspetto importante del sentiero come bodhicitta si radichi nel nostro flusso mentale, dobbiamo prima coltivare le sue diverse componenti individualmente. Se lo faremo saremo in grado di coltivare bodhicitta. Quindi c’è un certo ordine nello sviluppo effettivo di questi aspetti del sentiero e Atisha in questo testo spiega questi vari aspetti del sentiero in relazione alla vera sequenza di pratiche individuali e la loro coltivazione, utilizzando il quadro del praticante con tre diverse capacità.
Quando parliamo di capacità inferiori, medie e superiori non facciamo necessariamente riferimento a tre persone completamente diverse. In realtà qui ci riferiamo a diversi livelli di stati mentali che il praticante può raggiungere attraverso stadi progressivi. Quindi, nella fase del principiante il praticante può essere definito di capacità inferiori e poi a seguito del progredire della pratica alla fase successiva, viene definito di capacità media. Progredendo ancora raggiunge la capacità suprema. Quindi queste tre capacità sono da intendersi in relazione a un singolo praticante in fasi di evoluzione progressiva di sviluppo mentale.
Atisha spiega l’importanza di comprendere il giusto ordine delle pratiche e di riferirle secondo i diversi livelli di realizzazioni mentali. Egli scrisse:
Scriverò chiaramente
2 (c, d) Distinguendo le caratteristiche individuali.
Possiamo vedere un’analogia perfino con la sequenza propedeutica della moderna istruzione che si compone di scuola elementare, liceo e università dove lentamente ci specializziamo in un’ area di studi. Questi tre livelli di pratiche in corrispondenza alle tre capacità possono essere paragonati ai diversi livelli di scolarizzazione. Possiamo anche relazionare l’insegnamento Atisha sui tre scopi o tre capacità ad una precedente divisione delle tre fasi di sviluppo spirituale trovata nei Quattro cento versi sulla Via di Mezzo di Aryadeva, dove scrisse che nella prima fase occorre evitare o invertire le proprie azioni malsane. Nella fase centrale rovesciamo la nostra preoccupazione per il sé o l’afferrarsi al sé e nella fase finale bisogna eliminare tutte le opinioni sbagliate, smantellare tutti i punti di vista. Questo può essere correlato alla presentazione di Atisha sui tre scopi perché quando diciamo azioni malsane ci riferiamo alle azioni negative e pensieri che sono le principali cause della nostra sofferenza.
In primo luogo evitare le azioni non meritevoli,
190 quindi prevenire l’idea di un sé grossolano.
Più tardi prevenire opinioni di tutti i tipi.
Chiunque conosce questo è saggio.]
Quattrocento versi
Quando parliamo di cause della sofferenza stiamo parlando di karma o azioni. All’interno del karma possiamo fare tre distinzioni, karma negativo o malsano, karma meritorio o sano, karma immutabile.
Il karma negativo dà luogo a sofferenza nei reami inferiori, il karma meritorio dà luogo a nascite nei regni superiori come essere umano o celeste. Il karma immutabile fa nascere nei Reami della Forma e Senza Forma. La prima fase di Aryadeva, dove si consiglia al praticante di invertire o eliminare tutto il karma negativo corrisponde allo scopo iniziale o pratica di piccola capacità. Qui l’obiettivo principale è ottenere la libertà dalle cause immediate di sofferenza, dalle sofferenze evidenti dei regni inferiori. In questo ambito la ricerca spirituale è motivata dalla paura di subire le esperienze di sofferenza nei regni inferiori.
Quindi, motivati da questa paura, cerchiamo la libertà e la pratica principale è la moralità, astenersi dalle dieci azioni negative di corpo, parola e della mente. Questo è il precetto della pratica concreta di prendere rifugio, vivere la vita secondo la disciplina etica dell’astenersi dalle dieci azioni negative. Adottiamo consapevolmente la disciplina etica, astenendoci da queste ed è la pratica reale dello scopo iniziale corrispondente alla prima fase della pratica come riferito da Aryadeva nei Quattrocento Versi.
Il secondo verso nel testo di Aryadeva afferma che l’individualità deve essere eliminata o evitata. Ciò corrisponde allo scopo medio di Atisha perché la motivazione o aspirazione principale del praticante dello scopo medio è ottenere la libertà dalla dall’esistenza ciclica. La pratica vera è eliminare le afflizioni che danno origine alle esperienze dell’esistenza ciclica. La terza riga del testo di Aryadeva, in cui afferma che tutte le opinioni alla fine devono essere smantellate, corrisponde al terzo scopo di Atisha, quello delle capacità supreme. La motivazione è ottenere non solo la libertà dalle sofferenze dell’esistenza ciclica, ma anche la piena illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri causando la cessazione della sofferenza per gli esseri senzienti. Se utilizziamo l’analogia del combattimento, possiamo dire che la pratica del Dharma è impegnarsi in combattimento con il nemico interiore, le afflizioni. Così, quando intraprendiamo una guerra contro le afflizioni, la prima fase è assicurarsi di avere un’ottima difesa in modo da essere sicuri, non vulnerabili agli attacchi delle afflizioni. Per fare questo abbiamo bisogno di costruire difese, cercando di superare le manifestazioni delle afflizioni nelle nostre azioni di corpo, parola e mente. Otteniamo ciò adottando la disciplina etica di astenerci dalle dieci azioni negative di corpo, parola e mente, assicurando così sicurezza al praticante. Dopo aver guadagnato la fiducia di avere una difesa sicura, di non essere vulnerabili agli attacchi delle afflizioni, nella fase successiva affrontiamo faccia a faccia le afflizioni, direttamente.
Possiamo fare questo dato che siamo sicuri della nostra difesa. Infine, non solo il nemico deve essere sconfitto e le afflizioni devono essere eliminate, ma dobbiamo anche assicuraci che non ne rimangano tracce, in altre parole, che neppure le propensioni delle afflizioni siano lasciate nel nostro continuum mentale. Questa è la terza fase della pratica spirituale, come indicato dalla Aryadeva, che corrisponde al terzo scopo di Atisha. Possiamo comprendere questo processo di sviluppo in termini di tre diversi livelli come i tre scopi di Atisha o le tre fasi di realizzazione o pratica di Aryadeva. Dall’altro punto di vista dell’oggetto della nostra aspirazione, ciò a cui un praticante aspira è l’ottenimento di rinascite superiori come obiettivo temporaneo e il nostro obiettivo finale è raggiungere la liberazione dall’esistenza ciclica insieme allo stato onnisciente di Buddha. Così la pratica dello scopo iniziale, la pratica chiave è incarnata nella disciplina etica di astenersi dalle dieci azioni negative di corpo, parola e della mente. Ciò assicura il conseguimento dell’obiettivo temporale che è l’ottenimento di rinascite nei regni superiori come essere umano o essere celeste. Come sottolinea Nagarjuna nella sua Preziosa Ghirlanda, per il praticante spirituale, esistono due obiettivi primari. L’obiettivo temporaneo è la rinascita in uno dei regni superiori (status elevato) e quello finale è la bontà definitiva. I fattori che danno origine a questi due realizzazioni sono la fede, primaria al conseguimento di rinascite superiori e la saggezza, primaria al conseguimento della bontà definitiva che qui deve intendersi come liberazione dall’esistenza ciclica e anche Buddhità, lo stato completamente illuminato.
Eliminare difetti ed acquisire buone qualità
230 sono le pratiche di coloro che cercano uno stato elevato.
Estinguere completamente concezioni attraverso la coscienza della realtà
È la pratica di coloro che cercano la bontà definitiva.]
Preziosa Ghirlanda
Il secondo e terzo scopo si riferiscono alla nostra ricerca del conseguimento della bontà definitiva. Quando si parla di fede nel contesto buddista, anche se in generale esistono molti tipi diversi di fede, la fede è qualcosa che viene rafforzato dalla saggezza o intelligenza. Infatti è importante avere una fede fondata sulla ragione o saggezza, oltre ad avere saggezza rafforzata da fede e compassione.
Queste dovrebbero essere coltivate in una maniera reciproca, l’aspetto dei mezzi abili del sentiero e l’aspetto della saggezza del sentiero in modo che uno rafforzi e sia complementare all’altro. Si può riassumere dicendo che le pratiche associate alla ricerca di nascite superiori e che quelle pratiche sono di scopo inferiore. All’interno della bontà definitiva esistono due livelli, la liberazione dall’esistenza ciclica in cui la liberazione è costituita dall’ eliminazione delle afflizioni. Poi c’è la bontà ultima definitiva; il raggiungimento della piena illuminazione definita come uno stato in cui sono state eliminate le afflizioni, ma anche le loro inclinazioni e impronte.
Tutte le pratiche associate al raggiungimento dall’esistenza ciclica appartengono alla capacità o scopo intermedio e tutte le pratiche associate con il raggiungimento dello stato di Buddha onnisciente appartengono alla capacità o scopo supremi. Sebbene si possa immaginare che esistano tre persone completamente differenti ognuno dei quali segue pratiche di diversa capacità.
Per esempio ci potrebbe essere un praticante che vuole solo perseguire le pratiche associate con lo scopo iniziale. Tuttavia, nel testo qui, nel testo di Atisha quando parla dei tre scopi e capacità, si riferisce in primo luogo ad un individuo che passa attraverso ciascuno di questi scopi in modo progressivo, in evoluzione. Perché il fine ultimo del praticante di questo testo è cercare di raggiungere la piena illuminazione, questo testo presenta il punto di vista di qualcuno che procede attraverso tutti e tre i diversi stadi di capacità. Il punto è che perfino i praticanti di capacità intermedia e suprema devono prima intraprendere le pratiche associate con lo scopo iniziale. Quindi c’è una sequenza precisa, in cui le pratiche del primo scopo sono preliminari comuni alle pratiche degli scopi successivi. Le pratiche di scopo iniziale sono comuni alle pratiche dello scopo intermedio e le pratiche dello scopo intermedio sono comuni per il praticante dello scopo supremo.