Insegnamenti preliminari all’Iniziazione del Kalachakra di Sua Santità il XIV Dalai Lama a Bloomington, Indiana USA, 20-22 Agosto 1999. Tema degli Insegnamenti: L’ottavo capitolo della Bodhicaryavatara di Shantideva: La Meditazione.
Traduzione dal tibetano in inglese del Prof. Ghesce Lobsang Jinpa e dall’inglese all’italiano della Dott.ssa Nicoletta Nardinocchi, revisione del Dott. Luciano Villa, per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.
Terzo giorno, 22 agosto 1999, Sessione del pomeriggio.
Domanda: Se qualcuno con un diverso background religioso segue i voti di base e crede nei concetti del Kalachakra, ma è preoccupato per il mantenimento della pratica quotidiana, dovrebbe prendere l’iniziazione?
Sua Santità il XIV Dalai Lama: Per tale persona durante la cerimonia di iniziazione a Kalachakra ci sono due parti. Una parte è fino alla entrata nel mandala, che comprende la cerimonia di preparazione all’iniziazione e poi la seconda parte è l’iniziazione vera e propria, una volta che ci si trova all’interno del mandala. Tale persona può partecipare alla prima parte della cerimonia fino all’entrata nel mandala. …
Mentre eseguirò la cerimonia indicherò ai membri del pubblico che vogliono prendere l’iniziazione possono eseguire tutte le visualizzazioni. Coloro che desiderano partecipare solo fino all’entrata nel mandala possono eseguire tutte le visualizzazioni fino a quel momento e poi, da quel momento in poi, possono semplicemente essere qui presenti come testimoni, come osservatori. Comunque lo farò presente durante la cerimonia vera e propria.
Domanda: Quando mi trovo di fronte alle sofferenze altrui, mi rattristo. Questa tristezza è la stessa cosa della compassione, oppure la vera compassione è diversa?
Sua Santità il XIV Dalai Lama: Certamente è una base per generare compassione, ma la vera compassione deve essere basata sul riconoscimento della sofferenza di tutti e tre i livelli di cui ho parlato in precedenza: sofferenza della sofferenza, sofferenza del cambiamento, sofferenza pervasiva dell’esistenza condizionata
Domanda: per favore chiarisca le distinzioni tra questo aspetto di noi stessi che noi chiamiamo “io” o sè che è illusorio e quella parte della coscienza individuale, che non è illusoria, in quanto assorbe le impronte karmiche e trascende l’impermanenza.
Sua Santità il XIV Dalai Lama: Penso che se ne possa discutere più tardi, mentre commenterò il capitolo di Shantideva.
Domanda: Lei ha scritto di aver visto un passaggio da un sutra che coloro che vedono l’originazione dipendente vedono il Dharma; coloro che vedono il Dharma vedono il Tathagata. In questo contesto, vorrei chiedere, se c’è qualche differenza tra vedere la natura di Buddha ed il conseguimento della saggezza?
Sua Santità il XIV Dalai Lama: mi sembra che, se è la realizzazione derivante dall’esperienza di vedere la natura di Buddha o se sia l’esperienza della realizzazione di saggezza come descrivono le scritture cinesi, se queste realizzazioni sono genuine, derivate da tali pratiche, penso che debbano convergere, in ultima analisi, sullo stesso punto. Questo vale anche se guardiamo alcune delle pratiche meditative dello Dzogchen o Mahamudra, ci sono metodi con cui l’essenza delle pratiche è distillata e poi presentata in maniera molto concisa.
Tuttavia credo che ci sia una differenza in termini di presentazione. Per esempio, se osserviamo le opere di Nagarjuna e di altri pandit indiani, ci sono ampie ed elaborate discussioni su come coltivare la comprensione della natura di Buddha. Tuttavia, se confrontiamo questi scritti con altri scritti indiani come i Dohas, le canzoni esperienziali dei grandi Mahasiddha, allora troveremo una prospettiva diversa, un diverso modo di affrontare la medesima questione da un punto di vista esperienziale. Ma, alla fine, credo che tutti questi debbano convergere sullo stesso punto.
Ovviamente è difficile per me dare una spiegazione completa, senza essere del tutto consapevole di che cosa avete in mente quando fate a questa domanda. Altrimenti c’è il pericolo che, se la domanda viene posta con una mente confusa, anche l’insegnante possa dare una risposta con una mente fuorviata, conducendo a complicazioni inutili e rompicapi.
Domanda: Lei ha detto che solo gli esseri perfettamente illuminati sanno quali insegnamenti sono d’aiuto e quali invece portano danno, ma ho bisogno di insegnamenti per restare sul sentiero con la mia pratica. Tutti i lama dicono di non essere illuminati. Anche io insegno etica e guarigione spirituale e mi sembra di aiutare le persone. È corretto? Posso insegnare la mia percezione della verità? Quanto male sto facendo?
Sua Santità il XIV Dalai Lama: ad esempio nel mio caso qui, in questo luogo sto dando spiegazioni sugli insegnamenti del Buddha ed il sentiero buddhista. Quando faccio questo, lo faccio sulla base di testi che sono stati scritti da grandi maestri e baso le mie dichiarazioni su grandi maestri indiani.
Tutti questi hanno le loro radici nei sutra del Buddha, così quando dò qui insegnamenti non ho l’illusione di presentarvi qualcosa a cui sono arrivato io, una qualche nuova prospettiva basata sul mio personale punto di vista intellettuale. Piuttosto mi vedo come un mezzo per ciò che è già stato scritto ed insegnato.
In realtà, secondo la tradizione tibetana, l’autenticità di un insegnamento deve avere delle radici tali per cui si possa risalire al Buddha stesso. Proprio come la purezza di un flusso di acqua può essere giudicata riconducendola alla sua fonte, allo stesso modo le mie spiegazioni si basano qui sui parametri di intuizioni e conoscenze presentate dai grandi maestri del passato. Alcuni di questi maestri hanno scritto testi tratti dalla loro esperienza personale ed alcuni che avevano le conoscenze per presentare questi punti di vista.
Allo stesso modo, se insegnate l’etica e se il vostro insegnamento è di beneficio alle persone, questo naturalmente, è lodevole. Ma, forse, da parte vostra la cosa più importante è assicurare che la vostra motivazione sia non inquinata, ma sia pura ed altruistica.
Domanda: Nel prendere i voti durante l’iniziazione del Kalachakra, prendiamo anche il voto di base del Rifugio buddista?
Sua Santità il XIV Dalai Lama: Naturalmente. In realtà proprio dal punto in cui abbiamo partecipato alla cerimonia di generazione della mente dell’illuminazione e quando abbiamo recitato “Prendo rifugio nel Buddha, Dharma e Sangha” in quel modo abbiamo preso rifugio. Tuttavia è comunque importante capire come un individuo diventa un buddista. Non si dovrebbe avere l’idea che basti partecipare ad una cerimonia di presa di rifugio in presenza di altri, per diventare buddisti. Non è certo questo il caso.
Diventiamo buddisti, anche senza partecipare ad una cerimonia, una volta che abbiamo sviluppato una profonda convinzione nell’efficacia del Buddha, Dharma e Sangha, i Tre Gioielli come fonte ultima di rifugio.
Da questo riconoscimento, quando affidiamo il nostro benessere spirituale ai Tre Gioielli, da quel momento in poi siamo diventati buddisti, che si abbia o meno partecipato a una cerimonia. Allo stesso modo, se un giorno perdiamo la fede nell’efficacia dei Tre Gioielli, come la fonte ultima di rifugio, a quel punto non siamo più buddista. Quindi, non pensate che sia necessaria una cerimonia pubblica, per entrare nell’ordine buddista o che esista una cerimonia d‘espulsione dalla comunità buddista. Non abbiate questo tipo di preconcetto.
Tuttavia, la mia opinione personale è che nella fase iniziale, sia possibile per una persona avere una profonda ammirazione, fede e convinzione in Gesù Cristo, in ciò che egli rappresenta. Allo stesso modo, allo stesso tempo, possiamo ugualmente avere grande fede, ammirazione e devozione verso il Buddha. Quindi questa non è una questione di fede a metà verso il Buddha o il Cristo. Quindi, la fede e l’ammirazione di quella persona è focalizzata sia sul Buddha che in Cristo.
Tuttavia, quando il praticante approfondisce la sua pratica spirituale, andando avanti nel cammino spirituale, la dimensione di comprensione, in particolare la comprensione basata su contemplazioni filosofiche, svolge un ruolo di enorme importanza. Così, si arriva ad un punto in cui abbiamo bisogno di seguire un unico pensiero come chi fa ricerca esclusivamente in un campo. Per esempio, se l’inclinazione spirituale di qualcuno è più fortemente teistica, dove la fede in un creatore è la base, allora dobbiamo seguire quel sentiero. Proseguire più a fondo su tale sentiero entra in conflitto con l’idea buddista di originazione dipendente.
Allo stesso modo, all’interno della tradizione buddhista stessa, è possibile che nella fase iniziale qualcuno pratichi a livello di mezzi validi o aspetti del metodo del sentiero come compassione e coltivazione di bodhicitta. A questo livello un praticante può non avere una particolare inclinazione verso una particolare visione filosofica.
Tuttavia, quando praticante, va avanti nel sentiero, la dimensione di visione, basata sulla contemplazione filosofica, diventa cruciale. A quel punto, il praticante deve seguire la propria inclinazione e scegliere uno dei percorsi filosofici che si tratti del Piccolo Veicolo o del Grande Veicolo. Anche all’interno del Grande veicolo esistono suddivisioni come la scuola della Sola Mente (detta anche Cittamatra) o la scuola della Via di Mezzo dei Madhyamika
Ora, torniamo al testo di Shantideva. Dal versetto novanta, le istruzioni principali per coltivare la pratica della bodhicitta attraverso il metodo dello scambiare sé stessi con gli altri. Penso che sia utile unire le contemplazioni del capitolo sulla pazienza con le contemplazioni e le pratiche presentate in questo capitolo sulla meditazione. Se li combiniamo è molto vantaggioso.
La pratica inizia con il seguente verso:
90
Per prima cosa mi impegnerò a meditare sulla equivalenza fra me stesso e gli altri. Debbo proteggere tutte le creature come me stesso, poiché siamo di fatto tutti uguali, tutti proviamo dolore, tutti cerchiamo la felicità.
Questo verso indica la pratica di cui ho detto in precedenza, che è la pratica di coltivare l’uguaglianza riconoscendo la fondamentale uguaglianza di sé e degli altri. Gli altri sono fondamentalmente uguali a noi nella loro aspirazione alla felicità ed al superamento della sofferenza. Quindi, dobbiamo coltivare il pensiero di voler essere al servizio degli altri con pensieri ed azioni, senza fare alcuna discriminazione tra noi stessi e gli altri. Dobbiamo relazionarci agli altri allo stesso modo.
91 Nonostante il corpo sia formato da molteplici organi, noi dobbiamo proteggerli tutti, ed allo stesso modo, tutti gli esseri hanno il mio stesso desiderio, vivere felici.
Shantideva ha detto che esistono tante diverse parti del corpo, ma fanno tutte parte di un unico organismo. Allo stesso modo, quando parliamo di esseri senzienti o di altri, anche se ci potrebbe essere una grande diversità e molteplicità, tuttavia tutti sono uguali, una cosa sola nel condividere l’aspirazione fondamentale alla felicità ed al superamento della sofferenza.
92 Pure se il dolore che provo non reca danno al corpo di altri, la mia sofferenza è quasi insopportabile a causa del mio attaccamento all’Io.
93 Nella stessa maniera il dolore degli altri non si adagia su di me, ma pure agli altri risulta insopportabile a causa del loro attaccamento all’Io.
Nei due versi Shantideva dice che, sebbene la nostra sofferenza non causi alcun danno agli altri, ma perché la nostra sofferenza fa parte del pensiero “Io sono”, allora quando la sperimentiamo diventa insopportabile. Allo stesso modo, anche gli altri, sebbene la loro sofferenza non possa materialmente essere sperimentata da altri, dato che le sofferenze altrui sono anche esse oggetto del pensiero “Io sono” da parte di altri esseri senzienti, allora dovremmo arrivare, se coltiviamo questo pensiero, al punto in cui sentiamo insopportabile vedere gli altri soffrire.
94 Ecco perché mio dovere è cancellare la sofferenza altrui; di fatto essa è come la mia, quindi devo recare benefici agli altri perché come me sono esseri viventi.
La ratio di ciò è che si dovrebbe lavorare per eliminare quella sofferenza, semplicemente perché è proprio come la nostra sofferenza: è sofferenza e, quindi, dovremmo cercare di eliminarla. Dovremmo recare beneficio agli altri, perché sono esseri senzienti come noi stessi. Il fatto che gli altri siano esseri senzienti, è motivazione sufficiente per essere da parte nostra di beneficio agli altri.
95 Visto che sia io che gli altri inseguiamo la felicità, cosa avrò di speciale io per impegnarmi solo a cercare la mia?
Shantideva spiega che noi e gli altri siamo uguali nel desiderio di essere felici. Non solo siamo fondamentalmente uguali, in questa aspirazione ad essere felici, ma abbiamo entrambi lo stesso diritto di soddisfare questa aspirazione fondamentale alla felicità. Noi e gli altri abbiamo la possibilità di essere felici e di realizzare questa aspirazione. Se noi e gli altri siamo fondamentalmente uguali nell’avere questa aspirazione, lo stesso diritto di soddisfare tale aspirazione e le stesse opportunità, allora che cosa c’è di così speciale in noi stessi? La nostra sofferenza e la nostra felicità di cui ci preoccupiamo così tanto, invece che farci interessare agli altri, non è speciale.
Shantideva fa la stessa osservazione riguardo all’aspirazione fondamentale di evitare la sofferenza. Egli scrive:
96 Ed allo stesso modo uguali nel fuggire i dolori, cosa avrò di speciale io per impegnarmi a difendere solo me stesso e non le altre creature?
97 Se la loro sofferenza non mi reca danno, perche dovrei proteggerli? E allora perché proteggere me stesso dalle sofferenze future, dato che adesso non mi danneggiano?
A volte pensiamo che se la felicità o il dolore degli altri non hanno alcuna incidenza diretta sulla nostra esperienza personale, perché dovremmo prenderci cura degli altri? Perché dovremmo preoccuparci della felicità o sofferenza degli altri? Potremmo pensare che dovremmo preoccuparci della felicità altrui solo se quella persona ha una qualche relazione con noi.
Se quella persona è stata generosa con me o se sono in debito verso di essa: allora me ne prenderò cura. Se questa è la motivazione di fondo al senso di cura e preoccupazione per la felicità altrui, allora possiamo mettere in dubbio la motivazione di interessarci alla nostra felicità e sofferenza futura. La sofferenza futura non provoca danni nel presente.
Potremmo rispondere a questa obiezione dicendo che, sebbene la sofferenza futura oggi non sia sperimentata, è cosa valida proteggerci contro la sofferenza potenziale. Perché quando la sofferenza futura si verifica, siamo noi stessi a subire un’esperienza dolorosa.
Shantideva mette in dubbio questo motivo celato da questo modo di pensare nel versetto seguente, dove dice:
98
È un errore pensare: ” nella prossima vita non soffrirò poiché chi muore e chi rinasce non saranno la stessa persona.”
Se esaminiamo attentamente, sotto questa motivazione vi è la credenza in un sé permanente, durevole. In realtà se analizziamo in dettaglio la persona che sta commettendo l’atto e la persona che ne sperimenta il risultato in un futuro, non sono esattamente la stessa persona. Possiamo fare riferimento all’identità di un individuo in termini del suo continuum, ma il sé di oggi è subordinato a particolari circostanze e condizioni, nonché a particolari caratteristiche fisiche e mentali. Mentre il sé di domani o della prossima vita è un altro sé che è subordinato ad un diverso gruppo di particolari circostanze e condizioni.
La convinzione di fondo che esista una sorta di entità duratura è falsa. Comunque, questo non mette in discussione la validità di prepararsi in modo da proteggerci contro le possibili sofferenze future, in quanto vi è una relazione tra la persona attuale e la futura sofferenza.
Se questo è il caso, si potrebbe dire che, sebbene la nostra esperienza delle sofferenze altrui non possa essere un diretto collegamento tra le due, ma se riflettiamo attentamente, scopriamo un senso di interrelazione. Indirettamente vi è una connessione tra la felicità altrui e la nostra. Se gli altri soffrono, di conseguenza soffriamo anche noi. Inoltre, gli individui vivono in società, in relazione con altri esseri e, quindi, se la società collettiva soffre, anche i singoli membri di tale gruppo soffrono. Da questi punti di vista ci rendiamo conto che in realtà vi è una relazione tra i nostri e gli altrui interessi, per cui prendersi cura degli interessi altrui è anche nell’interesse degli stessi individui.
Non possiamo dire che uno è gentile verso se stesso o che qualcuno debba qualcosa a se stesso.. Ancora, senza dubbio ognuno cerca di soddisfare la propria aspirazione alla felicità e superare la sofferenza. Ognuno si preoccupa della propria felicità, semplicemente in virtù del fatto che abbiamo l’aspirazione di base d’essere felici e di superare la sofferenza. Se questo è il caso, allora lo è anche per gli altri, a prescindere dal fatto che abbiano esteso la loro gentilezza verso un’altra persona o meno, semplicemente in virtù del fatto che sono degli esseri senzienti. Ciò è ragione sufficiente per preoccuparci della felicità o sofferenza altrui.
Soprattutto quando pensiamo ai nostri nemici, non troviamo nessun motivo per preoccuparci di loro, perché per noi quella persona è un nemico a causa di alcuni atti commessi contro di noi. Tuttavia, da un altro punto di vista, in virtù del semplice fatto che anche il nemico è un essere senziente, abbiamo ragioni sufficienti per preoccuparci della loro felicità.
Ciò perché un nemico, come tutti gli altri, ha l’aspirazione di base d’essere felice e di superare la sofferenza.
99
” Quando vi sia sofferenza, questa venga eliminata da colui che la sperimenta” bene, ed allora perché debbo difendere una ferita al piede con la mano, visto che la mano e il piede non sono la stessa cosa?
Shantideva contesta l’idea stessa che ci sia bisogno di un rapporto diretto tra due individui affinché uno di loro si preoccupi della felicità dell’altro. Se le cose fossero così, se ci debba essere un collegamento diretto tra i due affinché uno aiuti l’altro, in base a questo tipo di logica, allora è illogico che la mano venga in aiuto per un dolore alla gamba. Questo perché la mano e la gamba, anche se fanno parte di un corpo, non hanno alcun diretto rapporto tra di loro. In realtà però, quando c’è un dolore alla gamba, la mano scende a strofinare la gamba.
Facciamo così perché la mano e la gamba sono parte di uno stesso corpo. Allo stesso modo, quando coltiviamo il pensiero di sé e degli altri, all’interno della categoria degli esseri senzienti possiamo capire l’interezza o l’unitarietà ad un livello in cui, anche gli altri, come noi, desiderano essere felici. Dal punto di vista dell’aspirazione di base non c’è differenza, solo una fondamentale uguaglianza.
Nel verso 100 Shantideva continua ulteriormente questo soggetto, affermando:
100
“nonostante tutto questo sia illogico, si realizza grazie all’attaccamento all’Io.” . ma quello che è illogico per me e per gli altri esseri viventi, va estirpato comunque in modo totale, e debbo impegnarmici al meglio ad eliminarlo.
In realtà, quando esaminiamo attentamente la logica su cui distinguiamo tra il nostro interesse e quello altrui e ci prendiamo cura solo di noi stessi, alla base del nostro comportamento vi è la forte convinzione di un sé in qualche modo duraturo. V’è la credenza in un sé in qualche modo sostanzialmente vero, indipendente, e, una volta che abbiamo questo tipo di credenza in un sé sostanziale, dato che ci afferriamo al sé, sentiamo d’enorme importanza tutto ciò che sembra essere nell’interesse di questo sé. La sofferenza di questo sé deve essere abbandonata e la felicità di questo sé deve essere raggiunta. Quindi ne scaturisce un certo grado di intensità a causa di questo forte aggrapparsi ad un sé sostanziale.
Shantideva afferma che, se questa è la ragione per aggrapparsi ai propri interessi, allora tale senso d’un sé, è falso. In realtà, invece di rafforzare la motivazione d’interessarsi solo alla propria felicità, la indebolisce, in quanto è una falsa concezione di cui ci dobbiamo sbarazzare.
Penso che a questo punto si svolge in noi un dialogo interiore. Da un lato immaginiamo un sé obiettivo che è in grado di soppesare i pro ed i contro del prendersi a cuore solo i propri interessi. D’altra parte vi è la preoccupazione per il benessere altrui. In un angolo della nostra mente possiamo immaginare questo tipo di punto di vista oggettivo, ma, allo stesso tempo, possiamo visualizzare il nostro modo normale di pensare, dove tendiamo a considerare il nostro interesse come il più importante, ignorando gli interessi e la felicità degli altri esseri senzienti. Una volta entrati in questo tipo di dialogo interiore, vedendo il tutto della parte più oggettiva di noi stessi, possiamo a livello intellettuale convincerci della razionalità di questo tipo di prospettiva. Ma, a causa del nostro afferrarci al sé e delle forti emozioni che lo accompagnano, se saremo incapaci di far nostra quella conoscenza, quella consapevolezza, allora vorrà dire che saremo rimasti bloccati dalla nostra riluttanza ad accettare questa prospettiva. Si tratta d’un qualcosa di più di una reazione emotiva.
Nei versi seguenti Shantideva continua a scalzare fino in fondo la base stessa di questa estrema discriminazione tra i propri interessi e quelli altrui. La mente s’aggrappa ai propri interessi in base al presupposto che è nell’interesse di un sé permanente, di un sé sostanzialmente esistente, con una esistenza reale. In questo dialogo interiore, il sé obiettivo dice a quella mente: “continui ad aggrapparti in questo modo, ma non ci sono motivi logici per farlo”. In effetti, la base stessa su cui costruiamo l’aggrapparsi all’interesse per noi stessi è instabile, perché questo sé duraturo, che noi percepiamo come esistente, è solo una falsa percezione. In realtà, il sé non è altro che un costrutto in dipendenza da molti fattori e, quindi, dobbiamo respingere questo tipo di aggrapparsi ad un sé duraturo, obiettivo, indipendente, autonomo.
Santideva va avanti con l’esempio di altri costrutti, come l’idea di un continuum o l’idea di un aggregato. L’idea stessa di un continuum o aggregato dà l’idea che questo sia un qualcosa costruito da molte parti o istanze. Gli esempi che vengono dati sono un rosario ed una foresta. Se si esamina la natura o l’identità di un rosario, si scopre che è fatto di grani: cento e otto grani in un rosario tibetano. Se dovessimo cercare di decostruire l’identità del rosario, troveremmo 108 grani ed una stringa. Tuttavia nessuna di questi grani di per sé, singolarmente, costituisce il rosario. Quindi, è solo sulla base dell’insieme dei grani strutturati in un modo particolare che possiamo parlare di un rosario.
Quindi, un rosario non è identico ai grani che sono i suoi componenti, né il rosario esiste indipendente dai grani che lo costituiscono.
Possiamo ancora legittimamente parlare del concetto di un rosario che dipende, che è definito sulla base di 108 grani.
Analogamente, nel caso d’un bosco, possiamo parlare di una foresta solo in relazione ad un gruppo di alberi, mentre i singoli alberi non possono essere identificati come foresta. Ciò dà l’idea di un costrutto. Allo stesso modo, il sé è visto come duraturo, con un qualche tipo di esistenza reale: il che è una falsa concezione.
Shantideva scrive:
101
Quello che chiamiamo “continuum” ed ” aggregato” , se considerati come entità indipendenti, sono illusioni come i miraggi, come lo sono gli eserciti o i chicchi di un rosario. E allora, non esistendo inerentemente un entità che sperimenti il dolore, chi è colui che lo sperimenterà?
Sebbene il sé o la persona esistano solo in dipendenza da aggregati che costituiscono l’individuo, come il corpo, sensazione, percezione, coscienza e volontà, tuttavia, quando abbiamo un’idea di sé o della persona, tendiamo a sentire come se un sé si trovasse veramente al centro, come se fosse una base reale. Tutti gli altri aggregati, come il corpo, la percezione, i sentimenti, la volontà e la coscienza sono in un certo senso le caratteristiche di questo sé, qualcosa che appartiene al sé. Sentiamo come se il sé fosse la base e tutti gli aggregati fossero in un certo senso qualità o caratteristiche del sé. Così tendiamo ad utilizzare i pronomi possessivi come il mio corpo, la mia coscienza, i miei pensieri, le mie percezioni, i miei sentimenti e così via.
Comunque, tendiamo a sentire come se alla base di tutti questi aggregati, corpo, mente e così via, vi fosse un vero proprietario, a cui questi aggregati fisici e mentali appartengono. Ma, in realtà, il sé è un costrutto, che dipende dagli aggregati di corpo, mente, emozioni e così via.
Ora, diventa fondamentale per il praticante sollevare la questione se questo sé abbia un qualche tipo di realtà sostanziale, di carattere duraturo. Se esista o meno un sé alla base del nostro attaccamento agli interessi del sé e all’afferrarsi al sé: è una domanda che dobbiamo porre in quanto è una questione critica. Per esaminare la questione è utile riflettere sugli argomenti nel Mulamadhymikakarika o Fondamenti della Via di Mezzo di Nagarjuna, dove si dice che: se gli aggregati sono il sé, allora, come gli aggregati passano attraverso un processo di cambiamento, di andare e venire, anche il sé anche deve essere sottoposto a tale cambiamento.
Così come possiamo parlare del corpo che viene tagliato o ferito, dovremmo anche essere in grado di descrivere queste caratteristiche in termini del sé. Questo diventa problematico.
Così il sé non può essere identificato con gli aggregati, in quanto questi non sono identici,. Nagarjuna ha sollevato una seconda possibilità: che forse il sé possa esistere indipendentemente dagli aggregati fisici e mentali. Ma poi ha affermato che: se il sé esistesse in modo indipendente dagli aggregati mentali e fisici, allora molte delle convenzioni riguardanti il sé sarebbero insostenibili. Non possiamo dire che un individuo diventi malato o sano in quanto molte delle caratteristiche attribuite al sé sono anche attribuite agli aggregati. Ma se il sé esistesse totalmente indipendente degli aggregati, allora questo diventerebbe insostenibile. Nagarjuna conclude quindi che il sé non esiste né come identico agli aggregati né come indipendente dagli aggregati.
Se il sé fosse gli aggregati,
dovrebbe avere le caratteristiche di sorgere e cessare.
Se fosse diverso da aggregati,
Non avrebbe le caratteristiche degli aggregati.
Mulamadhyamikakarika, cap. XVIII
Dopo aver respinto l’esistenza di un sé permanente e sostanziale, Nagarjuna disse che, se le cose stessero così, come potrebbe esistere la mente, in quanto possessore di tale sé? Ancora una volta nei “Fondamenti della Via di Mezzo” Nagarjuna osserva che: se il sé duraturo, sostanziale non esiste, allora non vi sono motivi per nutrire un così forte attaccamento verso le cose che presumibilmente appartengono a questo sé come “mio”. Inteso come: il mio corpo, il mio pensieri e così via. Questo attaccamento in quanto tale, è così potente ed intenso che dà luogo alle emozioni negative. Tutto questo non ha alcun fondamento.
2 Se non ci fosse il sé,
Dove sarebbero il proprietario del sé?
Dalla pacificazione del sé e di ciò che appartiene ad esso,
ci si dovrebbe astenere
dall’aggrapparsi all’ IO ed al MIO.
Mulamadhyamikakarika, cap. XVIII
Questo tipo di riflessioni attaccano l’idea di un sé permanente, sostanziale e duraturo, esaminando in che modo si possa dire che un tale sé esista. Quando tentiamo di integrare tutta questa analisi razionale, forse il più efficace è il sommario del Ratnavali o Preziosa Ghirlanda. Qui Nagarjuna scrive che la persona non è né terra, acqua, fuoco, vento o un elemento dello spazio e che, tuttavia, la persona non esiste al di fuori e indipendente dagli elementi. Nagarjuna non arriva a dire che la persona non esiste, piuttosto afferma che, poiché la persona esiste solo in dipendenza da una aggregazione di elementi, ne consegue che la persona, se intesa come avente qualche tipo di realtà obiettiva, sostanziale è falsa.
80
Una persona non è terra, nè acqua,
nè fuoco, vento, spazio,
Non è coscienza, non è niente di ciò;
Esiste un persona diversa da questi?
81AB Così come la persona non è definitiva,
Ma è un insieme di sei componenti,
83 questi, come il sé, sono falsi.
Ratnavali
Questa realizzazione è un fattore critico. In questo passo Nagarjuna sottolinea che la vera comprensione della non-esistenza sostanziale della persona non è costituita esclusivamente da un punto di vista negativo.
In questa comprensione ci deve essere anche un elemento di apprezzamento per la natura del sé come origine-dipendente. Così, sebbene la comprensione della negazione dell’esistenza intrinseca sia in termini d’una negazione e non vi sia alcuna apparente associazione con l’ originazione–dipendente, tuttavia nella nostra comprensione della vacuità deve esserci del potenziale per apprezzare la natura dipendente. In sostanza, ciò che viene sottolineato è che il sé che noi tendiamo a credere esistente con una natura duratura, una sorta di realtà obiettiva, intrinseca è una percezione falsa.
Il sé non esiste in questo modo, il sé esiste solo in relazione agli aggregati. Quindi Nagarjuna conclude nei “Fondamenti della Via di Mezzo” che tutto ciò che è origine-dipendente deve essere conosciuto come vuoto. Questa è la via di mezzo e questo è anche accettato come venire designato in modo dipendente. E’ in questo modo in cui dovremmo cercare di distruggere il nostro afferrarci ad un sé duraturo, sostanziale.
18
Tutto ciò che è sorto come orgine dipendente
è spiegato come vacuità.
Essendo una designazione dipendente
È esso stesso la via di mezzo.
Mulamadhyamikakarika, cap. XXIV
Nagarjuna scrive inoltre che non esiste nulla che non sia origine dipendente: quindi non c’è nulla che non sia vuoto.
Se usiamo la logica dell’origine dipendente come prova per la vacuità della realtà intrinseca, poi, quando pensiamo alla vacuità, nella stessa idea di vacuità c’è una sorta di pienezza. Non viene suggerita l’inesistenza totale o il nulla, ma si suggerisce piuttosto una sorta di esistenza. Si suggerisce l’origine.
19
Qualcosa che non sia sorto come dipendente
non esiste.
Quindi non esiste una cosa che non sia vuota.
Mulamadhyamikakarika, cap. XXIV
La vacuità dell’esistenza intrinseca, non viene presentata solo dicendo che quando sottoponiamo cose ed eventi ad analisi critica non le troviamo, sono introvabili. Piuttosto, la prova è che cose ed eventi sono privi di esistenza intrinseca, perché cose ed eventi sono origine-dipendenti.
La comprensione della realtà dovrebbe essere tale da essere in grado di distinguere tra la realtà di una persona reale e quella di una persona in sogno. Inoltre, dobbiamo essere in grado di distinguere tra gli animali nei nostri sogni e gli animali visti nella vita reale.
Così, utilizzando il ragionamento di origine dipendente, ciò che viene respinto, ciò che viene negato è il tipo di sé che tendiamo a credere come possessore di una sorta di realtà indipendente, obiettiva, sostanziale, intrinseca. Tuttavia, questo non nega ciò che ancora rimane, il semplice sé che è solo una denominazione semplice, un nome semplice ed una mera esistenza. Una volta che abbiamo questa comprensione più profonda della vacuità saremo in grado di capire meglio cosa si intende per sé e gli altri. Questa distinzione tra sé e gli altri sarà riconosciuta esclusivamente a livello di designazione e puramente a livello di convenzione.
Infatti, c’è un modo di intendere l’espressione tibetana del mondo dell’apparenza e dell’esistenza. Possiamo leggere questa espressione in modo tale che l’apparenza si riferisca al livello di percezione dove ci rapportiamo a cose ed eventi come se esistessero esclusivamente a livello convenzionale. Esistenza allora si riferisce alla loro natura ultima. Così, questa espressione, il mondo dell’apparenza e dell’esistenza, possono essere letti insieme, come indicanti un’unione di vacuità…
Questo risponde anche alla domanda posta in precedenza: su quali aspetti del sé, quale grado di percezione del sé è illusorio e quale grado di percezione del sé è valido. Come ho detto in precedenza, ciò che dobbiamo capire è che è illusoria e falsa la percezione del sé, la concezione del sé dove crediamo in un qualche tipo di sé obiettivo, intrinsecamente inesistente, Mentre è valido il senso del sé, basato esclusivamente sul riconoscimento della realtà fenomenica, la realtà convenzionale del sé non fondata su una credenza in una sorta di realtà oggettiva del sé, questo grado di percezione di sé. Questo è il modo in cui possiamo distinguere …
Tuttavia nella percezione di esseri ordinari come noi non esiste percezione che non sia influenzata dall’ipotesi dell’esistenza duratura, obiettiva ed intrinseca di cose ed eventi. Tutte le nostre percezioni sono influenzate da questo presupposto. Quindi, puramente a livello della nostra percezione, è molto difficile, quasi impossibile, essere in grado di determinare in che misura questa percezione è valida e in che misura è affetta da una concezione della realtà intrinseca.
Tuttavia, a mano che approfondiamo la nostra comprensione della vacuità e cominciamo ad avere l’esperienza della mancanza di realtà intrinseca, a seguito di questa intuizione, rapportandoci al mondo empirico o convenzionale, allora, anche se useremo gli stessi termini, come “sé” ed “altri”, tuttavia sentire la parola sé, avrà un effetto diverso sulla nostra mente. La parola è la stessa, e si riferisce alla stessa persona, ed anche quando usiamo la parola altri, è la stessa parola che si riferisce agli stessi oggetti, ma, a causa della nostra precedente esperienza meditativa della negazione della realtà intrinseca, ha un effetto diverso, ha un significato diverso. Ha una certa freschezza per noi ed in questo modo avremo anche una nuova prospettiva non solo del sé, ma degli altri e, di fatto, dell’intero universo, Buddha, causa ed effetto e così via. Percepiamo tutto ciò in una luce nuova.
Così possiamo dire o immaginare che una persona con una tale visione abbia una prospettiva diversa nella relazione con il mondo con un impatto diverso, perché sicuramente avrà un minor grado di proiezione sul mondo. Dato il minor grado di proiezione, avrà un potenziale minore di creazione di reazioni emotive potenti, negative, come l’estremo attaccamento, la rabbia, l’ostilità e così via verso gli altri e il mondo.
Shantideva nei due versi successivi conclude. Nel verso 101, scrive:
101
Non vi è alcun reale proprietario della sofferenza,
Dunque, che ne ha il controllo?
Nel verso 102 estende agli altri questa analisi della non sostanzialità ed irrealtà del sé. Egli continua dicendo:
102ab
Non essendoci un proprietario (intrinseco) della sofferenza
Non ci può essere alcuna distinzione tra me stesso e gli altri.
Così come non esiste un sé duraturo, sostanziale, così non esistono gli altri come duraturi, sostanziali. Allo stesso modo non vi è felicità o sofferenza reale, durevole, obiettiva o sostanziaei.
Egli continua dicendo:
102cd Così scaccerò la sofferenza, perché è dannosa:
Perché sono così sicuro che non dovrei eliminare la sofferenza altrui?
Possiamo motivare di voler scacciare la sofferenza solo per il fatto che è dolorosa, che non è desiderabile. Quindi egli mette in dubbio il perché siamo così certi di non poter eliminare la sofferenza altrui. Non vi è certezza, in quanto nessuna certezza è stata scalzata negando qualsiasi sé durevole ed oggettivo.
Shantideva continua:
103
” per quale motivo devo eliminare la sofferenza di tutti gli altri esseri e non solo la mia?” senza dubbio invece è una necessità, poiché se non mi impegno a liberare dal dolore gli altri esseri, visto che la mia sofferenza, sebbene in questo mondo di illusione, è uguale alla loro, non dovrei pensare a liberarmi della mia.
Il verso successivo recita:
104-
” dato che praticare la compassione mi provocherà sofferenza, perché dovrei impegnarmi a far crescere tale compassione?” Nel contemplare le terribili sofferenze che subiscono gli esseri senzienti, come è possibile considerare grande la sofferenza che nasce dal praticare la compassione?
Nei versi seguenti, dal 107 fino alla fine del 110, Shantideva sottolinea il punto essenziale che, attraverso l’addestramento della mente, attraverso la coltivazione della familiarità costante, siamo in grado di sviluppare la compassione. Possiamo inoltre sviluppare il pensiero che si prende cura della felicità di tutti gli altri esseri senzienti. Come ho spesso detto ad altri, nel mio caso, quando ero sulla trentina ho sviluppato un particolare interesse ad approfondire la comprensione della vacuità. C’è stato un momento in cui, ogni volta che pensavo alla verità della cessazione, sentivo d’averne acquistato almeno un senso del significato, derivato da estese letture e dalla meditazione. La mia aspirazione al conseguimento della cessazione era così forte che avevo la sensazione che, solo dopo aver raggiunto la vera cessazione, avrei potuto prendere una lunga pausa ed un periodo di riposo. In quel periodo ero solito pensare agli ideali di altruismo, alla felicità di tutti gli altri esseri senzienti. Sebbene avessi profondo rispetto e ammirazione, tuttavia nella mia mente questi ideali rimanevano lontani ed impossibili da raggiungere. Tuttavia, dopo aver cominciato ad impegnarmi maggiormente in queste pratiche, a familiarizzare i miei pensieri con gli ideali di altruismo, bodhicitta e così via, a poco a poco ho sentito che la mia mente si stava avvicinando. La mia affinità con queste pratiche stava diventando sempre maggiore, cosicché, in seguito, quando pensavo all’altruismo ed ai suoi ideali di lavoro per il beneficio di altri esseri senzienti, non mi sembravano più impossibili o distanti.
Possiamo vedere che si è verificato un processo di cambiamento in me stesso. Tutti voi qui riuniti avete esattamente lo stesso potenziale come me. Non c’è niente di speciale in me, non possiedo nessuna capacità particolare o un potenziale unico. Il potenziale che ho per la trasformazione interiore è esattamente lo stesso che avete tutti voi.
Pertanto, se vi impegnate nelle pratiche, anche voi avrete questa trasformazione. Avrete benefici, otterrete i frutti delle vostre pratiche. Sarete in grado di farlo, anche se adesso sembrano impossibili nozioni come pensare agli ideali di prendersi a cuore la felicità di altri esseri senzienti e considerare la felicità degli altri come più importante della propria. Possono sembrare poco pratiche, aldilà della propria comprensione ed esperienza.
A poco a poco, come addestriamo la mente e sviluppiamo una familiarità costante con questi ideali e pratiche, arriviamo ad un punto in cui non ci sembrano più inconcepibili, ma li abbracciamo con gioia. Saremo lieti di dedicare la vita agli ideali di servire gli altri e preoccuparci della felicità degli altri esseri senzienti. Sarà così forte che riconosceremo il servizio agli altri come il nostro stesso scopo di vita. Quando questo accadrà, allora la nostra dedizione agli altri sarà totalmente incondizionata, il nostro prenderci cura degli altri sarà totalmente incondizionato, senza alcun desiderio di qualsiasi ricompensa o riconoscimento dagli altri. La nostra motivazione sarà completamente altruista ed incondizionata.
Shantideva prosegue nel verso 111 che attraverso la costante familiarità ed abitudine possiamo cambiare i nostri atteggiamenti e percezioni.
Nonostante una goccia di sangue ed una di seme maschile non siano l’essenza di una vera entità, a causa della convenzione mi ostino a considerarla un “Io” questo corpo che mi contiene.
Queste considerazioni continuano fino alla fine del verso 119.
Nel verso 120 Santideva scrive:
Ecco perché chi desidera divenire rapidamente un rifugio per se e gli altri, dovrebbe praticare questa santa consuetudine, cioè scambiare se stesso con gli altri.
La protezione di cui Shantideva parla, si riferisce ad un livello di stabilità acquisito attraverso la crescita spirituale. Ci riferiamo ad una persona che ha di base una costanza e stabilità nella propria mente tale che le circostanze esterne o l’ambiente non possono minarla. Tale persona, che è saggia e ha la facoltà dell’intelligenza, dovrebbe impegnarsi nel santo segreto. E’ chiamato segreto perché è una pratica che è appropriata ed efficace per gli esseri dalle facoltà superiori, perfino tra i bodhisattva. Questa pratica è lo scambiare se stessi con gli altri.
Dal verso 121 alla fine del verso 124, Shantideva presta particolare attenzione a come superare l’attaccamento al corpo. Dal verso 125 Shantideva spiega dettagliatamente le visualizzazioni sui pro ed i contro il pensiero che predilige la propria felicità rispetto al pensiero che predilige quella altrui. Così sono discussi gli svantaggi del prendersi a cuore se stessi ed i vantaggi del prendersi a cuore la felicità altrui.
In sostanza, i quattro aspetti della pratica sono stati suggeriti nello Siksasamuccaya di Shantideva, il Compendio degli atti, che credo sia qui molto pertinente in relazione al proprio corpo, risorse e così via. Shantideva raccomanda che nella nostra pratica, dobbiamo non solo essere in grado d’offrire mentalmente il nostro corpo, ma anche d’apprezzarlo in modo di proteggerlo e di tutelarlo. Dobbiamo anche purificare il corpo e quindi valorizzarlo. Questo tipo di approccio in quattro fasi è importante. Anche nei “Quattrocento versi sulla Via di Mezzo” di Aryadeva, dove, dopo aver spiegato la natura impura del corpo, passa poi a dire che, anche se le cose stanno così è importante apprezzare al tempo stesso le opportunità concesse da tale esistenza corporea.
Dal verso 125 Shantideva spiega in dettaglio gli svantaggi e gli effetti negativi di prediligere la nostra felicità e gli effetti positivi di prediligere la felicità degli altri esseri senzienti. Egli scrive:
125
” se dono questa cosa, io non potrò goderne” questo è un pensiero egoistico comune ai demoni. ” se io godo di questa cosa, cosa mi resterà poi da donare?” questo invece è un pensiero altruistico di virtù divina.
126
Se per beneficare me stesso causo danno agli altri, poi sarò tormentato nei regni degli inferi, ma se per il bene degli altri devo danneggiare solo me stesso, otterrò ogni tipo di virtù.
Se, per il bene di noi stessi danneggiamo le vite degli altri uccidendoli, questo porta alla rinascita nei regni infernali. Danneggiare proprietà o risorse, come rubare o sedurre i loro partner con una cattiva condotta sessuale, sono tutti atti negativi che ledono direttamente gli altri.
Questi misfatti portano a conseguenze negative. D’altra parte se, per il bene degli altri, riceviamo un danno, il risultato che ne scaturirà sarà solo di gloria.
Shantideva continua:
127
Desiderando solo per me stesso il bene otterrò ottusità e rinascite sfortunate, ma se lo stesso desiderio lo esprimo verso il favorire il bene degli altri otterrò saggezza e rinascite fortunate.
Shantideva presenta l’ideale Kadampa di mantenere l’umiltà, che mi sembra, è molto importante come ha scritto Dromtonpa. Ha scritto che anche se il mondo intero ci elevasse con grande stima, dovremmo mantenere una profonda umiltà. Quando si parla di umiltà, è importante che venga davvero da dentro. Non dovrebbe essere una falsa umiltà, una sorta di una finzione per cui in un pubblico cerchiamo di agire in modo molto umile, mentre in fondo abbiamo una enorme arroganza e presunzione. Questo non è il tipo di umiltà di cui parlo. Il tipo di umiltà a cui mi riferisco si trova anche negli “Otto versi dell’addestramento mentale”, in cui si legge
Quando sarò con gli altri,
riterrò me stesso come il meno importante,
Questo è il tipo di umiltà qui suggerito.
Shantideva continua:
128
Se mi approfitto degli altri, fruttandoli come fossero schiavi per i miei scopi, io stesso in futuro vivrò in schiavitù, ma se mi impegno per il bene altrui otterrò solo di rinascere come sovrano o cosi via.
129
Tutte le gioie di questo mondo vengono dal desiderio che gli altri raggiungano la felicità, ed ogni sofferenza di questo mondo viene dai desideri egoistici che io esprimo.
130
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Necessitano forse altre spiegazioni? Basta guardare la differenza che vi è fra Buddha e gli sciocchi, i primi si preoccupano del bene di tutti, i secondi egoisticamente solo del loro.
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131 Quindi se io non elargisco ad altri la mia felicità, per alleviare le loro sofferenze, in nessun caso otterrò l’illuminazione, ed anche in questa esistenza ciclica mai avrò delle gioie.
132 con la sofferenza degli altri,
non otterrò lo stato di Buddha
E perfino nell’esistenza ciclica non avrò gioia.
Per non parlare aldilà di questo mondo-
Quindi, questi sono gli effetti di un’eccessiva predilezione per se stessi perfino in questo mondo. Poi continua:
133
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Abbandonando la causa delle felicità di questa vita e delle prossime, cioè il praticare per il bene degli altri, gli illusi infliggono sofferenze agli altri, ma poi le subiranno loro nelle prossime vite.
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134
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Dato che in questo mondo i mali, le paure ed i dolori sono effetto dell’attaccamento all’Io, a cosa i sarà utile questo demoniaco Io.
Questo aggrapparsi al sé può essere interpretato: sia come aggrapparsi ad una realtà sostanziale del sé, all’esistenza del sé della persona e dei fenomeni, ma può anche riferirsi al pensiero di prediligere se stessi. Infatti, normalmente, negli esseri ordinari questi due pensieri dell’aggrapparsi al sé e di prediligere se stessi sono quasi indistinguibili e si rafforzano a vicenda. Nel caso degli Arhat, che hanno ottenuto la liberazione dal samsara, sebbene possano avere eliminato l’aggrapparsi al sé, c’è ancora in loro traccia della predilezione per se stessi. Quindi, qui, in questo verso si riferisce ad entrambi i pensieri.
Nei seguenti versi Shantideva prosegue con questo argomento. Dal verso 141 suggerisce l’esperimento di un particolare pensiero: immaginiamo un aspetto di noi stessi che è l’incarnazione dell’egocentrismo.
Questa è il “primo” sé, il sé che ritiene e considera la propria felicità come la più importante, ignaro della felicità altrui. Immaginiamo quindi un aspetto di noi stessi come l’impersonificazione dell’egocentrismo. Immaginiamo ora un altro aspetto del sé capace di vedere gli svantaggi dell’egocentrismo e che accetta come valido il pensiero di prendersi a cuore gli altri esseri senzienti.
Dopo aver immaginato noi stessi in questi due modi, mettiamoci dalla parte degli altri esseri senzienti, confrontando l’impersonificazione della predilezione per noi stessi con gli esseri senzienti che sono inferiori a quell’altra incarnazione. Mettiamoci dalla parte degli esseri senzienti meno abbienti, immaginiamo ed imitiamo sentimenti di gelosia, invidia e risentimento verso chi sta meglio e bada solo a sé stesso.
141
Invidia
” egli è onorato , e io no. Sono povero, non possiedo ricchezza come lui. Lo riempiono di lodi, ed io vengo disprezzato, ad egli tutto va bene mentre io ho solo difficoltà”.
Questo ripensamento va avanti fino alla fine del verso 146. Dal verso 147 fino al 150 prosegue con un pensiero simile, ma visto degli esseri senzienti abituati ad auto gratificarsi.
147
Competizione
“Ecco, io per essere superiore a colui che è considerato un mio pari, mi impegnerò ad accumulare ricchezze materiali ed onori anche attraverso conflitti”.
Cerchiamo di sperimentare questo processo di pensiero imitando la competitività finalizzata alla predilezione per se stessi.
Dal verso 151 al 154 è il momento degli esseri senzienti che comprendono gli svantaggi dell’atteggiamento egoistico..
Passiamo attraverso processi di pensiero che imitano i sentimenti dell’importanza del sé o enfatizzano la vanagloria in relazione al sé che predilige sè stesso.
154
” farò in maniera tale che la sua felicità scompaia, costantemente lo danneggerò, poiché in questa esistenza condizionata egli mi ha recato danno per molte volte.”
A partire dal verso 154, inizia la motivazione del perché dobbiamo scambiare noi stessi con gli altri. Questa logica è basata sul riconoscimento degli svantaggi e le conseguenze negative di un’eccessiva predilezione per noi stessi.
155
Mente mia, mossa per infinite ere da simili pensieri e desideri, invece del tuo beneficio hai ottenuto con tutta questa fatica il risultato di sperimentare la sofferenza.
Contemplando gli aspetti negativi o svantaggi di una eccessiva predilezione per se stessi, si arriva al verso 168. Il punto principale è sintetizzato riflettendo da vari punti di vista sugli svantaggi, gli effetti negativi o le conseguenze dell’eccessiva predilezione per se stessi.
Dalla fine del verso 168 fino al verso 173 Shantideva suggerisce un metodo più severo per trattare la mente che continua insistentemente nella predilezione per se stessa.
Egli scrive:
168
Ma, se nonostante tu sia stata a lungo avvertita, tu agissi in modo scorretto, mente mia raccoglierai i frutti della punizione poiché tutti i mali hanno avuto origine da te.
Ora che abbiamo capito le conseguenze negative della predilezione per se stessi, dobbiamo impegnarci a non permettere alla mente d’essere sopraffatta da questa auto predilezione. Questi metodi più severi di trattare la mente che indulge persistentemente nella predilezione per se stessa, anche dopo averne riconosciuto le conseguenze negative, è spiegato fino alla fine del verso 173.
Dal verso 174 Shantideva suggerisce un simile metodo rigoroso per affrontare l’eccessivo attaccamento al proprio corpo che può ostacolare l’esercizio della nostra aspirazione altruistica. Così scrive.
174
Più tenterò di evitare la fatica a questo corpo, tenendolo nell’ozio e nei vizi, più tale corpo diverrà fragile e debole.
Shantideva continua a sottolineare che, dal punto di vista del corpo stesso, la sua natura è che alla fine giacerà immobile e, per effetto di specifiche cause, si trasformerà in polvere. Egli elimina ogni base per afferrarsi o aggrapparsi a questo corpo come mio. Questo processo di pensiero va avanti fino alla fine del verso 184, dove scrive:
184
Quindi libero da ogni attaccamento donerò questo corpo per il bene di tutti gli esseri senzienti, così anche se esso ha dei difetti ne avrò cura per potere servire attraverso esso gli altri.
A partire dal verso 185 Shantideva riassume tutto il discorso, facendo il seguente punto della situazione.
185 bis
Quindi: basta con questo comportamento infantile!
Fondamentalmente Santideva suggerisce che, fino a questo punto, in tutta la nostra vita precedente siamo stati guidati dall’egocentrismo. Qual è stato il risultato di ciò?
185B
Seguirò le orme del saggio,
Il saggio qui sono i bodhisattva.
185cd
E dopo aver ricordato il consiglio sulla coscienziosità,
allontanerò il sonno ed il torpore mentale.
Cercheremo in tal modo di coltivare la concentrazione della mente su un solo punto, da poter utilizzare per lo sviluppo ed il rafforzamento di bodhicitta attraverso il metodo di scambiare se stessi con gli altri.
Shantideva prosegue:
186ab
Proprio come i Figli compassionevoli del Conquistatore,
pazientemente accettarò quello che devo fare;
Con pazienza si riferisce alla necessità di applicare uno sforzo continuo, concertato.
186cd
Perché se non faccio uno sforzo costante giorno e notte,
Quando finirà mai la mia miseria?
187
Perciò al fine di eliminare ogni tendenza negativa, controllerò attentamente la mia mente e la terrò concentrata nella perfetta meditazione per cancellare ogni offuscamento.
Così finisce il capitolo sulla meditazione.
Quindi, la cosa più importante è praticare. Naturalmente sta al singolo individuo valutare se tutto ciò gli è d’interesse, altrimenti lo può tralasciare. Ma, se siamo interessati a questa pratica, è allora importante approfondirla attraverso uno sforzo costante. In questo modo avremo la possibilità di sperimentare qualche cambiamento graduale.
Una volta che abbiamo provato l’esperienza basata sulla pratica, come quando proviamo un piatto particolare, inizieremo ad avere una certa sensazione di quell’esperienza: la dimensione esperienziale della pratica. Per esempio, quando ora leggiamo il testo, possiamo provare ammirazione ed anche una sorta d’accettazione pensando che è prezioso e meraviglioso. Ma, a seguito della familiarità continua e della coltivazione della pratica, arriveremo a non avere semplice ammirazione ma saremo in grado di mettere in relazione il testo con la nostra esperienza personale. In questo modo lasceremo potenti impronte nella nostra mente, che saranno trasmesse a molte vite future.
Questo conclude l’insegnamento e, purtroppo, non abbiamo tempo per la meditazione, che dovrete quindi fare da soli, a casa vostra, integrata ai momenti di sonno ed ai lavori domestici. Decidete voi. Così, per coloro che si ritengono di essere buddhisti praticanti è importante è fare un nuovo inizio. Da ora in poi dovreste iniziare un nuovo capitolo, vi sforzerete di essere persone migliori, cercando un nuovo modo per diventare buoni esseri umani. Cercate anche di realizzare la vostra aspirazione alla felicità in modo spirituale integrando queste pratiche su base giornaliera. Questo è ciò che vi suggerisco ed è il mio appello.
Per quelli di voi che sono praticanti di altre tradizioni religiose, in base alle spiegazioni che ho dato dal testo, esistono molti aspetti, delle pratiche discusse in questa sede, comuni a tutte le tradizioni spirituali. Queste possono essere integrate nel proprio studio e adottate. Certe forme di meditazione o processi di pensiero molto specifici per una particolare visione dottrinale buddista naturalmente, allora, non sono compatibili. Potete tralasciarle, ma tutte le altre riflessioni che hanno un valore comune, possono essere integrate nella vostra pratica spirituale.
Infine grazie a tutti voi.
Note sui testi
1. La traduzione di Guida allo stile del Bodhisattva di Shantideva è quella di Stephen Batchelor, Library of Tibetan Works and Archives.
2. La traduzione di “Fondamenti della via di mezzo” di Nagarjuna è di Jay Garfield, Oxford University Press.
3. La traduzione della Preziosa Ghirlanda è di Jeffery Hopkins, Harper & Row.
COLOPHON
Trascritto e digitato da Phillip Lecso da audiocassette ottenute dal Centro di Cultura Tibetana intitolate Insegnamenti preliminari a Kalachakra. Mi assumo la piena responsabilità per tutti gli errori che si sono verificati, attraverso ascoltare e scrivere in modo non corretto ciò che è stato insegnato, per questi mi scuso. Possano essere tutti di buon auspicio. Possa ogni merito da questa attività essere per la lunga vita e buona salute di Sua Santità. Che tutti gli esseri senzienti possano rapidamente raggiungere lo stato del glorioso Kàlachakra anche attraverso questo sforzo imperfetto.