S.S. Dalai Lama: Insegnamenti Zurigo 5

QUINTA parte degli

INSEGNAMENTI DI SUA SANTITA’ IL XIV DALAI LAMA

LA VIA AL SUPERAMENTO DELLE EMOZIONI PERTURBANTI

5 – 12 agosto 2005, Zurigo, Svizzera

Commentario ai testi

Bodhicharyavatara (Introduzione alla via del Bodhisattva) di Shantideva https://www.sangye.it/altro/?p=470

Bhawanakrama (Livello intermedio della meditazione) di Kamalashila

Appunti, traduzione dall’inglese ed editing dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa, del Dott. Luciano Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.

SUA SANTITA’ IL XIV DALAI LAMA

COSA CI VINCOLA AL SAMSARA?

I cinque aggregati sulla base dell’accumulazione d’azioni motivate da afflizioni rappresentano il vincolo alla condizione dell’esistenza ciclica: il samsara. QUAL È LA NOSTRA RELAZIONE CON GLI AGGREGATI?

Istintivamente aderiamo agli aggregati come “io”, attraverso la vista percepiamo un oggetto ed esclamiamo “io ho visto”. Oppure, diciamo: ”Ero giovane, sono giovane, sono vecchio. Lo sento caldo, ho freddo”. L’io si evidenzia quando percepiamo l’oggetto attraverso la coscienza visiva, ad esempio, affermando: “Io vedo. Io sono giovane, adulto, vecchio”. In questo caso, abbiamo, comunque, la sensazione che sono sempre “io”, qualunque sia la sensazione. “Io sono nato il tal giorno”.

C’È FORSE BISOGNO DI CUSTODIRSI COME UNITÀ?

In base a queste affermazioni si fa strada, anzi si radica in noi la sensazione di una costante immutabilità di un io.

Ma, gli aggregati sono invece in costante mutamento.

ESISTE UNA PERSONA SEPARATA DAGLI AGGREGATI?

No, eppure è il corpo a patire la malattia, quando pensiamo: “Io sono malato”. Avvertiamo il corpo soffrire proprio perché non esiste una netta separazione, non s’instaura una totale dissociazione con la coscienza che ne avverte lo stato patologico.

Quando dico: “Io sono in salute”. È perché mi sento tale, e lo posso affermare in base agli aggregati. Quindi, il corpo grossolano cambia, ed è difficile associare un io autonomo all’io grossolano, imputare un’etichetta a questo io variabile, che non possiede un’identità autonoma, indipendente. Perciò, l’io risulta semplicemente una imputazione, la presenza dell’io autonomo ed indipendente è negata agli aggregati. Sulla base della coscienza (ad esempio della coscienza visiva, a sua volta sorretta della facoltà sensoriale visiva), sopraggiunge l’imputazione dell’io. Anzi, questo processo si realizza sulla base dell’aggregato grossolano psicofisico.

PER NAGARJIUNA NON ESISTE UN’UNITÀ UNITARIA TRA CORPO E MENTE, MA SOLO UN FLUSSO ASSOCIABILE A QUESTA ENTITÀ EFFETTIVAMENTE ESISTENTE, RAPPRESENTATO DALLA COSCIENZA.

Sulla base della coscienza nasce l’imputazione dell’io, e sulla base dell’aggregato grossolano psicofisico, ad esempio, della facoltà sensoriale visiva, s’identifica erroneamente l’io funzionale come indipendente.

Quindi, è la base della coscienza della percezione visiva a fare da condizione. E, se questa facoltà fosse danneggiata, risulterebbe impossibile la percezione tramite la vista. Il processo dipende quindi da condizioni esterne ed interne.

CHIARO CONOSCITORE

La coscienza grossolana dipende da diverse condizioni, il cui momento primo dovrebbe essere dello stesso genere; altrimenti, se la coscienza fosse prodotta da un’altra entità dalle caratteristiche diverse da essa, cadremmo in contraddizione.

Se volessimo risalire all’inizio della generazione del corpo, insomma, alla base del corpo, dovremmo tornare indietro all’infinito, perché saremmo obbligatoriamente costretti a doverci riferire ad un’energia d’ordine materiale. Sarebbe difficile asserire, anzi quasi impossibile sostenere, la mancanza d’inizio d’una entità contemporaneamente caratterizzata da coscienza e materia. Infatti, non è sostenibile una continuità contemporaneamente generata da principi di ordine fisico e mentale. Qualsiasi fenomeno caratterizzato simultaneamente da un aspetto spirituale e materiale deve risultare, a sua volta, prodotto o derivato da un qualcosa dello stesso tipo, che possiede le medesime caratteristiche.

IN ESSENZA, SI POTREBBE DIRE CHE NON ESISTE UN CONTINUUM DI QUEST’IO, CONTEMPORANEAMENTE ASSOCIABILE SIA ALL’ENTITÀ DELLA COSCIENZA SIA AGLI AGGREGATI GROSSOLANI COSTITUENTI IL CORPO.

Anche se volessimo instaurare una stretta correlazione tra coscienza grossolana ed il sistema nervoso centrale SNC, il cervello come sede dell’entità della coscienza, ci troveremmo in difficoltà. Infatti, in tal caso, quando si arrestano le attività fisiche, quando cessano i processi biologici, anche la coscienza si bloccherebbe.

Esiste una differenza tra coscienza uditiva, visiva, olfattiva, gustativa, e la facoltà cognitiva di base, la coscienza pura?

CAUSA CIRCOSTANZIALE, CAUSA SOSTANZIALE O PRIMORDIALE

ESISTE UN RISULTATO DETERMINATO DA UNA CAUSA AD ESSO SIMILE?

Sì, può esistere un fenomeno causato immediatamente prima da una sostanza simile, che ne possiede le stesse caratteristiche. Se lo stato immediato di coscienza è correlato al suo precedente e, così via, si risale all’infinito.

QUANDO HA AVUTO INIZIO LA COSCIENZA?

C’è qualcosa d’inanimato che di colpo s’è fatto coscienza?

Non ci sarebbe logica alcuna nell’asserzione di questo concetto.

Necessariamente, occorre ammettere l’esistenza d’una continuità, d’una sostanza simile. Abbiamo da non molto scoperto la trasmissione genetica da un individuo all’altro, da una generazione alla successiva. Ci sono teorie che postulano che alla base di questa trasmissione, anzi di questa generazione di principi biologici vitali, si ritrovano delle particelle subatomiche, e si parla anche di particelle spaziali.

COM’È POSSIBILE AFFERMARE CHE CI SIA STATO UN INIZIO, INTESO COME UN BRUSCO PASSAGGIO?

E’ impossibile che questo non sia stato della stessa natura, perché il mondo e l’universo non hanno inizio, perché derivano da una continuità ininterrotta, sia di tipo fisico, sia per quanto concerne la coscienza.

È l’unica spiegazione logica. Altrimenti qualcosa potrebbe derivare dal nulla.

COMPASSIONE, AMORE, EMPATIA

OCCORRE IN OGNI CASO STABILIRE UNA MENTE EQUILIBRATA CHE NON FA DISTINZIONE FRA AMICI E NEMICI, ED ESTRANEI: UNA MENTE EQUANIME APPUNTO, CHE ESTENDA LA CONOSCENZA VERSO TUTTI GLI ESSERI INFINITI COME LO SPAZIO.

La mente compassionevole esprime la caratteristica di desiderare che tutti gli esseri siano liberi dalla sofferenza. Se, invece, ci focalizziamo sulla figura d’uno specifico amico o nemico, finiremmo per creare delle discriminazioni.

E, quando facciamo delle distinzioni, subito subentra la tendenza a creare delle differenze, delle scelte, delle selezioni.

LA SOLUZIONE PER NON CADERE IN QUEST’INGANNO DIPENDE DALLA NOSTRA CAPACITÀ DI COMPRENDERE CHE TUTTI DESIDERIAMO OTTENERE L’AMOREVOLE GENTILEZZA, E CHE, ANZI, PRIMA ANCORA, TUTTI QUANTI DESIDERIAMO LIBERARCI DALLA SOFFERENZA.

Possiamo, infatti, sviluppare amore, il desiderio che tutti siano felici e, su questa base, possiamo sviluppare la compassione, il desiderio che tutti gli esseri siano affrancati dalla sofferenza. Dopo aver meditato sull’amore e la gentilezza, dobbiamo praticare effettivamente l’amore e la compassione, ampliando e arricchendo le nostre coscienze con la bontà dell’amore universale, aspergendo la nostra coscienza mentale con l’amore e la compassione.

E dobbiamo intraprendere questo percorso a partire dalla acquisizione che, in base alla legge di causa ed effetto, tutti gli esseri sono completamente tormentati dalla sofferenza e che, perciò, vi sono cause alla sofferenza che possono e che vanno eliminate.

COME DOBBIAMO MEDITARE ED AGIRE?

Scambiando noi stessi con gli altri, e riconoscendo che tutti quanti, nell’infinito ciclo di nascite e rinascite, sono stati per un numero infinito di volte nostre madri e nostri padri, e, quindi, sono stati compassionevoli ed amorevoli nei nostri riguardi.

Non si tratta di comprendere solamente la sofferenza della malattia, della vecchiaia e della morte, in altre parole quella più comune, che sperimentano anche gli animali.

OCCORRE COMPRENDERE ANCHE LA SOFFERENZA DEL CAMBIAMENTO, PERCEPITA AD UN CERTO LIVELLO DEL CAMMINO, QUANDO SI COMPRENDE LA NECESSITÀ DELLA LIBERAZIONE, E QUELLA OMNIPERVASIVA STRUTTURALE, QUELLA DETERMINATA DAL NOSTRO LEGAME COI KLESHA, I DIFETTI E LE AFFLIZIONI MENTALI, QUELLA SOFFERENZA MENTALE CHE NEL BUDDISMO PRENDE PROPRIO IL NOME DI DUKKA.

In ogni caso, tutte e tre le forme di sofferenza, di cui siamo afflitti, vanno individuate, sviluppate e riconosciute. A questo punto, dobbiamo includere anche gli altri, tutto l’infinito numero degli altri esseri, nella percezione della sofferenza, proprio perché anche gli altri ne sono afflitti allo stesso modo come noi.

NON È, INFATTI, PERCEPIBILE LA SOFFERENZA DEGLI ALTRI SE NON AVVERTIAMO LA NOSTRA.

Nel Bodhicharyavatara si spiega appunto il metodo di scambiare noi stessi con gli altri, deducendo la maggior importanza che rivestono questi ultimi. Proprio per questo motivo, solo una volta che abbiamo riconosciuto le nostre tre forme di sofferenza, occorre prodigarsi ad aiutare gli altri.

La nostra sofferenza non è SEMPRE evidente.

Va, infatti, riconosciuta. Cos’è dunque dukka, la sofferenza? Tutti ne siamo tormentati nelle sue varie forme. Anche gli animali ne percepiscono degli aspetti, come pure di rendono conto di certi livelli di sofferenza.

Tutti gli esseri senzienti se ne vogliono liberare. Tutti i piaceri contaminati sono permeati dalla sofferenza del cambiamento: il piacere ordinario che si trasforma in sofferenza, come il veicolo di Brahma.

Riconoscendo la sofferenza, maturiamo il desiderio di liberarci dalle confusioni e contaminazioni mentali, l’aspirazione ad emergere dal samsara, il divenire ciclico.

RINUNCIA E COMPASSIONE

Proprio dalla comprensione del samsara, e dal conseguente desiderio di liberarci da esso, deve scaturire un forte sentimento di rinuncia. Sulla base di questo convincimento si fonda il presupposto per sviluppare la compassione.

Rispetto agli altri esseri dei tre reami (del desiderio, della forma e senza forma), noi umani sperimentiamo la sofferenza di provare ciò che è indesiderabile. Pur aspirando a non voler avvertire sofferenza alcuna, ed a percepire il desiderio di vivere sensazioni piacevoli, ci sentiamo, tuttavia, oppressi da sensazioni rattristanti.

Si ritrovano diversi tipi di cause delle molteplici forme d’apparente felicità, quella mondana: esse sono in sintonia con la felicità illusoria che talvolta sperimentiamo.

Il regno del desiderio nella concezione samsarica rispecchia la nostra esperienza di cercare il piacere per il piacere: la ricerca edonistica, la ricerca del piacere fine a sé stante. E, si può anche giungere a provare addirittura disgusto per alcuni piaceri perché non sono realmente dei piaceri, poiché non si rivelano effettivamente appaganti. Infatti, perché si mantengono a livello del mondo del desiderio, non riescono affatto a soddisfarci.

SVILUPPARE LA COMPASSIONE INFINITA

Anche la sensazione di quiete temporanea non rappresenta la liberazione, occorre invece arrivare ad un livello sempre più profondo per eliminare alla radice le tossine mentali.

Per giungere a questo stadio dobbiamo sviluppare una compassione infinita, considerando indistintamente tutti gli esseri senzienti affratellati dai tre tipi di sofferenza.

Gli dei soffrono della sofferenza del cambiamento, soffrono degli stadi degenerativi del cambiamento prima della morte. Immaginiamo di vedere tutti gli esseri migratori come immersi in un gran fuoco di dolore ed agiamo come se ognuno di noi fosse afflitto, anzi, immerso nella sofferenza, svolgendo la nostra attività ordinaria focalizzata su questo tema ed auspicando che tutti gli esseri senzienti possano essere liberi dalla sofferenza, includendo, ovviamente, nella nostra meditazione anche tutti gli estranei.

Quando potremo renderci conto, allora, che stiamo effettivamente sviluppato la pratica della grande compassione?

Quando spontaneamente rispondiamo alle richieste di ciascun essere, quando la nostra compassione è veramente indirizzata verso tutti gli esseri in modo equanime, come una madre dona, indistintamente ed in misura uguale, amore ai suoi figli. Allora possiamo essere sicuri d’aver imboccato il cammino della pratica della gran compassione, quando avvertiremo che questo sentimento è un qualcosa che ci riguarda direttamente, personalmente.

Partiamo dalla compassione che nutriamo per parenti ed amici, generando questo stesso sentimento e nella medesima intensità per l’infinito numero degli esseri delle dieci direzioni dello spazio, e familiarizziamoci con la gran compassione, mostriamo verso tutti gli esseri la stessa sensibilità che manifesta la madre rispondendo al richiamo del figlio prediletto tormentato dalla sofferenza.

Non dimentichiamo che tutti gli esseri illuminati, i Buddha, i Bodhisattva, sono diventati tali grazie alla pratica della bodhicitta.

Quanto al titolo dell’opera di riferimento per questi insegnamenti, il Bodhisattvacharyavatara di Shantideva, esso è traducibile come “Guida alla stile di vita del Bodhisattva”.

È bene ricordare che il Bodhisattva rappresenta l’essere che ha maturato la determinazione di liberare indiscriminatamente tutti gli esseri, l’essere dotato di tutte le qualità del risveglio, che, essendosi purificato ed avendo integrato l’insieme delle qualità della conoscenza e del risveglio per il beneficio di tutti gli esseri, esprime il voto e realizza ogni attività per liberare gli esseri, rappresentando il frutto, il compimento, le dimensioni illuminate che ci permettono d’ottenere le qualità d’illuminare gli esseri.

Colophon

Questa prima bozza d’appunti, a cura d’Alessandro Tenzin Villa, Luciano Villa e Graziella Romania, sui preziosi insegnamenti che Sua Santità il XIV Dalai Lama conferì dal 5 al 12 agosto 2005 a Zurigo, Svizzera, è da ritenersi provvisoria, quindi lacunosa, con possibili errori nonché imperfezioni, anche rilevanti, e non rappresenta affatto una trascrizione letterale delle parole di Sua Santità il Dalai Lama, tradotte dal tibetano in inglese da Ghesce Dorje ed in italiano da Anna Maria De Pretis, ma semplicemente un limitato spunto di riflessione.


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