Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama
Sono passati ormai quasi 60 anni da quando ho lasciato la mia terra natale, il Tibet, per diventare un rifugiato un rifugiato. La gentilezza del governo e del popolo indiano ha permesso a noi tibetani di trovare una seconda casa, dove poter vivere con dignità, liberi e con la possibilità di mantenere vive la nostra lingua, le nostre tradizioni e la nostra cultura.
La mia generazione ha assistito a tanta violenza: gli storici stimano che più di 200 milioni di persone hanno perso la vita durante le guerre del XX secolo.
Ancora oggi, purtroppo, non si vede la fine della terrificante violenza esplosa in Medio Oriente e che ha portato, nel caso della Siria, al più grande esodo di massa in una sola generazione.
Attacchi terroristici spaventosi – come ci è stato tristemente ricordato questo weekend – hanno creato una sensazione di paura profondamente radicata. Sarebbe facile lasciarsi prendere dallo sconforto e dalla disperazione, ma mai come ora – agli inizi di questo XXI secolo – dobbiamo sforzarci di essere realisti e ottimisti.
Abbiamo tanti motivi per nutrire la speranza. Il riconoscimento dei diritti umani, compreso quello all’autodeterminazione, si è diffuso oltre ogni possibile immaginazione rispetto a un secolo fa.
Cresce il consenso internazionale riguardo all’uguaglianza di genere e al rispetto delle donne. Le generazioni più giovani, in particolare, si rifiutano di vedere la guerra come strumento per la risoluzione delle contese internazionali. Ovunque nel mondo, molti si impegnano per prevenire il terrorismo, riconoscendo come le profonde incomprensioni e un atteggiamento divisivo, “noi” versus “loro”, siano davvero pericolosi.
La significativa riduzione dell’arsenale nucleare mondiale e l’agenda che ne prevede una ulteriore diminuzione, fino allo smantellamento, non sembra più un sogno irrealizzabile, come ha fatto notare recentemente il presidente Obama durante la sua visita a Hiroshima.
Le stesse nozioni di vittoria e sconfitta sono ormai completamente cadute in disuso. A seguito di un conflitto, spesso si verificano delle situazioni di grande sofferenza in cui è difficile dire se un Paese sia in pace o ancora in guerra. La violenza inevitabilmente porta violenza, mentre la storia ci ha dimostrato che una resistenza non-violenta conduce a democrazie più stabili e durature e ha più successo, quando si tratta di porre fine a regimi autoritari.
Pregare non basta. Esistono le soluzioni alla maggior parte dei problemi che dobbiamo affrontare; nuove modalità di dialogo sono state create, insieme a sistemi educativi che puntano a trasmettere non solo nozioni, ma anche valori. Tutto ciò trova il suo fondamento nel fatto che tutti noi apparteniamo a un’unica famiglia umana e che insieme possiamo agire per affrontare le sfide globali.
E’ incoraggiante vedere quante persone si stanno impegnando per porre rimedio con grande compassione alla piaga dei rifugiati: da chi opera salvataggi in mare, a coloro che si prendono carico di queste persone, offrendo amicizia e sostegno. Da rifugiato, provo grande empatia per questa situazione, e quando vedo i profughi soffrire penso che non possiamo fare altro che andare in loro soccorso.
Posso capire la paura della gente che vive nei Paesi ospitanti, il loro senso di venir sopraffatti. Ma l’insieme delle circostanze ci indica chiaramente che è di vitale importanza riportare una pace autentica nei Paesi da cui queste persone stanno scappando.
I Tibetani hanno provato sulla loro pelle che cosa significa vivere da rifugiati e anche se ancora oggi non ci è consentito ritornare nella nostra terra natale, siamo grati per il supporto umanitario che per decenni abbiamo ricevuto dai nostri amici, compresi gli Stati Uniti.
Un ulteriore motivo di speranza è la sincera cooperazione tra le nazioni del mondo che ha portato all’accordo sul clima, siglato a Parigi. Quando il surriscaldamento globale minaccia la salute di questo pianeta, che è la nostra sola casa, è solo prendendo in considerazione il più vasto interesse generale che si risolveranno i problemi locali e nazionali.
Mi sento particolarmente vicino a questa causa dal momento che il Tibet è l’altopiano più vasto al mondo, l’epicentro dei cambiamenti climatici: il suo surriscaldamente procede tre volte più rapidamente che qualsiasi altra regione della terra. Eppure il Tibet rappresenta la più grande riserva d’acqua, dopo i due Poli, e la fonte dei sistemi fluviali più estesi del pianeta, che toccano le 10 nazioni più popolate della terra.
Trovare una soluzione alla minaccia climatica e ai conflitti che ancora si verificano nel XXI secolo, implica cercare nuove risposte. Anche se sono un semplice monaco buddhista, sono certo che queste risposte vadano oltre la religione, nella direzione della promozione di un’idea che chiamo “etica secolare”. E’ un modo per educarci basato sulle evidenze scientifiche, sulle esperienze comuni e sul buon senso: un approccio universale alla promozione di quei valori umani universali che tutti noi condividiamo.
Per più di 30 anni, il mio dialogo con gli scienziati, gli educatori, le persone impegnate nel sociale provenienti da ogni angolo del pianeta ha evidenziato una serie di preoccupazioni comuni, in risposta alle quali abbiamo sviluppato un sistema che prevede una “educazione del cuore”. Un sistema educativo che si basa non tanto sulla religione quanto piuttosto sulle evidenze emerse dalla studio del funzionamento della mente umana e delle emozioni.
Abbiamo bisogno di principi etici – compassione, rispetto reciproco, gentilezza, senso di responsabilità – in qualsiasi campo delle attività umane e per questo ci stiamo impegnando ad aiutare le scuole e le università nel creare delle opportunità per i giovani di sviluppare una grande autoconsapevolezza, a imparare a gestire le emozioni distruttive e a coltivare abilità sociali. Questo genere di addestramento è stato incorporato nei programmi educativi di molte scuole americane ed europee e io stesso sto lavorando in collaborazione con l’Università di Emory a un nuovo curriculum basato sull’etica secolare già introdotto in numerose scuole dell’India e degli Stati Uniti.
Abbiamo tutti la responsabilità di impedire che nel XXI secolo si ripetano le sofferenze e gli spargimenti di sangue del passato. La natura umana è fondamentalmente compassionevole: per questo sono certo che gli anni che verranno inaugureranno un’epoca di pace. Ma dobbiamo impegnarci insieme, come cittadini globali di un unico pianeta condiviso.
da “Opinions”, Washington Post, 13 giugno 2016 http://it.dalailama.com/messages/world-peace/why-im-hopeful