2 – Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso: Il Buddismo, la via della ragione.
Insegnamenti conferiti a Dharamsala, India, da Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso per il “CioTrul Du Cen”, il Giorno dei Miracoli, 5 marzo 2015. Seconda parte.
Sua Santità il XIV Dalai Lama
Ripeto quindi che l’approccio buddhista, soprattutto per tutti noi discepoli del Buddhismo proveniente dalla gloriosa università monastica del Nalanda, come noi tibetani, come pure i cinesi e attraverso di loro i coreani, i vietnamiti, i giapponesi e così via, noi tutti che abbiamo per lo meno sentito parlare del grande protettore Nagarjuna, è basato sull’analisi logica.
Per i buddisti dello Sri Lanka, Thailandia, Cambogia e così via, che sono seguaci del Buddhismo formulato in lingua Pali e che comunque studiano come noi il Tripitaka, i ‘Tre Canestri’ (Le tre raccolte in cui è suddivisa tutta la letteratura buddhista classica), questo approccio non è così tanto enfatizzato.
Tra i Tre Canestri, il Vinayapitaka, che enuncia la disciplina monastica, a parte qualche minima differenza, è essenzialmente identico sia in lingua Pali che in lingua sanscrita e infatti quando ci incontriamo con i monaci di quei paesi riscontriamo la fondamentale uniformità di tutti i buddisti in relazione ai voti di liberazione individuale.
Allo stesso modo il Sutrapitaka che rivela gli insegnamenti dell’addestramento nel samadhi è quasi simile nelle due lingue; la differenza qui sta nella presentazione degli insegnamenti tantrici che è presente solo nel Sutrapitaka in lingua sanscrita e che spiega particolari modi di sviluppare la concentrazione.
Le diversità più importanti si riscontrano nell’Abhidharmapitaka, ovvero il canestro che contiene gli insegnamenti della conoscenza (metafisica) per lo sviluppo dell’addestramento nella saggezza. In lingua sanscrita si differenziano i testi appartenenti all’Abhidharma convenzionale da quelli dell’Abhidharma ultimo. Il concetto di “talità sottile” viene esposto con grande enfasi nei testi Abhidharmapitaka in lingua sanscrita; invece nel suo corrispondente in lingua pali, la vacuità sottile è solo menzionata, ma non è trattata in modo approfondito.
Spesso ripeto che il Buddhismo tibetano ci è pervenuto in lingua sanscrita dalla gloriosa università monastica del Nalanda e, quindi, tutti noi buddisti tibetani delle diverse scuole: Gning-ma, Kagyu, Sakya, Gelug e più recentemente anche Bon, studiamo ugualmente i testi composti in lingua sanscrita dai grandi saggi del Nalanda.
Un proverbio tibetano dice che ‘tutti i corsi d’acqua trovano la loro sorgente nei ghiacciai’. Ugualmente la fonte dei testi studiati in tutte le scuole del Buddhismo tibetano è l’università monastica del Nalanda e questo dimostra la fondamentale uniformità delle scuole del Buddhismo tibetano.
In secondo luogo, sottolineare che il Buddhismo tibetano trova origine nel Buddhismo indiano del Nalanda serve a dimostrare che l’appellativo di ‘lamaismo’ non ha fondamento (Lamaismo è un termine usato per indicare, in modo dispregiativo, il Buddhismo tibetano, alludendo al fatto che sia un cammino spirituale autoctono del Tibet, privo di una provenienza qualificata e caratterizzato da una esagerata enfasi per la devozione al lama o maestro.). Noi possiamo veramente chiamarci ‘discepoli della tradizione buddhista del Nalanda’ poiché i testi che memorizziamo in tutte le scuole, a volte anche insieme ai loro diversi commentari e/o autocommentari, ed anche se non li memorizziamo, li studiamo approfonditamente; questi testi, dicevo, sono tutti stati scritti dai dotti del Nalanda. Perciò non è solo un appellativo vuoto, ma di fatto siamo discepoli di quella tradizione. Per lunghi anni non solo studiamo i testi composti dai grandi del Nalanda, ma li confrontiamo con altri sullo stesso argomento e ne estraiamo il vero significato.
Per far questo, anche in Tibet sono stati composti molti trattati in stile ‘drub-tha’ che espongono, discutono e paragonano le tesi sostenute dalle diverse scuole filosofiche buddiste e non. In questo modo la comprensione della filosofia buddhista non avviene in modo unilaterale sulla base unicamente delle proprie asserzioni, ma in modo molto ampio e dettagliato, avendole esaminate accuratamente alla luce delle altre filosofie buddiste e non.
Risulta quindi chiaro che il Buddhismo tibetano aderisce alla tradizione dell’università monastica del Nalanda, inoltre, adotta a livello esterno la disciplina dei voti della liberazione personale; a livello interno l’attitudine di bodhicitta ed a livello segreto le pratiche tantriche. Quindi, si afferma che comprende, dal punto di vista dei veicolo o yana, in modo completo l’Hinayana, il Mahayana e il Tantrayana.
Come dovremmo poi tradurre in pratica e rendere benefici gli insegnamenti di questa tradizione così qualificata? Se la spiritualità non ha risvolti praticamente utili, allora è meglio lasciarla perdere! Riflettiamo se ci sono benefici o meno.
Il termine Dharma in sanscrito significa ‘trattenere‘ e ‘proteggere‘, ed in che modo trattiene e protegge? Noi tutti rifuggiamo la sofferenza e desideriamo la felicità e il Dharma serve proprio a proteggerci dalla sofferenza indesiderata attraverso la rimozione delle sue cause e, quindi, a ‘trattenerci’ dal dover sperimentare la sofferenza.
In tibetano Dharma è reso con il termine ‘ciö’ che significa ‘trasformare‘, trasformare, in particolare, il modo di pensare e, di conseguenza, trasformare il comportamento delle ‘tre porte’ (fisica, verbale e mentale). Qual’è lo scopo di operare queste trasformazioni? Pensiamoci bene.
In primo luogo noi tutti siamo esseri umani, esseri che vivono su questo mondo e che hanno la capacità di provare felicità e sofferenza. Siamo esseri senzienti, dotati di mente, con la quale sperimentiamo piacere e dolore. Non potremmo avere queste esperienze se non possedessimo una mente.
Per esempio, la vegetazione non prova felicità e sofferenza, infatti cresce, subisce trasformazioni e perisce in dipendenza da processi biologici. Analogamente, su questo mondo si succedono le stagioni e in particolare, qui a Dharamsala, il tempo metereologico subisce bruschi cambiamenti e, se ieri era una bella giornata di sole, oggi invece puà essere freddo e nuvoloso! Allo stesso modo, di mattina c’è il sole ed il pomeriggio magari grandina, o anche il contrario; ma questi cambiamenti non hanno niente a che vedere con il ‘provare o sperimentare’ qualcosa!
Tutti gli esseri provvisti di mente sono accomunati dal fatto che provano felicità e sofferenza. L’unica differenza è che gli animali, inclusi gli insetti, gli uccelli e così via provano piacere e dolore principalmente sulla base delle cinque coscienze sensoriali: quella visiva, olfattiva, uditiva, gustativa e tattile.
Per esempio, anche gli animali più piccoli quando sentono fame si sforzano di eliminare questo tipo di sofferenza cercando del cibo. Se percepiscono il pericolo, cercano di difendersi indietreggiando o nascondendosi, ma, questi comportamenti sono dettati dalle coscienze sensoriali, e non da quella mentale, a parte il fatto che, naturalmente, ogni coscienza sensoriale ha anche un aspetto mentale, che però non è paragonabile al processo mentale che avviene sulla base di una pura coscienza mentale che produce esperienze di felicità e dolore, patrimonio quasi esclusivamente degli esseri umani.
Tutti noi esseri senzienti che viviamo sia in questo mondo che in tutte le altre innumerevoli galassie, siamo esattamente uguali nel desiderare la felicità e nell’aborrire la sofferenza. Nei testi buddisti sono menzionati sistemi di mondi il cui numero è così immenso da essere paragonato ai granelli di sabbia del letto del fiume Gange, concetto non poi così strano, visto che al giorno d’oggi gli scienziati che approfondiscono la scienza della cosmologia si rendono conto che quanto più in là nell’universo riescono ad osservare, grazie al progresso tecnologico che produce telescopi sempre più potenti, tanti più nuovi sistemi di mondi riescono ad osservare. Quest’idea è espressa nei testi buddisti con l’espressione ‘il grande migliaio dei tremila sistemi di mondi’, ovvero qualcosa come tre miliardi di sistemi di mondi o galassie.
Solo per considerare questa nostra terra noi esseri umani siamo ormai sette miliardi e tutti abbiamo un cervello che possiamo definire molto attivo e sveglio nonostante i neurologi dicano che in realtà non sappiamo ancora esattamente quale sia la sua completa potenzialità ed anche non siamo ancora in grado di usarla.
Anche gli animali hanno una qualche sorta di attività intellettuale, ma questa non è assolutamente paragonabile alla capacità investigativa dell’intelletto umano, che è definita nei testi buddisti come ‘la saggezza che distingue i fenomeni’ ovvero l’intelligenza discriminativa che ci permette, quando viene usata correttamente, di espandere grandemente la nostra conoscenza. Dico correttamente perché non c’è certezza che usandola si consegua sempre qualcosa di buono, a volte è infatti vero il contrario.
Per esempio, è un fatto riscontrabile che molte persone, pur essendo estremamente intelligenti, ed essendo in grado di fare ampio uso di questo potenziale intellettuale, trascorrono poi le loro vite in preda all’angoscia, all’infelicità ed a volte, per ovviare questo malessere mentale, ricorrono all’alcool, alle droghe ed ai tranquillanti che per un breve periodo riducono l’estrema attività mentale distruttiva di cui sono soggetti.
Costoro sono dotati di un’intelligenza molto attiva e sanno naturalmente riflettere bene. Ma questo, invece di diventare causa di benessere diventa causa dei loro problemi. Questo tipo di paradosso esiste solo nel regno umano e non in quello animale. Infatti gli animali, se non sono di fronte a una situazione di immediato pericolo, se ne stanno pacificamente rilassati; cosa che non riescono a fare gli umani sempre presi da un brulicare di pensieri, speranze e sospetti.
Non solo, essendo dotati di una buona memoria, noi esseri umani andiamo a ritroso nel tempo e pensiamo alle cose accadute anche parecchie generazioni passate e su questa base sviluppiamo pensieri disturbanti come forte desiderio e avversione che, a loro volta, portano forte malessere mentale. Ci rendiamo allora conto che, solo se riusciamo a far buon uso della capacità mentale che possediamo, siamo delle persone sagge, mentre il venire turbati per la smisurata attività concettuale priva di controllo è segno di poca intelligenza e del fatto che siamo diventati la causa della nostra stessa rovina.
Fare in modo che il nostro potenziale intellettuale umano diventi causa di benessere dipende dalla presenza o meno di un’altra serie di fattori mentali come l’amore, la compassione, l’affetto e così via.
Tradotto dal tibetano a Dharmasala, India, durante il mese di marzo 2015 da Mariateresa Bianca. Si ringrazia Sherab Dhargye per le delucidazioni dal tibetano e la monaca italiana Ani Tenzin Ojung per aver riletto il testo e dato suggerimenti. Editing del Dr. Luciano Villa nell’ambito del Progetto “Free Dharma Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Ci scusiamo per i possibili errori ed omissioni.