Commentario alle “Quattrocento Stanze” o “Le quattrocento strofe sulla Madhyamaka” di Aryadeva, conferito da Sua Santità il Dalai Lama a Dharamsala, India il marzo 1988. Traduzione dal tibetano in italiano di Mariateresa Bianca a Dharamsala. Editing del Dr. Luciano Villa nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings”, approvato direttamente da Sua Santità il Dalai Lama, vedi https://www.sangye.it/lettera/10.09blog-ingl-HH.jpg , a beneficio di tutti gli esseri senzienti. Ci scusiamo per i possibili errori ed omissioni.
Prima parte, Versi 1 – 25
Sua Santità il Dalai Lama.
La trasmissione orale con spiegazioni del testo “Le quattrocento strofe sulla Madhyamaka” nella scuola Gheden (Ghelug) è molto rara. Nella regione Do-me (Amdo), questo tipo di trasmissione si trova all’interno dei “Tredici grandi trattati [preservati e studiati nella scuola] Sakya”. In questa categoria si parla dei tre “(1) La radice, (2) la Guida, e (3) le Quattro”, ovvero: (a) il testo ‘radice’: la “La saggezza – il trattato fondamentale sulla via di mezzo” (Prajna-nama-mula- madhyamaka-sastra); (b) la ‘guida’: “Guida alla Via di mezzo” (Madhyamakavatara-bhasya) (S.S. ha spiegato che per “Via di Mezzo” (dbu ma, pronunciato u-ma) si intende il testo di Nagarjuna “Saggezza”) ; (c) e le ‘quattro’: “Le quattrocento strofe sulla Madhyamaka”. Di questi esiste il lignaggio della trasmissione con spiegazioni.
Ho ricevuto questa trasmissione da Kunu Lama Tenzin Ghyaltsen che, a sua volta, l’aveva ricevuta da un maestro di Dzog-cen all’interno dei “Tredici grandi trattati Sakya” sulla base del commentario del Kenpo Scen-ga (mkhan po gzhan dga’). Rinpoche mi ha conferito questa trasmissione unicamente sulla base del testo radice. L’autore di questo testo (“Le quattrocento strofe sulla Madhyamaka”) à Aryadeva (Vissuto tra il II e il III secolo d.C.), il discepolo principale del protettore Nagarjuna. Si dice che Aryadeva fosse il figlio del re di Singala (Ci sono diverse interpretazioni su questo antico paese: alcuni lo identificano con l’attuale Sri Lanka e altri con l’odierno stato del Tamil Nadu, nel sud dell’India). Alcuni dicono che sia nato miracolosamente, altri sostengono che sia nato dal ventre materno. Comunque sia, anche se fosse nato miracolosamente, in seguito fu adottato dal re e prese il titolo di principe e visse [la prima parte della sua vita] come principe. Con il tempo, si rese conto che il regno è privo di valore e prese i voti da monaco in quello stesso luogo. Piu’ tardi, viaggiò nel sud dell’India dove incontrò il protettore Nagarjuna e prese dimora nelle sue vicinanze. Era un eccellente esperto di sutra, tantra e grammatica e conseguì alte realizzazioni dei ‘terreni’ e dei ‘sentieri’. (Nel Buddhismo si parla di 5 sentieri: il sentiero dell’Accumulazione, della Preparazione, della Visione, della Meditazione, e del Non-più-apprendimento e di 10 terreni, di cui il primo è conseguito durante il terzo sentiero.)
Tra i suoi scritti, per quanto riguarda i sutra si trova questo testo (Le 400 strofe), che può essere considerato un supplemento o un trattato appendice del testo di Nagarjuna “La saggezza, il trattato fondamentale”. Essendo stato scritto con l’obiettivo di essere un completamento del trattato di Nagarjuna, Aryadeva non compose le tradizionali strofe di omaggio. Dal punto di vista dei tantra, Aryadeva scrisse un commentario a “I cinque livelli”, di Nagarjuna, intitolato “La lampada compendio delle pratiche” (spyod bsdus sgron me) che fu poi molto elogiato da Lama Tsong Khapa. Quel testo è veramente un’eccellente collezione di istruzioni! Compose inoltre “La purificazione delle oscurazioni mentali” ed altri.
Questo testo è composto da sedici capitoli di venticinque strofe ognuno, per un totale di quattrocento strofe. Il Maestro Chandrakirti (VII secolo) ne compose poi un commentario intitolato “L’esteso commentario agli atti yogici dei bodhisattva” (“Gli atti yogici”, ovvero “Le 400 strofe”), che Lama Tsong Khapa teneva in grande considerazione. Anche Ne-ten (Sthavira) Cioe-kyong (Ovvero Birwapa, che è considerato la fonte dei lignaggi tantrici nella scuola Sakya. ) ne compose un commentario basato sulle asserzioni delle scuole filosofiche buddhiste non-Madhyamika dette “Proponenti di vera esistenza” (Vaibhashika, Sautrantrika, Cittamatra) e intitolò il primo gruppo di otto capitoli “bstan pa brgya pa” (centinaia di insegnamenti) e il secondo gruppo di 8 capitoli “rtsod pa brgya pa” (centinaia di argomentazioni o dispute: infatti vi si confutano molte teorie, visioni errate). I sedici capitoli delle “400 strofe” possono essere divisi in due parti: la prima tratta dei metodi per addestrare la mente (in generale) e la seconda tratta dei metodi della pratica della saggezza.
I primi otto capitoli spiegano gli stadi del sentiero basati sulla verità convenzionale e gli ultimi otto capitoli spiegano gli stadi del sentiero basati sulla verità ultima. La prima parte, poi, può essere ulteriormente divisa in due sezioni di quattro capitoli ciascuna, di cui la prima può essere considerata una sintesi delle tesi fondamentali buddiste:
1) tutti i fenomeni condizionati (o composti) sono impermanenti;
2) tutti i fenomeni contaminati sono sofferenza (o produttori di sofferenza);
3) tutti i fenomeni sono vuoti e privi di un sè;
4) il nirvana è pace.
(Questi quattro concetti sono detti “I quattro sigilli che contraddistinguono la visione buddhista.”)
Analogamente, i primi quattro capitoli trattano dell’impermanenza, della sofferenza, della mancanza del sè, del fatto che il corpo è immondo (la sporcizia).
Il trattato [sulla Madhyamaka] in capitoli, chiamato “Quattrocento” o “Il trattato in quattrocento strofe”, “Le quattrocento strofe sulla Madhyamaka”, “Gli atti yogici dei bodhisattva”, e “Il trattato in quattrocento strofe sugli atti yogici dei bodhisattva”.
Nella lingua dell’India: Chatushataka shastra.
In tibetano: Ten-cioe sci gya pa sce gia we zig leur ce pa (bstan bcos bzhi brgya pa zhes bya ba’i tshig le’ur bays pa).
Rendo omaggio all’Arya Manjushri (1)
1. Capitolo uno:
Come disfarsi del concepire [il corpo/i fenomeni] come permanenti.
1. Il signore dei tre reami, il signore della morte egli stesso,
senza padroni, verrà sicuramente da noi,
cosa c’e’ di più inappropriato che dormire come fanno ‘gli autentici’?
Sua Santità il Dalai Lama. ‘I tre reami’ si riferisce al reame del desiderio, a quello della forma e a quello senza-forma o anche, in questo contesto, al reame di sopra, a quello di sotto e quello sulla terra, dove vivono, rispettivamente, i deva, i naga e gli uomini. ‘Senza padroni’ significa che il “Signore della morte” non è mandato da un boss superiore a lui, ma ‘egli stesso’ verra’ in piena libertà e, inoltre, non manderà dei suoi rappresentati, ma verra’ personalmente ‘da noi’ esseri ordinari. Quindi non è appropriato ‘dormire’ o rilassarsi come fanno ‘gli autentici’, ovvero coloro che hanno vinto il “Signore della morte”, come i Buddha e gli arhat.
Non è appropriato non temere la morte pensando che l’essere vivi sia un rimedio alla morte:
2. Per coloro che sono nati solo per morire e la cui natura è di essere condotti senza libertà (dal Signore della morte),
il nascere è una sorta di morire, (come dire essere nati per morire)
non è come un rimanere vivi.
Sua Santità il Dalai Lama. Essere vivi non è un rimedio alla morte perché lo stato stesso di essere vivi implica il morire. Infatti, dal momento che si nasce, si è soggetti ad invecchiare e poi a morire; senza la nascita non ci sarebbero la vecchiaia e la morte. Il rimanere vivi è, in un certo qual senso, un preludio alla morte; si nasce non con la prospettiva di rimanere vivi, ma con la certezza di morire.
3. Tu vedi il passato come breve, (vedi e ti appare)
ma il futuro lo vedi in modo diverso! (Come se avessi molto tempo a disposizione!)
Il pensare (valutare) in modo diverso ciò che è uguale (il passato e il futuro)
è chiaramente un grido di paura (un segno di paura).
Non e’ appropriato non temere la morte pensando che è comune a tutti:
4. Poiché la morte è comune anche a tutti gli altri,
tu non ne hai paura. Che non sia l’invidia a farti soffrire quando solo tu sei danneggiato? (Se muori solo tu?)
Sua Santità il Dalai Lama. Quando muoiono tutti ‘tu non ne hai paura’; se morissi tu solo avresti paura; questa differenza è dovuta solo all’invidia di morire mentre gli altri non muoiono. Comunque sia, questi due punti di vista non corrispondono alla realtà: sia che moriamo tutti o che muoia io solo, la sofferenza è la stessa: la morte è paurosa per sua natura e se ne dovrebbe aver paura!
Non è appropriato non temere la morte pensando che malattie e vecchiaia possono essere rimediate:
5. Poiché le malattie possono essere curate e la vecchiaia rallentata,
tu non ne hai paura. Non c’è, però, trattamento per l’ultima punizione (la morte).
Come mai non temi questa evidenza inequivocabile (questa ovvietà)?
6. Come bestiame destinato al macello, la morte è comune a tutti. Specialmente quando vedi gli altri morire,
come mai non temi il “Signore della morte”?
7. Se pensi di essere eterno perché il momento [della morte] è incerto, [arriverà] il giorno in cui, il Signore della morte, ti recherà gran danno! (Non solo la morte è certa, ma è anche vicina!)
8. Se ti interessi agli obiettivi futuri
e non alla vita che se ne va, chi direbbe sia intelligente vendere se stessi?
Sua Santità il Dalai Lama. Coltivando la speranza di ottenere cose in futuro come la fama, il rispetto etc. non ti accorgi che il corpo, con cui fruire delle cose in cui speri, si sta esaurendo. Questo non e’ sicuramente considerato un atteggiamento intelligente. ‘Vendere se stessi’ o sacrificare la propria vita per la fama, come per esempio andando in battaglia e combattendo eroicamente per ottenere la reputazione di eroe, o intraprendendo attività pericolose, è sciocco.
9. Mettendo te stesso come pegno, perché commetti azioni negative? Di certo [questo tuo comportamento] è simile alla mancanza di attaccamento che hanno i saggi.
Sua Santità il Dalai Lama. Se per l’effimero piacere di questa vita commetti o fai commettere azioni che ti faranno rinascere agli inferni dove soffrirai indicibili pene, è come se usassi te stesso come pegno. Questo tuo comportamento è simile a quello dei saggi che hanno abbandonato l’attaccamento per se stessi.
Qui si conclude l’esposizione dell’impermanenza grossolana. L’impermanenza è il primo dei quattro attributi della Prima Nobile Verità (della sofferenza) esposta da Buddha durante il primo ‘giro della ruota del Dharma’. La falsa idea di permanenza (N.d.T. una delle quattro ‘idee sbagliate/false’, ossia lo scambiare per permanente ciò che è impermanente; scambiare per felicità/piacevole ciò che è sofferenza/spiacevole; scambiare per pulito ciò che è sporco; scambiare ciò che è privo di un ‘sé” per qualcosa dotato di un ‘sé”.) è il primo ostacolo per coloro che desiderano conseguire la liberazione. L’impermanenza di cui parlò Buddha è l’impermanenza sottile; ma per comprenderla è indispensabile familiarizzare i discepoli con l’idea di impermanenza grossolana, che e’ stata spiegata fino a questo punto proprio come preparazione all’impermanenza sottile.
10. Ciò che è detto ‘essere vivo’ non è altro [che uno stato] momentaneo [come lo è] la mente.
Gli esseri non capiscono questo, e, di conseguenza, è raro colui che conosce la propria natura.
Sua Santità il Dalai Lama. Ciò che chiamiamo ‘essere vivi’ è uno stato momentaneo, la vita si consuma ad ogni istante così come la mente cambia ad ogni istante: i diversi pensieri si susseguono incessantemente e non rimangono affatto fermi.
11. Vorresti vivere a lungo, ma non ti piace la vecchiaia. Ahimè‘! Il tuo comportamento (questo tuo modo di pensare)
sembra corretto ai tuoi simili.
12. Perché ti lamenti della morte di tuo figlio e degli altri? Colui che si lamenta e’ [egli stesso] oggetto di pena (a causa delle negatività commesse). Come potrebbe questo non essere biasimevole?
13. Se qualcuno, senza esserne stato richiesto, diventa tuo figlio, (nasce come tuo figlio) non e’ contraddittorio che se ne vada (che muoia) senza esserne stato richiesto (è solo naturale, dovuto al karma, che nasca e muoia senza libertà o permesso)
14. Solo a causa della tua confusione non hai notato [le indicazioni] di tuo figlio. Il suo entusiasmo ad andarsene è stato indicato dal [suo] invecchiare (non è che non ti abbia avvertito del tutto!) .
15. Un figlio non ama [il proprio padre] tanto quanto il padre lo ama. La gente scende [nei reami inferiori]. Di conseguenza, le rinascite fortunate sono difficili [da conseguire].
Sua Santità il Dalai Lama. In generale, non è sempre scontato che i figli abbiano lo stesso affetto dei genitori, i casi in cui i figli non sono riconoscenti sono molto diffusi. Questo tipo di comportamento immorale, come pure tutti gli altri tipi di azioni negative, fanno scendere ‘la gente’ nei reami inferiori e quindi, lasciamo perdere il conseguimento della liberazione; anche l’ottenimento di una rinascita fortunata è raro.
16. Quando è disobbediente
nessuno lo chiama “amore”. Quindi l’attaccamento (affetto per i figli) è solo un’operazione commerciale.
17. Le sofferenze dovute alla separazione se ne vanno velocemente dai cuori.
Comprendi quindi l’instabilità dell’attaccamento
indicata dall’esaurimento della sofferenza.
Sua Santità il Dalai Lama. Un’altra ragione per la quale non si dovrebbe avere troppo attaccamento tra genitori e figli, nelle coppie, amicizie e così via, è che quanto più si ha attaccamento, tanto più si soffrirà al momento inevitabile della separazione. Qui si dice che il risultato ‘la sofferenza della separazione’ non è stabile, ovvero non dura per sempre, e ciò dimostra che anche la sua causa – l’attaccamento – non è stabile, in altre parole non è indipendente, ma sorge in dipendenza di condizioni. (N.d.T. Qui c’è forse da menzionare che nei paesi orientali, tuttora in Tibet per esempio, si mettono in atto delle strategie per fare in modo di non ricordare le persone care che hanno lasciato questo mondo, così da non alimentare la sofferenza della separazione. Per esempio non si pronuncia il loro nome, ovviamente non si tengono loro foto esposte, e nemmeno i loro possedimenti, si cerca insomma di non ricordare. Al contrario, in occidente sembra che ci si sforzi di ricordare e in questo modo il dolore della separazione rimane sempre vivo. Ecco perché qui si dice che il dolore per la separazione non dura a lungo. Pensandoci bene, è vero che, soprattutto se si applicano certe tecniche per dimenticare, quel dolore non dura per sempre, per lo meno con la stessa intensità iniziale.).
18. Benché tu comprenda che non serve, se ti fai del male simulando di provarlo, ciò non è ragionevole.
Sua Santità il Dalai Lama. In India c’era e c’e’ tuttora la tradizione di manifestare con molta passione il dolore della perdita di una persona cara, per esempio piangendo apertamente, gridando, strappandosi i capelli e così via. Il non manifestare questi segni veniva/e’ considerato come molto negativo. Qui si dice che, benché si comprenda che non serve, ovvero non si provi un forte dolore per la perdita, se si simula di averlo per conformarsi alle apparenze o alle usanze, ‘ciò non e’ ragionevole’. Non ha senso alimentare volontariamente la sofferenza, ma al contrario, come detto sopra, si dovrebbe cercare di eliminarla.
19. Le persone vagano (nel samsara a causa delle afflizioni mentali e del karma)
piene di sofferenze (i tre tipi di sofferenze). Per quale motivo aggiungere [ulteriori] sofferenze (nelle relazioni di coppia o genitori/figli) a coloro che già soffrono?
20. Se l’incontro ti dà gioia,
perché non trai gioia anche dalla separazione?
L’incontro e la separazione non avvengono forse sempre insieme?
Sua Santità il Dalai Lama. Dal momento che un incontro/unione, per esempio di coppia o di genitori/figli, implica sempre una separazione, o hai piacere in entrambi o dovresti averli entrambi in antipatia.
21. Il passato è senza inizio e il futuro [nel samsara] senza fine
(se non si riesce ad applicare l’antidoto alle rinascite contaminate).
Come mai noti l’incontro e, benché
duri a lungo, non noti la separazione?
Sua Santità il Dalai Lama. Se pensi che sia corretto comunque avere attaccamento per figli/partner etc. anche se al momento della separazione dovrai sperimentare dolore, perché pensi che il periodo dell’unione ‘dello stare insieme’ sia più lungo del periodo della separazione; questo ragionamento non funziona. Nel complesso delle infinite rinascite, l’unione dura solo per breve tempo, e tu generi molto attaccamento ‘noti l’incontro’, mentre per la separazione, che e’ lunga, non generi avversione ‘non noti la separazione’, questo non è ragionevole.
22. Il tempo è fatto di istanti e così via (altre frazioni minori) ed e’ perciò, senza dubbi, come un nemico (che esaurisce la nostra vita). Di conseguenza non provare mai attaccamento per ciò che è un nemico
(come il nemico ci uccide, così il tempo consuma il nostro rimanere vivi).
23. Stupido! Per paura della separazione,
non lasci la tua casa. (Per dedicarti alla meditazione)
Chi è quel saggio che fa per “punizione” ciò che deve comunque essere fatto?
Sua Santità il Dalai Lama. Un giorno, la morte ti separerà, come una “punizione”, dai tuoi cari! Meglio lasciare la casa ora in piena libertà, meglio abbandonare volontariamente gli oggetti del nostro attaccamento invece che sottostare alla punizione inflitta dal “Signore della morte”.
24. Penserai che, ovviamente, dovrò andare nella foresta (a meditare) quando le [presenti] attività saranno terminate. (Ma non funziona così!)
Qualunque cosa tu stia facendo, sarà abbandonata,
che valore c’è nell’averla fatta? (Nell’averla completata?)
I benefici di meditare sull’impermanenza:
25. Colui che, con convincimento,
riflette su “Morirò!”
Avendo completamente abbandonato l’attaccamento (per questa vita)
non avrà neanche paura del Signore della morte.
Sua Santità il Dalai Lama. Ciò conclude il primo capitolo di “Il trattato in quattrocento strofe sugli atti yogici dei bodhisattva” che insegna come disfarsi del concepire [il corpo/i fenomeni] come permanenti.
(1) Omaggio dei traduttori. Quando viene dedicato a Manjushri indica che il trattato appartiene all’Abhidharma-pitaka, ‘canestro’ della conoscenza (metafisica); se all’Onnisciente Buddha, allora appartiene al Vinaya-pitaka, ‘canestro’ della disciplina; e se viene dedicato a tutti i Buddha e Bodhisattva, al Sutra-pitaka o ‘canestro’ dei sutra.
Sua Santità il Dalai Lama ha utilizzato, come base per le sue delucidazioni, il commentario del Maestro indiano Chandrakirti e del Maestro tibetano Gyaltshab Dharma Rinchen (1364-1431).
Tradotto dal tibetano in italiano da Mariateresa Bianca a Dharamsala che ha consultato anche il commentario tibetano del Maestro Gyaltshab Dharma Rinchen come pure la traduzione inglese delle strofe di Ruth Sonam e che ringrazia Sherab Dhargye per le indispensabile chiarificazioni e la monaca italiana Tenzin Oejung per aver riletto il testo. Editing del Dr. Luciano Villa nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings”, approvato direttamente da Sua Santità il Dalai Lama, vedi https://www.sangye.it/lettera/10.09blog-ingl-HH.jpg , a beneficio di tutti gli esseri senzienti. Ci scusiamo per i possibili errori ed omissioni.