Jean-Claude Carriere: “Si e creduto per lungo tempo che l’universo fosse infinito, eterno. Una delle grandi scoperte dell’astrofisica nel XX secolo fu di attribuire un’età e una storia all’universo.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Intende parlare del Big-Bang?”
Jean-Claude Carriere: “Sì, di quello che si chiama Big-Bang senza ben sapere cosa sia.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ma come, perché il Big-Bang si è prodotto? Questo nessuno lo può dire. Ora, il buddhismo ha una costante: ogni avvenimento deve avere una causa. Sebbene si estenda tanto vastamente nello spazio, l’universo è sottoposto alla transitorietà e al samsara. Sebbene risalga a un tempo antichissimo, è necessaria una causa degli eventi.”
Jean-Claude Carriere: “Supponendo che il Big-Bang sia un evento. Tutto quel che vediamo, a un dato momento, è uno stato estremamente denso di quello che diventerà la materia che costituisce le stelle e che ci costituisce Ma non possiamo parlare di una “esplosione” come la parola Bang sembra indicare.”
Sua Santità il Dalai Lama: “E oltre a questo stato della materia?”
Jean-Claude Carriere: “Non ne sappiamo nulla. È ciò che dicono gli astrofisici. Il Big-Bang è il primo punto della nostra possibile lettura della storia dell’universo. Non è necessariamente l’inizio dell’universo, è l’inizio del nostro discorso sul mondo. Di quel che c’era prima del Big-Bang, supponendo che ci fosse qualcosa, non possiamo parlare. Non possiamo che sognarlo, che immaginarlo. Ma come immaginare quello che c’era prima che ci fosse qualcosa?”
Sua Santità il Dalai Lama: “In ogni modo, i buddhisti dicono che il secolo in cui viviamo sia la conseguenza dei secoli che l’hanno preceduto, e così via fino all’origine dei tempi, venti o venticinque miliardi di anni fa.”
Jean-Claude Carriere: “Diciamo piuttosto quindici miliardi ”
Sua Santità il Dalai Lama: “Davvero? Qualche anno fa, in Svizzera, ho conosciuto uno scienziato, che avrebbe più tardi ricevuto il premio Nobel. Parlava di venti miliardi di anni. Ho incontrato anche un americano, un celebre fisico – non ricordo il suo nome, ho una pessima memoria per i nomi – che parlava di venticinque miliardi.”
Jean-Claude Carriere: “Cifre enormi sono state in effetti proposte, in varie occasioni. Poi sono un po’ diminuite. Diciamo che in questo momento la moda è di quindici miliardi.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Si può ancora parlare di precisione scientifica?” domanda ridendo.
Poi riprende: “Perché dunque il Big-Bang? Quale è stata la causa?”.
Jean-Claude Carriere: “I cristiani hanno una risposta.”
Sua Santità il Dalai Lama: “La conosco. Per parte mia, ci sono due risposte che non posso accettare. La prima consiste nel dire: non v’è alcuna causa. Le cose sono successe così, da sole. Dal nostro punto di vista, è inaccettabile. La seconda risposta è la soluzione divina. Un bel giorno, Dio ha deciso di creare il mondo. Noi non l’accettiamo.”
Jean-Claude Carriere: “Perché?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché questa risposta solleva un numero eccessivo di domande.”
Jean-Claude Carriere: “Ad esempio?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché il creatore ha creato? Chi ha creato il creatore? Si è creato da solo? Il creatore ha avuto un inizio? Avrà una fine? Si tratta di una creazione permanente? E così via.”
Jean-Claude Carriere: “Se il creatore è permanente, anche la creazione sarà permanente.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Questo ci porta ad altre domande, del tipo: il creatore è un essere con una assoluta compassione? Con un assoluto potere? Con una conoscenza assoluta?”
Jean-Claude Carriere: “Perché, se è onnipotente, ha creato questo mondo così evidentemente imperfetto? Perché ha creato questo mondo piuttosto che un altro? E perché ha impiegato così tanto tempo a crearlo?”
Gli astrofisici ammettono in effetti che la materia che conosciamo si formò in quella che chiamano “il brodo originario”, nel corso di un periodo di un milione di anni, e che le forme prese da questa materia – compresa quella che chiamiamo vita – si succedettero lentamente nel tempo.
Ricordo anche al Dalai Lama la certezza che hanno oggi gli scienziati della presenza nell’universo di un’altra materia, che chiamano generalmente “la materia oscura” o “la materia mancante”, e che resta per noi impenetrabile. Non sembra costituita da particelle e da atomi, come la nostra, non è nucleare – da cui la nostra impossibilità di entrare in contatto con essa e di studiarla.
Tuttavia esiste. È attestato dall’attrazione che esercita sui corpi celesti. Probabilmente è persino “in maggioranza” nell’universo. Alcuni specialisti giungono a sostenere che sia da otto a dieci volte maggiore di tutta la materia nucleare conosciuta. E siccome ci sfugge, ci affascina. Anche qui, se restiamo all’interno di un sistema voluto da un dio creatore, ci troviamo di fronte a un’altra vista inesplicata”: perché avrebbe creato questa materia impenetrabile, perché avrebbe creato due mondi, inconoscibili l’uno per l’altro?
Sua Santità il Dalai Lama: “In effetti, dal nostro punto di vista, la teoria del creatore pone molti più problemi di quanti non ne risolva.”
Jean-Claude Carriere: “Qual è allora la spiegazione buddhista?”
So, per averlo letto in diversi libri, che la questione dell’origine del mondo non si pone in questi termini nei testi antichi. Come abbiamo detto, l’universo buddhista si compone di una infinità di mondi, specie di dischi infilati su un asse, e questo asse è il mitico monte Meru. Intorno a questo asse sono poste quattro catene di montagne, altrettanti oceani, quattro grandi continenti situati ai quattro punti car-dinali. Ogni universo possiede nove pianeti, ventisette o ventotto “riferimenti celesti” e molte stelle.
Questo aspetto ciclico e ripetitivo dello spazio si ritrova nella concezione antica del tempo, che trae la sua origine dal brahmanesimo. I cicli del tempo, yuga e kalpa, si ripetono in eterno. Sono divisi in un certo numero di periodi di ineguale durata, che possono superare i milioni di anni e di cui alcuni sono detti “incalcolabili”. Alcuni di questi periodi sono di distruzione, altri di ricostruzione, altri ancora di stabilità.
Nel corso dei periodi di ricostruzione, che si chiamano anche ‘periodi vuoti”, restano particelle di spazio. Serviranno a ricostruire la materia. L’insieme di questi movimenti del tempo è contenuto in un grande ciclo, un mahakalpa, che supera la possibilità di ogni conoscenza e di ogni misura.
A queste lunghe descrizioni speculative, elaborate da scuole successive che, d’altro canto, si trovano abbastanza sovente in contraddizione, si oppone la raccomandazione primaria di Sakyamuni di non affondare “la lama del pensiero nell’impenetrabile”. Il problema dell’eternità dell’universo – e di conseguenza della sua origine – sembra di certo aver fatto parte delle “quattordici viste inesplicate”. Egli ha persino detto: “La conoscenza di tutte le cose non può far fare alcun passo nuovo sul cammino della santità e della pace”. Unica risposta: il silenzio.
Comunque, come mi ha detto a più riprese il Dalai Lama, da un lato non si può ammettere che vi siano eventi senza causa, e dall’altro bisogna necessariamente tenere conto dei progressi della scienza per modificare, se necessario, le Scritture. Così non bisogna stupirsi della sua scarsa propensione a ritornare alle teorie antiche. Preferisce attenersi al Big-Bang e cercare di trovare una spiegazione che possa accordarsi con l’essenza della dottrina buddhista.
A proposito del Big-Bang, gli ricordo che questa espressione ironica (dovuta all’astrofisico Fred Hoyle, che si opponeva a queste teorie) corrisponde a una idea formulata per la prima volta da un prete belga, padre Lemaitre. Fin nelle teorie scientifiche è così possibile trovare traccia, abbastanza sovente, di una “metafisica nascosta”. L’idea di una “esplosione”, di un inizio improvviso e luminoso del mondo, può in effetti accordarsi, mutatis mutandis, con il racconto biblico della creazione.
Il Dalai Lama mi spiega ora, a suo modo, ciò che ha preceduto il Big-Bang.
Sua Santità il Dalai Lama: “Alcuni esseri (beings) a un certo momento devono essersi compiaciuti dell’esistenza di questo universo. Ed è per questo che l’universo esiste”.
Jean-Claude Carriere: “Chi sono, o chi erano questi esseri?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non si tratta di esseri umani.”
Jean-Claude Carriere: “Di extraterrestri?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non nel senso che voi date a questo termine. Si tratta di esseri forniti di uno spirito e di sentimenti. Quando parliamo di “spirito”, sappiamo che esistono diverse categorie, diversi livelli di spirito. Alcuni di questi livelli sono grossolani. Lo spirito è allora direttamente legato a un corpo, e cessa di esistere con lui. In questo caso, quando le funzioni del corpo si arrestano, si arrestano anche le funzioni dello spirito.”
Jean-Claude Carriere: “Ma abbiamo visto che lo spirito può anche elevarsi.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Fino ai più alti livelli, fino allo “spirito sottile”, o “coscienza sottile”. Il pensiero concettuale ha dei limiti, che tutti conosciamo. Per questo la maggior parte delle tradizioni ha tentato di imboccare, sul cammino difficile della conoscenza, quella che si potrebbe chiamare una ‘`via diretta”: il misticismo, lo yoga, alcune forme di meditazione e di estasi costellano questa via diretta, il cui fine è il risveglio.”
Jean-Claude Carriere: “È lo stato in cui, secondo il buddhismo, ci è data una conoscenza perfetta di tutte le cose?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, fin nel minimo dettaglio. Secondo la tradizione tibetana, questo accesso diretto – che può condurci attraverso l’esperienza all’origine del mondo – è estremamente difficile. Suppone che il nostro spirito si sia sviluppato e affinato fino al più alto grado di sottigliezza, che lo strappa ai cicli temporali. Alcuni miei amici ancora viventi hanno conosciuto questi momenti.”
Jean-Claude Carriere: “Ci si ricorda allora di una vita passata?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non di una vita, ma di centinaia, di migliaia di vite. Ogni ostacolo, ogni velo del pensiero svanisce. Lo spirito non può essere nato se non dallo spirito. Di conseguenza lo spirito sottile non può aver avuto inizio. Quando la coscienza sottile appare in tutta la sua evidenza, i problemi non si pongono più allo stesso modo, l’idea stessa di un inizio scompare.”
Dogen Zenji, il grande maestro dello Zen, ha raccontato a questo proposito la storia seguente:
Un prete (di chiara fama) si faceva vento. Si avvicinò un monaco e gli domandò:
“La natura del vento è permanente, e non v’è alcun luogo che il vento non raggiunga. Allora perché dovete ugualmente farvi vento?”.
“Anche se comprendi che la natura del vento è permanente,” rispose il maestro “non comprendi il significato della sua presenza ovunque.”
“Qual è il significato della sua presenza ovunque?” domandò il monaco.
Il maestro si accontentò di farsi vento.
Il monaco si inchinò con profondo rispetto.
In altre parole, così lo spiega Dogen Zenji: “Coloro che sostengono che non si dovrebbe usare un ventaglio perché il vento è permanente, e che si dovrebbe conoscere l’esistenza del vento senza usare un ventaglio, non conoscono né la permanenza né la natura del vento”.
Mistero, profondità e limite della conoscenza: il risveglio la dà interamente, ma senza che possa veramente trasmettersi, se non con un gesto come quello del ventaglio. I maestri buddhisti raccomandano di non praticare il buddhismo nella speranza di ricevere la conoscenza in compenso. Sarebbe un passo falso. Il risveglio non è necessariamente dato a colui che crede di averlo meritato. Alcuni lo raggiungono e altri no. In ogni modo (sempre Dogen Zenji): “I limiti del conoscibile sono inconoscibili”.
Tutti questi riferimenti girano inutilmente nella mia testa mentre cerco di “comprendere” – sapendo che è cosa impossibile – quel che mi dice il mio interlocutore, che mi parla nel contempo dello spirito sottile, della reincarnazione e dell’origine del mondo. Un legame esiste fra questi tre concetti, ma rimane per me abbastanza oscuro.
In uno dei suoi libri, il Dalai Lama ha risposto alla domanda: che cosa rinasce? La sua risposta è l’io, al che il suo interlocutore, giustamente stupito, replica di non sapere cosa sia questo “io”. “Se rinasco,” dice “non so di essere io. Non mi ricordo più cosa fossi prima. Chi sono?”
Nella sua risposta, il Dalai Lama fa notare che, anche in questa vita, possiamo ricordarci di alcune esperienze e dimenticarci di altre. A maggior ragione quando si tratta di altre esistenze.
Sua Santità il Dalai Lama: “Nulla permette di assicurare che potremmo ricordarci un giorno di quel che abbiamo vissuto, delle nostre azioni, delle nostre emozioni, degli oggetti che ci hanno circondato. Il fatto che non ci ricordiamo di nulla non permette in alcun modo di concludere che “non ero io”, che sono ora un essere nuovo, unico nella storia del mondo.”
Jean-Claude Carriere: “Perché la stragrande maggioranza di uomini e donne non si ricorda di nulla?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché, al momento della morte, il livello della coscienza, cioè lo stato intermedio ove essa si trova fra una vita e un’altra vita, diventa più sottile. È a questo livello sottile che si aggrappano, per passare in un’altra vita, i ricordi della vita precedente. Ma per debolezza, per mancanza di slancio, di concentrazione, la maggior parte degli individui resta a livello dello spirito cosciente, che noi definiamo grossolano.”
Jean-Claude Carriere: “Coloro che hanno qualche esperienza della coscienza più profonda hanno dunque maggiori possibilità di ricordarsi delle loro vite passate?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, senza alcun dubbio.”
Jean-Claude Carriere: “Se comprendo bene, questa coscienza sottile esiste indipendentemente dal corpo e dal cervello?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì. È legata all’apparizione della coscienza nell’essere umano, ed è sempre presente, sussiste anche quando altri livelli della coscienza sono cancellati.”
Jean-Claude Carriere: “È dunque indistruttibile?”
Sua Santità il Dalai Lama: “In un certo senso. E questa è la ragione della sua reincarnazione. Per ritornare al Big-Bang, diciamo all’origine del mondo, si può anche pensare che questo spirito sottile, di una forza ineguagliabile, sia il principio creatore primario.”
Jean-Claude Carriere: “Il Buddha Sakyamuni, suppongo, ha colto questo spirito sottile?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ne era una manifestazione. Benché nato come un principe e vissuto come un mendicante, sotto gli occhi di migliaia di persone, la sua vita manifestata in quel modo assomigliava un po’ a un ruolo. Questo ruolo l’ha rivestito per il tempo di una vita umana, per venire in nostro aiuto. Ma il suo spirito sottile, ancor prima della sua nascita, aveva già eliminato ogni ostacolo alla visione perfetta.”
Sembra giunto il momento di parlare dei “tre corpi”. Questo stato sottile dello spirito (jnanadharmakaya), dotato di una conoscenza totale e causa prima delle cose, è in qualche modo circondato da un corpo ugualmente sottile, che noi non possiamo percepire nello stato attuale della nostra coscienza. Il nome di questo corpo sottile, che esiste in quanto tale fino alla fine del samsara, è Sambhogakaya, “corpo di gioia” o “di beatitudine”. È da questo corpo di gioia che proviene il “corpo di manifestazione” (Nirmanakaya), che, come dice il nome, si manifesta in diversi esseri e senza dubbio in diversi mondi
Senza l’esistenza del “corpo sottile”, lo spirito sottile, entrato nel nirvana, potrebbe correre il rischio di non manifestarsi più , di dimenticarci nella nostra sofferenza. Proprio per questo, all’interno del Mahayana – le cui speculazioni metafisiche hanno assai largamente sorpassato la dottrina dell’hinayana questo corpo sottile diventa quello del bodhisattva intercessore e compassionevole. A sua volta, questo bodhisattva assume una forma manifesta, concreta, umana, come quella dell’uomo col quale parlo da qualche giorno.
A tratti, mentre cerco di seguire la dotta e logica complessità di questa costruzione dello spirito da parte sua, mi tornano in mente proposizioni e do-mande della scienza di oggi. Questa scienza riconosce nell’universo l’esistenza di quattro forze fondamentali e continue, la forza di gravità, che governa i movimenti dei corpi nello spazio, la forza elettromagnetica (unificata a partire dal XIX secolo), e due forze nucleari, che reggono la coesione della materia e i movimenti delle particelle, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole.
È così viva la nostra attrazione verso l’unità, verso la spiegazione globale, che un gran numero di scienziati sogna di unificare queste quattro forze. Questa forza unica, perpetuamente intatta e dipendente solo da se stessa, ricorda come un sogno di oggi l’antica intuizione buddhista dello spirito sottile, inaltera-bile, causa prima di tutte le cose e di conseguenza di se stesso.
A parte questo, il buddhismo unisce indissolubilmente a questa forza – che, beninteso, è fondamentalmente neutra e sprovvista di sentimenti – una dimensione di compassione naturale che cercheremmo invano nella gravità, nell’elettricità o nell’energia nucleare.
Il Dalai Lama mi indica altre manifestazioni dello spirito sottile.
Sua Santità il Dalai Lama: “Ad esempio la conservazione del corpo dopo la morte clinica. Così, il corpo del mio tutore rimase intatto tredici giorni prima di incominciare a decomporsi. Un altro lama, uomo eccezionale, poté conservare il proprio corpo integro per diciassette anni”.
Jean-Claude Carriere: “Come lo spiega?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Per l’alta qualità dello spirito sottile, che è sempre presente e la cui forza è tale da conservare l’integrità del corpo. Si vede anche talvolta sul viso del defunto – così è stato per il mio tutore – una maggiore luminosità e serenità. L’ultimo giorno di questa specie di sopravvivenza, si vede comparire un po’ di liquido, e allora inizia la decomposizione. Questo liquido è il segno della partenza dello spirito sottile.”
Jean-Claude Carriere: “In cerca di un altro corpo?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì.”
Jean-Claude Carriere: “È dunque lo spirito sottile che si reincarna?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Si, ma questo spirito, bisogna ripeterlo, noi non lo chiamiamo atman. Non è l’anima, come dite voi, a essere eterna per sua essenza. Noi non riconosciamo alcuna essenza particolare, alcuna entità indipendente e stabile unita all’individuo. La nostra coscienza è in perpetuo cambiamento. Nulla è permanente, nulla può trasmettersi senza profonde modificazioni.”
Jean-Claude Carriere: “Lei ha detto che la morte, processo normale e inevitabile, è per lei un cambiamento di abiti vecchi e logori, piuttosto che una vera fine.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Esatto. E se vogliamo morire bene, dobbiamo imparare a vivere bene. L’esperienza della morte è per noi di estrema importanza, perché lo stato del nostro spirito in quel momento può decidere della qualità della nostra futura rinascita Possiamo anche, al momento della morte, fare uno sforzo particolare. La meditazione può raggiungere un vertice ineguagliato, il cui effetto si manifesta attraverso la conservazione del corpo. D’altro canto, la speranza di ogni vero buddhista è quella di morire prima del proprio maestro, per essere tranquillizzato e guidato da lui nel momento estremo.”
È consuetudine, fra coloro che credono in un’altra vita o in altre forme di vita, criticare severamente l’atteggiamento materialista, predominante in Occidente, che crede, secondo ogni apparenza, che la morte sia la fine della vita, in ogni caso di una vita, della nostra vita. Questo atteggiamento, mirabilmente descritto da Montaigne in un capitolo degli Essais, condurrebbe a un comportamento brutale, egoista, senza alcun pensiero per il domani e l’avvenire della terra. Questa critica, che talvolta giunge da parte di buddhisti, mi è sempre parsa superficiale. Oltre al fatto che nulla permette di dire che coloro che credono solo in questa vita non si preoccupino in alcun modo della terra che lasceranno ai loro figli (fino a prova contraria la religione cristiana ha raramente rivolto l’attenzione alla sorte del pianeta e, a causa del suo rifiuto di ogni limitazione delle nascite, contribuisce anche alla sua distruzione), si può trovare, nei confini stessi della vita umana, che va dal nulla al nulla, la ragione prima della sua dignità e della sua bellezza.
D’altro canto mi rendo conto chiaramente, e molti sono coloro che l’hanno sottolineato prima di me, che nella tradizione buddhista, che afferma di poggiare sull’esperienza e sulla constatazione dei fatti, questa minaccia di una rinascita in corpi inferiori, persino animali e anche esseri infernali, stia come il bastone del gendarme, per esortarci a tenere un migliore comportamento proprio in quella vita che ci è assegnata. Sappiamo quali difficoltà incontra la costruzione di una morale civile, questa morale laica che il Dalai Lama stesso auspica così frequentemente. Forse abbiamo ancora bisogno – almeno quella parte fra noi che non può accettare l’idea, tuttavia molto semplice, di una morte totale e definitiva (salvo le nostre particelle elementari, che si ricomporranno) – di questa paura di un castigo in un qualche inferno, o di una ricompensa accordata per sempre.
Preferisco non aprire questa discussione, di cui mi sembra che possiamo già dire i risultati. Reputo più interessante proseguire sul cammino buddhista, ove la vita e la morte sono concepite come un tutto. La morte – e più precisamente il passaggio, il bardo, che conduce da una vita a un’altra vita – è sovente avvertita come lo specchio ove la vita intera si riflette. Così, la morte si impara durante la vita. Vivere bene, è imparare a ben morire, per meglio rivivere. Il santo poeta Milarepa lo esprimeva così: “Questa cosa chiamata cadavere, e che ci fa così paura, vive con noi, qui e ora”.
Sua Santità il Dalai Lama: “Abbiamo paura di morire perché non conosciamo né il giorno né l’ora. Perché la morte ci può sorprendere a ogni istante Poiché temiamo il dopo morte, temiamo di ritrovarci in un luogo spiacevole e sconosciuto, colmo di angoscia.”
Jean-Claude Carriere: “Anche i buddhisti?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Certo. Non dimentichi che la necessità di rinascere non è considerata come una ricompensa. Al contrario. Sto tentando di spiegarle che la reincarnazione, che è una scelta, è profondamente legata a un certo livello della vita dello spirito. Se questo livello è raggiunto, lo spirito sottile che abbiamo sviluppato – ma che è solo una parte del nostro essere – può scegliere la sua prossima destinazione. È dunque un passo verso la liberazione, un miglioramento possibile. Senza questa scelta, la rinascita è un ricadere nel samsara.”
Jean-Claude Carriere: “La reincarnazione può avvenire in altro luogo che non sia la terra?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sicuramente. Su un altro pianeta, e anche in un’altra galassia. La nobiltà dello spirito può estendersi all’infinito. È uno dei nostri insegnamenti fondamentali.”
Jean-Claude Carriere: “E lo spirito può trasformarsi?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Lo può e lo deve. Può liberarsi delle impurità che lo contaminano ed elevarsi fino al più alto livello. In partenza abbiamo tutti le stesse capacità, ma alcuni le sviluppano, altri no. Ci abituiamo molto facilmente alla pigrizia dello spirito, tanto più facilmente quanto più questa pigrizia si nasconde sotto un’apparenza di attività: corriamo a destra e a manca, facciamo conti, telefoniamo. Ma queste attività non mettono in opera che i livelli più elementari e più grossolani dello spirito. Ci nascondono l’essenziale.”
Jean-Claude Carriere: “Perché lo spirito è legato al corpo?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché tutto quel che cambia deve avere una sostanza. Quando parliamo dello spirito, sappiamo bene che non si può né vederlo, né misurarlo. Ha bisogno della nostra forma materiale, che ci giunge dai nostri genitori, secondo le leggi dell’ereditarietà. Questa sostanza è organizzata dai cromosomi, credo. Lo spirito rappresenta l’energia sottile e inafferrabile, che prende il corpo come sostanza. Al suo più alto livello, come ho detto, questo spirito non può sparire. Viene allora considerato come una forma di saggezza. È il maestro interiore, il supremo guru. Ha superato lo spazio e il tempo.”
Mi rammento a questo proposito una nota storia cinese, che non è sfuggita a Borges:
Il Buddha disse un giorno alla scimmia, animale ritenuto astuto e intelligente:
“Facciamo una scommessa. Se con un balzo puoi uscire dal palmo della mia mano, ti donerò il trono dell’Imperatore di Giada”.
La scimmia radunò tutte le proprie forze e fece un enorme salto. La si perse di vista. Cadde in un luogo ove si alzavano cinque colonne rosa e credette di essere giunta ai confini dell’universo. Allora si strappò un pelo, lo intinse nell’inchiostro e scrisse alla base della colonna di mezzo: Il Grande Saggio, colui la cui conoscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui Con un altro balzo ritornò al suo punto di partenza e disse al Buddha:
“Ho saltato, sono uscita dalla tua mano, ora sono ritornata. Dammi il trono promesso”.
“Tu non sei uscita dal palmo della mia mano” le rispose il Buddha. “Guarda bene.”
La scimmia abbassò gli occhi, guardò il palmo della mano e, alla base del medio, lesse questa frase: Il Grande Saggio, colui la cui conoscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui.
Jean-Claude Carriere: “E se un giorno la scienza provasse che la reincarnazione non esiste?”.
Sua Santità il Dalai Lama: “Se lo provasse davvero, dovremmo abbandonarla. E lo faremo. Ma per ora, ai nostri occhi, la rinascita e la reincarnazione sono realtà, come gli atomi sono realtà. Se alcuni non credono che la rinascita sia una realtà, consideriamo il loro un atteggiamento ignorante.”
Jean-Claude Carriere: “Non è dunque una fede?”
Sua Santità il Dalai Lama: “No, è un fenomeno fisico. Secondo le nostre scritture, particelle sottili esistevano nello spazio prima del Big-Bang. Sono sempre presenti. Queste particelle spirituali, che costituivano degli esseri, hanno dato vita al Big-Bang. Perché? Come? Non possiamo rispondere.”
Jean-Claude Carriere: “L’universo è eterno?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Un universo particolare può esistere e sparire. Cicli immensi possono succedersi. Ma l’universo nel suo insieme, l’universo-spirito, c’è sempre.”
Mostra un mazzo di fiori nella stanza e dice ancora:
“La natura del Buddha esiste in tutte le cose. Ma non possiamo conoscere tutto. Così, non sappiamo se questi fiori possano provare piacere o dolore”.
Gli narro allora che, nella mia infanzia, ho visto mio nonno, piccolo contadino del Midi francese, piantare in un angolo del suo giardino due piante di pomodori simili, nella stessa terra. Ad ogni pianta dava ogni giorno la stessa razione d’acqua. Ma si soffermava sulla prima, la accarezzava, le parlava con amore, le rivolgeva mille complimenti. Non concedeva alcuna parola, alcuna attenzione all’altra.
“Ogni anno ci mostrava come la prima pianta portasse pomodori più numerosi e più belli della seconda. Forse mio nonno imbrogliava? Voleva farci credere di essere un simpatico stregone? Non l’ho mai saputo.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Bisognerebbe andare più lontano. Sapere ad esempio se queste reazioni provengono dalla pianta stessa, o da qualche essere invisibile.”
Questa miriade di Buddha, questa estrema dissoluzione in ogni cosa di una qualità inalterabile, è un tema che il buddhismo ha illustrato in mille modi, con la speculazione, con la grafica di alcuni mandala, con la poesia, anche con l’aneddoto. Si racconta in Cina che un monaco entrò in un tempio e sputò su una statua del Buddha. Siccome lo rimproverarono, disse: “Vi prego, mostratemi un luogo in cui non vi sia il Buddha”.
Sua Santità il Dalai Lama: “Noi crediamo che esista una coscienza sottile, e che essa sia la fonte di tutto quel che chiamiamo la creazione. In ogni individuo, la coscienza sottile dimora dall’inizio del tempo fino all’accesso alla buddhità. È quello che chiamiamo essere (being). Questo essere può prendere differenti forme, animali, uomini ed eventualmente Buddha. È la base della teoria delle rinascite. Lo spirito sottile, nel lungo succedersi dei secoli, di forma in forma, cerca necessariamente la buddhità. Quando raggiunge in un individuo un alto grado di qualità, sceglie la propria successiva forma. Ecco la reincarnazione”.
Anche se le nostre tradizioni, religiose o filosofiche, ci impediscono sovente di aderire a questo pensiero, anche se esso ci resta estraneo, anche se ci man-ca, per lo più , l’esperienza diretta della reincarnazione, non si può che ammirare questa visione veramente grandiosa. Torno per un momento alla petizione surrealista, a questa “libertà dello Spirito nello Spirito”, speranza suprema. Il buddhismo si spinge il più lontano possibile nella ricerca della più alta forma di questo mistero che è lo spirito. Per riprendere il titolo del poema cinese che ho già citato, tutto il buddhismo è una “iscrizione sulla fiducia nello spirito”. Rifiutando di annientarlo, è andato al di là dello stesso mondo.
Un altro modo di parlare di questo stato di conoscenza suprema, fine di ogni buddhista praticante, è l’espressione, per certi versi assai misteriosa e decisamente lontana da noi, di Tathagata. Il termine significa “Colui che è giunto in un certo luogo” o “da qualche luogo”, secondo le interpretazioni, e si applica a diversi grandi personaggi, fra i quali Sakyamuni.
Possiamo cercare di coglierne il senso partendo dal termine tathata, che significa “il fatto di essere così”. Questa parola si traduce talvolta, nelle lingue occidentali, con barbarismi del tipo “ainsité” oppure “suchness”. Ancora una volta, le parole sono un freno e una maschera.
Questo “fatto di essere così”, è la suprema semplificazione. Lo spirito raggiunge una qualità tale da dimenticare se stesso. Nulla separa l’essere particolare da se stesso, o dalle cose. È così, è quello. È assimilato al resto del mondo, senza riflessione, senza dubbio e senza distanza. Questa assimilazione è naturale. Il beneficiario può anche non notarla.
Come dicono numerosi koun del buddhismo zen, è sufficiente, per raggiungere la verità suprema, preparare correttamente il tè, o agitare un ventaglio quando fa caldo. Alcuni viaggiatori incontrano un vecchio che si sposta, nelle acque impetuose di un torrente, con una stupefacente facilità. Salta di pietra in pietra, nuota nei gorghi e tra le cateratte – là dove nessun atleta ventenne s’arrischierebbe. Quando gli si domanda il suo segreto, non capisce la domanda. Vive vicino a questo torrente fin dall’infanzia e non vi fa caso. È diventato la roccia scivolosa, l’acqua vorticosa. Non può più distinguersi da esse.
Rileggendo i miei appunti, mi accorgo che abbiamo parlato molto raramente degli dèi: appena qualche fugace allusione. Il buddismo, e più particolarmente il buddismo tibetano, ha tuttavia riconosciuto e moltiplicato le forme divine, al punto da contarne ancor più del brahmanesimo. Gli dèi sono raggruppati in società e il Dalai Lama stesso ne elenca qualcuna in uno dei suoi libri. La distinzione fondamentale si opera fra gli dèi “mondani”, cioè collegati alle forme del mondo (il sole, la luna, una fonte) e gli dèi “extra-mondani”, che si sono staccati dalle forme sensibili. Queste due categorie si dividono ancora, e Si suddividono. Tutte queste divinità, i cui caratteri dominanti sono sovente ereditati dal brahmanesimo, non sono necessariamente benevole. Alcune possono essere temibili, come la terribile Marici, che si presenta con una testa di leonessa ed è la sposa del re degli inferi. Un’altra dea, Lhamo, che porta gli attributi dell’indiana e sanguinaria Durga, è al contrario compassionevole e rassicurante. Ci protegge dai demoni, anch’essi molteplici, confusi. Tutte queste immagini di divinità, questa costellazione di dei, può servire di supporto alla preghiera, alla meditazione. A dire il vero questo vale soprattutto per gli strati più popolari. Man mano che lo spirito si eleva nella percezione di se stesso, guardando all’interno invece di smarrirsi all’esterno, percepisce questa infinità di forze e di forme, per riprendere un’espressione di Maurice Percheron, come “Io sfavillio di un unico diamante”. A poco a poco si rivela l’unità, questa unità inconcepibile, e che tuttavia può essere colta nell’elevata sottigliezza dello spirito.
Sembra che, adattandosi con elasticità al movimento quasi inafferrabile del tempo, il buddhismo contemporaneo, al suo livello più puro, abbandoni a poco a poco i concetti e le forme antiche, come un viaggiatore che si sbarazzi di accessori diventati superflui. Così si allontanano, ma senza fretta, senza rinnegamento, senza rivoluzione, le superstizioni di un tempo, le avventure mitologiche di dèi e dee, le credenze inutili e anche oscure, tutto quello che potrebbe passare per sovrannaturale, cioè per esteriore.
Al loro posto si impone lo spirito, uno spirito creatore, capace di elevarsi e frequentatore dell’eternità. Secondo gli insegnamenti più raffinati (e più difficili) del tantrismo, questo spirito, sbarazzatosi di ogni inutile bagaglio, vede tutta la verità in questo mondo e nella percezione che ne abbiamo. Inutile, come voleva il Mahayana tradizionale, cercare al di là di questo mondo, in una foresta di invisibili. Tutto è qui. Il nostro sforzo deve tendere a ricercare la purezza dell’apparenza, cioè i fenomeni – che racchiudono ogni verità – come messi a nudo, rivelanti la loro vera natura.
Lo spirito diventa così la sua propria macchina, luce e specchio. Le divinità che si possono invocare hanno perso ogni esistenza separata, non sono che delle espressioni della vera natura di ciò che è. Si può anche considerarle – cosa non contraddittoria – come prolungamenti del nostro pensiero.
Come ha scritto un maestro tibetano, Chogyam Trungpa, questo lavoro dello spirito è “una delle intuizioni più avanzate, più acute e più straordinarie mai sviluppate. È insolito e originale. È potente, magico e oltraggioso. Ma è anche estremamente semplice”.
Resta da domandarsi – e i maestri del pensiero buddhista non hanno mancato di farlo – se lo spirito stesso non sia in ultima analisi un’illusione, l’illusione suprema. Abbiamo già ricordato questa autoesaltazione dello spirito. Che esso si dia un nome e che si analizzi non prova in alcun modo la sua esistenza (contrariamente all’affermazione di Cartesio). Può benissimo darsi che sia solo uno degli attributi della grande rete della Maya, o anche la rete intera, l’illusione che avvolge tutti, anche gli dei e forse anche i Buddha.
Ma questa è un’altra avventura. Pur prendendola in considerazione, perché tutto va considerato, il buddhismo generalmente la rifiuta. Esitante fin dall’origine fra la tentazione del gioco – che potrebbe chiamarsi il gioco del nulla, questo gioco ove lo spirito, per la sua agilità stessa, finisce per perdere ogni supporto e per riconoscere “io sono colui che non è” – e la necessità di una morale quotidiana in questa vita relativa e sofferente che non possiamo evitare, il buddhismo ritorna sempre all’aspetto pratico, persino pragmatico. Ci indica come vivere. E sogna una landa segreta, dove la luce e il vuoto hanno cominciato, e finiranno, per confondersi.
La vacuità.
Le scritture fondamentali del Mahayana costituiscono un centinaio di volumi. Una parte di queste scritture porta il nome di Prajnaparamita.
La prajna è una qualità che tutti abbiamo, che di solito sonnecchia ma che possiamo risvegliare. Il più delle volte si traduce questa parola con “saggezza”, ma pare inesatto. Si tratta piuttosto di una predisposizione alla saggezza e al risveglio, che possiamo mettere all’opera o lasciare dormire.
La Prajnaparamita è il compimento della prajna, l’arrivo alla meta. Una frase, che si attribuisce al Buddha stesso e che viene detta “la grande liberazione”, “il mantra senza eguali”, dice così: “La forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma”. Oppure, secondo altre traduzioni: “Là dove c’è la forma, c’è il vuoto, e là dove c’è il vuoto, c’è la forma”.
Jean-Claude Carriere: “Posso sperare di comprendere un giorno questo mantra?”.
Dapprima ride sonoramente.
Sua Santità il Dalai Lama: “Il vuoto, sunyata, fra le quattro nozioni buddhiste fondamentali (le altre tre sono la transitorietà, l’interdipendenza e la sofferenza), è certamente la più misteriosa, la più difficile da cogliere”.
Che cosa è dunque questo immenso edificio di esperienza del pensiero che non si aprirebbe alla fine se non su un’assenza di sostanza? Quali sarebbero i fondamenti di questo edificio dello spirito che l’ha costruito? Se il vuoto è la sola realtà a non essere illusoria, a sfuggire alla rete della Maya, chi ha teso questa rete? Si può vivere in una vertigine? Immaginare un sogno senza il sognatore?
Il Dalai Lama mi risponde dapprima che il vuoto è una nozione scientifica.
Sua Santità il Dalai Lama: “Lei stesso l’ha detto. Noi siamo vuoti, la materia che ci compone è, per così dire, vuota”.
Jean-Claude Carriere: “È vero, il nucleo di ogni atomo, se è ancora possibile parlare di dimensioni a questa scala, è infinitesimo rispetto all’atomo stesso. Un granello di riso, l’abbiamo detto, sotto la cupola della basilica di San Pietro. Lo stesso per l’universo. Se tutta la materia nucleare di miliardi e miliardi di galassie si disperdesse nella distesa dell’universo, la densità di questa materia sarebbe ridotta praticamente a nulla. Qualche particella per metro cubo. Impercettibile.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Vede bene.”
Jean-Claude Carriere: “Ma suppongo che la concezione buddhista del vuoto non avesse, per Nagarjuna, un punto di partenza scientifico.”
Sua Santità il Dalai Lama: “E perché no? Vi è più di una strada che porta alla conoscenza. E talvolta queste strade si incontrano.”
Jean-Claude Carriere: “Si può parlare del vuoto senza parlare nel vuoto?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Lo credo. E bisogna precisare anzitutto che il termine “vuoto” non vuole dire “nulla”. A torto alcuni commentatori hanno accusato il buddhismo di “nichilismo”. Il mondo, di cui facciamo parte, non è un essere in sé, né un insieme di esseri. È una fluidità. Una corrente di stati. Questo non significa che sia nulla.”
Jean-Claude Carriere: “Dire “non sono” non significa dire “sono niente”.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Assolutamente. E questo si spiega così: tutte le cose dipendono da altre cose. Nulla esiste separatamente. Credo d’altra parte che su questo punto la scienza contemporanea proceda sulla nostra stessa strada.”
Jean-Claude Carriere: “Sono d’accordo. Essa pone più spesso l’accento sulle relazioni tra i fenomeni, piuttosto che sui fenomeni stessi.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Noi diciamo così: a causa di tutte le influenze che ricevono, le cose appaiono, esistono e scompaiono. Incessantemente.”
Jean-Claude Carriere: ” In una corrente continua.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Ma esse non esistono mai di per sé. Questa mano, ad esempio…”
Apre la mano, palmo in su, la pone sotto i miei occhi.
“… dà un’impressione di solidità, di coerenza. Offre allo sguardo una forma precisa. Ha tutte le apparenze di una entità.”
Tocca ora le diverse parti della propria mano, il palmo, poi le dita, poi le falangi.
“Ma se mi interrogo sul serio, se mi domando: in fondo, che cos’è la mia mano? È questo dito? È questa parte del dito? No, non posso che rispondere: il dito è il dito, non è la mano. Ma a sua volta è un insieme di falangi? No, perché posso scomporlo in falangi e non studiare, guardare, denominare se non ognuna di queste falangi.”
Jean-Claude Carriere: “D’altronde perché fermarsi alle falangi?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Naturalmente! Posso scendere sempre più profondamente all’interno di questa materia che è qui senza mai incontrare veramente la mia mano.”
Jean-Claude Carriere: “Tuttavia, lei si serve della sua mano.”
Sua Santità il Dalai Lama: “È qui per questo. E ne sono molto contento. Questa combinazione di elementi diversi, ciascuno dei quali si scompone e che, insieme, si riuniscono, la chiamiamo “una mano”. È molto semplice. La definiamo così per un consueto procedimento dello spirito. È ciò che noi chiamiamo realtà relativa.”
Jean-Claude Carriere: “Che dipende da elementi diversi da se stessa?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Esatto. Perché nulla esiste senza una causa. La natura profonda di questa mano è quella di appartenere a tutta una trama di influenze, di cui nessuna è duratura.”
Jean-Claude Carriere: “Perciò questa mano cesserà un giorno di essere la sua mano.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non lo sarà stata che per un periodo molto breve, se la si rapporta all’età del mondo. Un momento fuggente, quasi inafferrabile. Siamo tutti convinti di vivere indipendenti gli uni dagli altri, che questa mano, questo foglio di carta abbiano un’esistenza separata.”
Jean-Claude Carriere: “Il nostro spirito ha bisogno di scomporre e di denominare. Non può accontentarsi di una visione complessa e confusa del mondo.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Visione complessa che bisogna tuttavia ammettere e cercare di cogliere. Senza questo scegliamo di rimanere nell’illusione. Se ogni essere vivente, se ogni oggetto godesse di un’esistenza indipendente, nessun altro fattore potrebbe influenzarla. Le relazioni di cui lei parla non esisterebbero. Ora, noi vediamo che queste influenze, queste relazioni sono molteplici e incessanti.”
Jean-Claude Carriere: “La mancanza di un’esistenza indipendente, è dunque questo che lei chiama “vuoto”?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Precisamente. La forma è dunque ‘`vuoto”, cioè non-separata, non-indipendente. Questa forma dipende da una molteplicità di altri fattori. È la realtà relativa.”
Jean-Claude Carriere: “E perché il vuoto è forma?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché ogni forma si sviluppa in questo vuoto, in questa mancanza di esistenza indipendente. Il vuoto non esiste se non per portare alla forma Non può essere altrimenti. Il vuoto senza la forma non ha senso.”
Così il foglio di carta sarebbe vuoto. Vuoto, cioè pieno. Pieno di tutto il cosmo.
Nella tradizione tantrica del Vajrayana, del “veicolo di diamante”, si vede persino sparire la distinzione fra realtà assoluta e realtà relativa, fra il “non nato” e il “nato” o, se si preferisce, fra l’essenza e l’esistenza. La verità definitiva e invalicabile può esserci data nel mondo dei sensi, dalla tecnica chiamata di “visualizzazione sacra”. Essa raggiunge il tathata, l’evidenza. I fenomeni cessano di apparire come fenomeni, davvero il problema dell’ignoranza e della distinzione non si pone più , tutto ci è dato da questa percezione superiore, nulla dev’essere cercato oltre.
L’unità si impone. È lampante. Nulla separa allora il vuoto e la luce.
Veniamo ora – ed è quasi inevitabile – al delicato concetto di “virtualità” che, da una decina d’anni, si insinua e prende posto persino nell’espressione scientifica, mentre invade le recenti fabbriche di immagini.
Rifiutando di ammettere la creazione di un mondo a partire dal nulla, ex nihilo, perché in questo caso il fisico non avrebbe in fondo nulla da dire di fronte all’assenza di materia, alcuni scienziati contemporanei più arditi, come Michel Cassé, parlano di un “coraggio davanti allo zero”‘ e semplicemente rifiutano il nulla. Distinguono nettamente il vuoto metafisico, o nulla, puro concetto dello spirito, dal vuoto quantico, che vedono popolato da una infinità di “virtualità”.
Questo vuoto non è “nulla”. Suppone l’esistenza di un campo, ma questo campo ci sfugge, non è individuabile. Possiamo vederne gli effetti, perché collega fra loro le particelle reali, e ci sembra anche in movimento, ma non possiamo osservarlo. È per questo che lo chiamiamo vuoto, mentre è pieno. Pieno di virtualità della materia.
Per giungere all’esistenza apparente, le unioni di particelle virtuali non attendono che un’attivazione, e il fatto stesso di osservarle può giocare un ruolo determinante. Siamo così molto vicini all’assenza di dualità – fra l’osservatore e l’osservato – molte volte ripetuta nella storia dell’induismo e del buddhismo. “Per sempre inseparabile dalla cosa che vede è la cosa vista”: così diceva, nel XVI secolo, Kun Khyen Pema Karpo.
Michel Cassé, astrofisico, giunge a dire che “la conoscenza dello stato del vuoto è diventata una condizione necessaria per la costruzione di un modello coerente di natura”. Vede questo vuoto come “una cosa piena e con un destino” e lo pone “al vertice cosmico e logico del problema delle origini”. Scrive anche, nelle ultime pagine del suo libro: “Essere nel vuoto, è essere a casa propria”.
Nessun insegnante buddhista vi troverebbe nulla da ridire.
Per il momento sono abbastanza rari i fisici che si avventurano su questo terreno. La maggior parte preferisce attenersi alla materia così come ci appare. E questa materia sembra serbare ai loro occhi il suo senso tradizionale: qualcosa di solido, di pesante, in sintesi, qualcosa di pieno. Il Big-Bang sembra loro il limite rigoroso al di là del quale nulla può essere detto, né pensato, né immaginato. Davvero è difficile considerare la materia come vuoto, come se si fosse, a poco a poco, dopo secoli di osservazione, praticamente smaterializzata.
È qui, forse, che l’elasticità del buddhismo può aiutarci ad accettare quello che noi stessi abbiamo scoperto, e che le parole consuete non ci permettono di dire.
Sua Santità il Dalai Lama: “Quando abbiamo denominato le cose, allora possiamo dire che dipendono dal nostro spirito. Così il Big-Bang, come la materia, dipende forse dal nostro spirito”.
Jean-Claude Carriere: “E anche da un bisogno del nostro spirito.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Fa così dunque parte della realtà relativa. Lo chiamiamo oggi il Big-Bang. Domani gli daremo senza dubbio un altro nome. Non lasciamoci imprigionare da concetti formulati con parole. Gli uni e le altre sono effimeri. Accettiamo il vuoto con un sorriso e, poiché tutto dipende dal nostro spirito, confidiamo nel nostro spirito.”
Mi ricorda che questa fiducia, evidentemente, non deve essere cieca. Il buddhismo dispone, a questo proposito, di un immenso arsenale di precauzioni, per difendere lo spirito dallo spirito, e per condurlo al proprio vertice. Il passo supremo porta alla scomparsa dello spirito, dei demoni, del Buddha stesso. Il vuoto è la grande meta. Quando la verità ultima è raggiunta, ha cantato Milarepa,
Non c’è chi medita, né oggetti su cui meditare, non vi sono segni di compimento, non tappe, né vie da percorrere, non sapienza ultima, non corpo del Buddha. Anche il nirvana non esiste. Tutto questo non è che parola, modo di dire. Inutile pretendere di cominciare da questa scomparsa, idealmente sperata, da questo accesso alla pienezza del vuoto. Se la proclamassimo come prima cosa, non ci condurrebbe che allo scoraggiamento solitario, frutto del nichilismo, o alla violenza disordinata dell’egoismo: giacché nulla esiste, giacché non sono controllato da alcuna autorità superiore, perché non abbandonarmi agli istinti più rapaci?
Sua Santità il Dalai Lama: “Una cosa non può essere messa in dubbio, cioè che esiste in noi la possibilità di una qualità. È la prajna. Possiamo negare tutto, tranne questa possibilità che abbiamo di diventare migliori. Riflettiamo semplicemente su questo.”
Mi afferra le mani e le tiene a lungo nelle sue.
Mi guarda sorridendo.
Come ogni conversazione, anche questa ci conduce al silenzio.
Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza