Jean-Claude Carriere: “Proprio in ragione della diffusione mondiale dei film.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Bisogna che agiscano in un interesse più vasto. È indispensabile. Forse si dovrebbero anche incoraggiare rapporti tra coloro che fanno i film e coloro che li guardano.”
Jean-Claude Carriere: “Sì, perché tutto va sempre a senso unico, con una sola regola, malauguratamente commerciale: fare quel che piace alla maggioranza. Ciò vale all’interno di un paese, ma anche fra un paese e l’altro. In materia di cinema e di televisione, ad esempio, gli Stati Uniti esportano molto nel resto del mondo, e non importano quasi nulla.”
Ritorniamo un momento su una precedente conversazione. Gli parlo delle lotte che abbiamo condotto, e che conduciamo sempre, affinché l’Europa conservi, anche se fosse necessario proteggerla con delle normative, la capacità di raccontarsi le proprie storie, con i mezzi di oggi.
Sua Santità il Dalai Lama: “Sotto il pretesto di una semplice rivalità commerciale sottoposta alle leggi del mercato (ma quali leggi? Emanate da chi? E in nome di che cosa?), non dubito che si tratti di un nuovo tipo di colonizzazione. Ho constatato un fenomeno simile con l’occupazione cinese in Tibet. Il pretesto non era commerciale, ma politico e culturale. Affermavano di portarci la rivoluzione, i tempi nuovi e luminosi. In realtà, questa propaganda non nascondeva che un desiderio di egemonia.”
Jean-Claude Carriere: “Quando alcuni distributori americani parlano di una sorta di monopolio dell’immagine che pensano di stabilire nel resto del mondo (in India si apprestano a diffondere i loro film in versioni già doppiate, per battere il cinema indiano sul suo stesso terreno), bisogna scorgervi una intenzione nascosta di far penetrare insieme ai film altri prodotti, automobili, abiti, bevande, musica, tutto ciò che costituisce l’American way of life, e così senza dubbio, più segretamente, modelli di comportamento e di pensiero.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Conosco bene questo metodo e lo temo quanto voi. I mezzi di cui si serve sono seducenti, sovente insospettabili. Chi può svelare esattamente ciò che si nasconde in un film?”
Jean-Claude Carriere: “Mi sembra che l’immagine di cui tanto si parla non sia un fenomeno superficiale. Ogni immagine, anche fuggente e maldestra, è il riflesso di una realtà profonda, che senza di essa non comparirebbe. Nel secolo venturo, i popoli che non avranno saputo procurarsi i mezzi per costruire la propria immagine saranno minacciati di scomparsa.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sono pienamente d’accordo” mi dice con fermezza.
Jean-Claude Carriere: “Ma una cosa è dirlo, un’altra è farlo.”
Chiudiamo la parentesi e torniamo alla violenza, così come la si vede nei film.
Sua Santità il Dalai Lama: “Nei film indiani assistiamo per gran parte del tempo allo svolgimento di una storia d’amore, che è fortemente contrastata, ma in cui alla fine i buoni di solito si ritrovano e sono premiati, mentre i cattivi vengono puniti.”
Jean-Claude Carriere: “È vero. Nella storia del cinema, raramente si è osato presentare un criminale del tutto felice sino alla parola “fine”. Siamo, da questo punto di vista, sottoposti a una sorta di tacita autocensura, anche se esistono mille modi di aggirarla. Il vero criminale, nei film, viene quasi sempre smascherato e punito. In compenso, l’elenco degli innocenti spogliati e uccisi è lungo.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Tuttavia, per gli animi semplici, esiste senza dubbio un buon uso della televisione. Vedo un uomo che commette un crimine, quest’uomo è arrestato dalla polizia, è sottoposto a un processo, viene punito con il carcere. Spesso viene persino ucciso dalla polizia In ogni caso, paga per ciò che ha commesso.”
Jean-Claude Carriere: “È uno schema molto semplice, che in effetti può funzionare in alcuni casi. Ma altri dicono che il semplice racconto di un furto, di persone prese in ostaggio o di un attentato politico, può risvegliare tendenze.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Per questo la vera disciplina non può venire che dall’interno. Se vedo un criminale punito dalla polizia, ciò può in effetti dissuadermi dal commettere un crimine. Ma posso anche dirmi che se sono sufficientemente abile o fortunato, posso sfuggire alla polizia.”
“Mentre non si sfugge al Karma.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Esatto. Qualunque cosa noi facciamo, in questa vita o in un’altra, il peso del Karma ci riagguanterà Facciamo sì che questa convinzione dimori in noi, e i pericoli della televisione ci appariranno più lievi.”
Sono venuto da Delhi con un’auto e un autista, un uomo di quarantatré anni, un Sikh dalla barba tutta nera, rotondetto, molto cordiale. Una sera mi invita a cena con un autista di autobus. Ha cucinato lui stesso un pollo al curry, molto buono, e mangiamo nella cabina del bus, sul motore. Si sono procurati una bottiglia di un orribile rhum indiano, e beviamo a garganella. Mi parla un po’ della propria vita: suo padre ha perso le gambe durante la guerra fra India e Pakistan. Quanto a lui, è nato a Delhi, si è sposato, ha avuto due figli, ha aperto un ristorante. In quel tempo Indira Gandhi fu assassinata da una delle sue guardie, un Sikh. Una parte della popolazione di Delhi, per vendetta, ha aggredito i Sikh. Egli ha perso il ristorante, l’appartamento, uno dei figli. Ha vissuto sui marciapiedi, ha cercato lavoro, per fortuna è diventato autista, dipendente di un’agenzia. Lavora sodo. Spera un giorno di avere denaro sufficiente per riaprire un altro ristorante.
Siccome non ho bisogno di lui a Dharamsala, lo lascio andare a far visita a una parte della sua famiglia ad Amritsar. Una intera notte di autobus. Torna quattro giorni dopo, molto contento. Mi porta dei dolci.
Un uomo come milioni di altri, alle prese con la durezza della vita, attaccato alle sue tradizioni e alle sue credenze, fiero del Punjab, the richest state in India! Non è buddhista. Nato in una religione, vi resta fedele. D’altro canto rispetta “Sua Santità”, a very geod man. Mi fa notare che i tibetani in esilio in India sono più ricchi degli indiani, più assistiti, ma lo dice senza astio. È così. Tanto meglio per loro.
Mi mostra una fotografia della moglie e dei figli. È un uomo che sorride spesso, un autista molto sicuro. Gli secca chiedere la strada, cosa che lo porta talvolta a smarrirsi. Nulla di grave. Fa marcia indietro e prova un’altra strada. Ci fermiamo, al ritorno, in un grande ristorante di camionisti, the best restaurant in North India. Vi fanno grande uso di spezie.
Come potrebbe quest’uomo dimenticare la violenza vissuta? Supponendo che egli lo decida, quanto tempo gli sarebbe necessario per accettare la non violenza, per essere toccato dal buddhismo? Nella sua vita stretta dal bisogno, dove potrebbe trovare il tempo per meditare, per ascoltare, per leggere? Mi domando questo, nell’auto, mentre guardo le sue mani che afferrano il massiccio volante, e il suo turbante blu chiaro avvolto con cura intorno al capo.
Big bang e reincarnazione
Jean-Claude Carriere:“Lei è l’ultimo Dalai Lama?”
Sua Santità il Dalai Lama: “È molto probabile.”
Jean-Claude Carriere:“Perché?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Per due tipi di ragioni. Politiche, anzitutto. I cinesi, da trentacinque anni, ripetono che ho un solo desiderio: restaurare il vecchio regno di un tempo, riottenere i miei servi, i privilegi e le mille stanze del Potala.”
Jean-Claude Carriere: “E lei che cosa risponde?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Che l’istituzione del Dalai Lama non è di mia competenza. Riguarda solo i tibetani. L’ho detto più volte chiaramente. Se il Tibet ritroverà un giorno la propria indipendenza o, in ogni caso, la propria autonomia – cosa che mi auguro di tutto cuore – non potrà succedere che in modo democratico. I tibetani vorranno che si perpetui l’istituzione del Dalai Lama? Lo diranno. Se una maggioranza fra loro si dimostra contraria, mi ritirerò automaticamente. In questo caso, in effetti, sarò l’ultimo Dalai Lama.”
Jean-Claude Carriere: “Ha detto in qualche luogo che, in queste condizioni, finirà i suoi giorni in un convento, camminando con l’aiuto di un bastone.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Quest’idea non mi dispiace.”
Jean-Claude Carriere: “E le altre ragioni?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sono storiche. Molti credono che il Dalai Lama sia inseparabile dal popolo tibetano. È falso. Fino al XVI secolo, il Tibet ha vissuto benissimo senza Dalai Lama. Domani potrebbe accadere la stessa cosa. Lo ripeto: il prossimo governo del Tibet deve essere eletto democraticamente. È indispensabile.”
Jean-Claude Carriere: ” Potrebbe nascere un altro Dalai Lama fuori dal Tibet?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Perché no? Già uno era nato in Mongolia.”
Jean-Claude Carriere: “Quali sono le vostre relazioni con la Mongolia di oggi?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Molto cordiali, e molto antiche. La Mongolia è un paese fortemente segnato dal buddhismo, come il Tibet. L’ho visitato nel 1979, così come altre repubbliche dell’URSS. La Mongolia era ancora comunista. L’atteggiamento della gente nei miei confronti mi è parso spontaneo, e persino caloroso, quanto quello dei tibetani. Li ho sentiti vicini a me, e questo mi ha toccato molto. Vi tornerò quest’anno.”
Jean-Claude Carriere: “Là il buddhismo è ancora vivo?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, mi pare. Intratteniamo, a questo proposito, rapporti molto stretti. Studenti mongoli, originari di diverse parti del paese, vengono qui, in India, nei nostri diversi centri. Lavorano sotto la direzione di maestri tibetani. E alcuni di noi vanno in Mongolia”
Jean-Claude Carriere: “E i vostri rapporti con il Nepal? Il Bhutan?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Per quanto riguarda le persone, i nostri rapporti sono eccellenti. A livello governativo, è diverso. Da quando il Tibet è stato annesso, questi due paesi hanno una frontiera comune con la Cina. E questo cambia tutto.”
Che le donne siano nate per fare l’infelicità dell’uomo è un’idea generalmente diffusa nel mondo intero. Questo sembra scontato. Il Buddha, malgrado le sue grandissime doti di lucidità di pensiero, non sempre è sfuggito alla regola. Come gli altri, ha considerato la maggioranza delle donne creature “folli e crudeli”, feroci “come un brigante” e, s’intende, menzognere per natura. Ha esortato a lungo i suoi primi discepoli, quelli almeno che volevano diventare monaci, a diffidare delle donne, a non curarsi di loro. Per mesi, ha persino rifiutato di aprire la porta alla seconda moglie di suo padre, sua zia, che l’aveva cresciuto con dolcezza. Vestita di cenci, ella implorava ogni giorno una parola o uno sguardo. Egli non le rispondeva. Passarono anni prima che accettasse la fondazione delle comunità femminili. Quanto a stabilire se la donna potesse come l’uomo giungere all’illuminazione, furono necessarie discussioni assai lunghe con i discepoli perché Sakyamuni acconsentisse ad ammetterlo, per pentirsene subito dopo. Senza dubbio, dal punto di vista della vita spirituale, la donna era considerata inferiore.
Questa esclusione è curiosamente universale. Nel XVI secolo un concilio dividerà la Chiesa cattolica a proposito della qualità dell’anima femminile. La stessa esistenza di quest’anima otterrà solo una maggioranza di pochi voti. Ancora quest’anno, nel 1994, l’ordinazione di alcune donne-prete da parte delle autorità della Chiesa anglicana ha fatto gridare al tradimento qualche anima pia scandalizzata e il papa ha riaffermato che nella Chiesa cattolica solo gli uomini possono diventare preti. L’abito talare non sempre preserva dal maschilismo. Per molto tempo, soprattutto nei paesi dell’Asia meridionale, la donna ha dovuto osservare regole precise nei rapporti con i monaci mendicanti: non toccare gli alimenti nel riempire la ciotola dell’elemosina, non camminare sulla stuoia dove un monaco era seduto, non parlare mai per prima, non spogliarsi mai davanti a lui né sedersi in una posizione che potesse destare desiderio. In alcuni casi, fu persino proibito ai monaci usare come cavalcatura una giumenta o un’asina. In presenza di una donna, i bonzi cambogiani nascondevano il viso dietro un ventaglio: per non vedere o per non essere visti?
Queste proibizioni furono abbastanza presto mitigate in Cina, in Giappone e più ancora in Tibet (sotto l’influenza, senza dubbio, del tantrismo). Si racconta in Giappone una storia zen di due monaci in viaggio. Entrambi hanno fatto solenne voto di non toccare mai il corpo di una donna. Arrivano davanti a un fiume in piena. Sopraggiunge una donna preoccupata e chiede loro di aiutarla ad attraversare il tumultuoso corso d’acqua. Di là, sull’altra riva, c’è sua madre, gravemente malata. Senza esitare, uno dei due monaci afferra la donna e l’aiuta ad attraversare il fiume. Giunta dall’altra parte, la donna li ringrazia e si allontana in fretta. I due monaci proseguono la loro strada l’uno in fianco all’altro, in silenzio. Dopo una mezz’ora di cammino il secondo monaco, a cui la collera non è ancora sbollita, dice improvvisamente al primo: “Ma come hai potuto infrangere il tuo voto? Come hai osato toccare il corpo di questa donna?”.
L’altro lo guarda e dice: “Ah, pensi ancora a lei?”.
Oggi, se la regola del celibato resta stretta tanto per i monaci quanto per le monache (bhiksu e bhiksuni), in compenso li si vede camminare in piena libertà nelle strade di McLeod Ganj, entrare nei negozi, chiacchierare con i passanti e le passanti. Non è raro, nei ristoranti, vedere un monaco pranzare, solo con una donna straniera, che è generalmente un’allieva.
È ancora indice di un karma negativo rinascere nel corpo di una donna?
Sua Santità il Dalai Lama: “In passato senza dubbio la donna è stata trascurata. Come altri paesi, il Tibet ha stabilito una netta predominanza dell’uomo. Poi, a poco a poco, le cose sono cambiate. Oggi, se ci confrontiamo con l’India o con la Cina, la condizione della donna è certamente migliore in Tibet. Ma resta ancora molto da fare.”
Detto questo, mi ricorda che nel buddhismo, e soprattutto nella tradizione Mahayana, i due sessi sono teoricamente uguali. Bhiksu e bhiksuni dopo l’ordinazione, hanno in linea di principio pari diritti e pari doveri. Si dice che il buddhismo, chiamato semplicemente “la religione”, fu propagato con de-cisione in Tibet dalle due mogli (l’una nepalese e l’altra cinese) del re S’rong T’san Gampo. Alla loro morte, si verificò un fenomeno straordinario: Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione, aveva deciso di salvare il mondo dalla sofferenza, dal ciclo del samsara. Vi riuscì, con uno sforzo estremo, chiudendo gli occhi. Quando fu obbligato a riaprirli, vide che la sofferenza era sempre lì, che il samsara colmava di nuovo il mondo. Allora, una lacrima di tristezza e di scoraggiamento scese lungo la sua guancia. Questa lacrima bagnò le due regine, rivelando così il loro destino di consolatrici e protettrici. Vengono chiamate Tara Verde e Tara Bianca. Spesso si confondono in una sola divinità, chiamata Tara, venerata in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Invocata come “madre di tutti i Buddha”, ella calma e rassicura. Bellissimi testi della poesia tibetana le sono consacrati.
Il pantheon buddhista tibetano è troppo complesso perché si pretenda di esaminarlo nei particolari. Varia, d’altra parte, secondo le scuole. Vi si vedono sovrapposte più gerarchie di Buddha, talmente frammentate che Maurice Percheron ha potuto parlare di una “miriade di Buddha”. Cinque entità, che si chiamano “i vittoriosi” (jina) o i Buddha di meditazione, e che corrispondono ai cinque organi di senso, ai cinque colori, alle cinque virtù, dominano questa costruzione. Essi reggono lo spazio e il tempo. Ciascuno riceve la propria invocazione, i propri attributi. Ciascuno possiede anche una sorta di “figlio”, un riflesso spirituale, che è, propriamente parlando, un bodhisattva. Così Avalokitesvara, colui “che guarda in basso”, cioè il compassionevole (di cui il Dalai Lama è la reincarnazione) è stato generato dal jina Amitabha, “la luce infinita”, il Signore dell’Ovest. In questa costruzione singolare, raffinata, difficilmente accessibile ai nostri spiriti improntati ad altri concetti, la forza femminile che si chiama Arya Tara occupa uno dei ranghi più elevati.
Il Dalai Lama mi fa notare che non vi è giunta per caso.
Sua Santità il Dalai Lama: “La sua storia è esattamente quella dell’atteggiamento femminile. Dopo aver raggiunto il primo grado del risveglio, e potendo aspirare a un grado superiore di esistenza, vedendo la supremazia numerica delle potenze maschili, esclamò: voglio raggiungere la buddhità, ma sotto forma di donna! Desiderava in qualche modo dimostrare di poter aspirare a un livello pari a quello di Avalokitesvara. E vi riuscì”.
Aggiunge che i bhiksu e le bhiksuni osservano in teoria le stesse regole.
Sua Santità il Dalai Lama: “Tuttavia una discriminazione sussiste. È difficile precisarne ragioni e limiti, ma le bhiksuni non vengono considerate con la stessa benevolenza e lo stesso rispetto dei bhiksu.”
Jean-Claude Carriere: “Perché?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non mi è chiaro. Cosciente di questa discriminazione, ho convocato l’anno scorso una conferenza su questo tema. È durata quattro giorni. Professori sono giunti da ogni parte del mondo, dall’Occidente come dal Giappone. Abbiamo invitato maestri zen. Insieme, abbiamo esaminato un gran numero di problemi, riguardanti in particolare la condizione delle donne, la vita sessuale, gli scandali finanziari che vediamo scoppiare regolarmente in tutto il mondo. Una bhiksuni ha preso la parola per ricordare l’ineguaglianza che grava sulle monache. Un’altra, una donna anziana, di origine greca, credo, o francese, raccontò la propria storia, con grande semplicità. Questa storia mi toccò così vivamente che mi misi a piangere. Sì, senza dubbio la situazione può essere migliorata.”
Ricordiamo per un momento, ma senza soffermarci, la condizione della donna in Occidente. Se le lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta hanno dato qualche risultato, almeno in linea di principio, resta il fatto che continua a sussistere un’altra forma di discriminazione. Questa riguarda ad esempio i salari, la posizione nella vita politica (se in Francia contiamo i deputati donna, vediamo che il loro numero è alquanto esiguo), la gestione dei mezzi di comunicazione, per non parlare degli sconvolgimenti e traumi della vita quotidiana, degli stupri, delle molestie sessuali. Dopo le speranze di “liberazione” e di “uguaglianza” dei decenni precedenti, una sorta di disillusione sembra essersi abbattuta su tutta una generazione di donne, oggi quarantenni, sovente divorziate, senza lavoro, condannate alla solitudine in una società timorosamente paralizzata da crisi di diversi livelli.
Il Dalai Lama ha raccolto echi di queste speranze deluse. Qui, in Asia, le “condizioni” sono evidentemente diverse. Qualcosa dev’essere fatto.
Sua Santità il Dalai Lama: “E per prima cosa nel campo dell’insegnamento. Dobbiamo riconoscere che le donne possiedono le stesse qualità educatrici degli uomini. L’esempio può esserci fornito da una donna eccezionale vissuta nel XIV secolo, che si chiamava Samding Dorjee Phagmo. Fu riconosciuta come una donna-lama e acquisì in questo modo il potere di reincarnarsi, secondo le nostre tradizioni. Di conseguenza, diede origine a una stirpe di donne-lama che si sono succedute fino ai nostri giorni.”
Jean-Claude Carriere: “Esistono altre stirpi femminili?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, quattro o cinque. Dobbiamo anzitutto riflettere su quello che ci hanno portato queste successioni di donne-lama, cioè su quello che il loro insegna-mento ha potuto presentare di particolare, di prezioso. Dobbiamo anche riflettere sulla poliandria, praticata da tempo in Tibet.”
Non posso evitare di pensare subito a Draupadi, l’energica donna del Mahabharata, che ebbe cinque mariti, i cinque fratelli Pandava, e riuscì ad appagare tutti (a turno) e a dare loro dei figli. Il Dalai Lama ricorda per un istante la poligamia, che non apprezza affatto. Si vede più donne a disposizione di un solo uomo, sovente trattate e messe da parte come oggetti o animali ammaestrati. Non approva l’acquisto delle mogli, che si pratica ancora da qualche parte, e conosce gli orrori che spesso comporta il sistema indiano della dote.
Mi domanda se la poliandria – più uomini per una sola donna – esista in Europa.
Jean-Claude Carriere: “Esiste,” gli dico “ma per lo più gli uomini non lo sanno.”
“Naturalmente. Ma questo capita ovunque!”
Scoppia a ridere, poi torna al Tibet.
Sua Santità il Dalai Lama: “Un’altra consuetudine esiste presso di noi da tempo. Succedeva che l’uomo abitasse presso la famiglia della donna (mentre generalmente accade il contrario) e che allora il cognome restasse quello della donna”.
Jean-Claude Carriere: “Questo cognome veniva trasmesso ai figli?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì. Il cognome della madre. Certo, l’invasione cinese e l’esilio hanno sconvolto queste usanze, che considero sagge. Ma senza dubbio bisognerebbe riscoprire questa tradizione.”
Le guerre hanno un effetto rapido sui costumi. Ricordo i massacri che la guerra del 1914-1918 provocò in Europa. Un milione e mezzo di uomini morti, nella sola Francia: il che pose molte donne di fronte a responsabilità nuove. Per forza di cose, diventarono imprenditori, dovettero assumersi la responsabilità delle aziende agricole e se ne mostrarono perfettamente capaci. Il XIX secolo, in cui la donna non sembra giocare da noi che un ruolo di necessario ornamento, dalla cortigiana adulata alla domestica o all’operaia schiavizzate, si era concluso sui campi di battaglia. Diventava impossibile ai sistemi occidentali persistere nell’esclusione delle donne. Una seconda guerra mondiale lo confermò. Nel 1944, infine, si accordò alle francesi il diritto di voto.
Sua Santità il Dalai Lama: “Bisogna ritrovare le nostre tradizioni, e introdurvi gli aspetti positivi delle altre tradizioni.”
Jean-Claude Carriere: “In uno stato dell’India meridionale, il Kerala, esiste una tradizione matriarcale. Le donne sono sovente proprietarie e custodi del patrimonio familiare, che si trasmette per linea femminile.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sì, anche in Tibet la donna poteva essere erede.”
Jean-Claude Carriere: “Queste tradizioni sono cambiate con l’esilio?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Non credo. Sicuramente, oggi, vengono imposte in Tibet le leggi cinesi. Ma le tradizioni diventano un modo per resistere. Qui, ve l’ho detto, ci sforziamo di mantenerle, perché sono le nostre armi migliori. A mio parere, non v’è dubbio che in futuro i diritti della donna verranno rigorosamente stabiliti. Dobbiamo anche, in questa occasione, prendere una nuova coscienza di quel che può significare “uguaglianza fra uomini e donne”.”
Jean-Claude Carriere: “Se un controllo delle nascite è indispensabile, come sembra essere, questo passa necessariamente attraverso le donne. Il diritto di donare o no la vita deve spettare a loro.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Lo credo anch’io”.
Jean-Claude Carriere: “L’esistenza di una “mascolinità”, suppongo, o di una “femminilità” deve sembrare impossibile nei confronti della transitorietà?”
Sua Santità il Dalai Lama: “Come ogni esistenza che goda di una condizione stabile. Queste nozioni non hanno alcun senso per noi. Sono semplicemente legate alle condizioni, alle circostanze (cioè all’ambiente culturale, storico), e queste circostanze possono cambiare.”
Jean-Claude Carriere: “Una donna potrebbe essere uno dei prossimi Dalai Lama?”
Sua Santità il Dalai Lama: “In teoria, nulla lo impedisce.”
Ritroviamo qui come altrove, come ad esempio in campo scientifico, questa notevole capacità di adattamento che presenta oggi il buddhismo, e che spiega senz’altro in gran parte le numerose simpatie che desta. Anche in questo caso, ogni atteggiamento dogmatico sembra bandito. L’estrema elasticità e fluidità del pensiero sembra aderire al movimento del mondo, questo movimento che esso afferma e al quale si sottomette. Ciò che colpisce è che questo adattamento incessante, evidentemente accelerato dal secolo stesso e da tutti gli choc che l’hanno scosso, non altera le basi antiche del buddhismo – la transitorietà, l’interdipendenza, la compassione, il necessario risveglio – e, anzi, talvolta li rafforza.
E arriviamo alla reincarnazione. In questo caso, devo confessare al mio ospite di incontrare un forte ostacolo. Dall’inizio dei nostri incontri, abbiamo trovato un certo numero di punti in comune. Ecco un punto di divergenza. In effetti il buddhismo si è costruito e si è mantenuto su un concetto di universalità. Quel che è bene per un uomo è bene per tutti gli uomini. Ora, agli occhi di noi occidentali, abituati da più di un secolo a un approccio etnografico ai comportamenti e alle mentalità (che comprendono le religioni), la reincarnazione appare come una credenza ereditata dall’India e strettamente limitata, oggi, a una sola parte del mondo.
Pitagora, è vero, sosteneva di ricordarsi delle proprie vite precedenti. Platone, facendo, come Empedocle, eco ai misteri orfici, mostra nel X libro della Repubblica guerrieri morti che scelgono i corpi della loro prossima vita. In sintonia con la propria personalità, Aiace sceglie di essere un leone, così come il buffone Tersite sceglie di essere una scimmia. Soltanto Ulisse, l’astuto, sceglie la vita di un uomo pacifico e ignorato da tutti.
Tuttavia è difficile dire che queste credenze, riservate, sembra, a una raffinata minoranza, siano al centro del pensiero greco. In ogni caso, come per i cabalisti ebrei, non sono sopravvissute alla caduta del mondo antico e al trionfo in Occidente del cristianesimo.
In India sono ancora vive. Il buddhismo le ha adottate e sviluppate a proprio uso. Alcune tappe del processo di reincarnazione, come il percorso del bardo dopo quella che chiamiamo la morte, sono spesso limitate al solo Tibet buddhista. L’idea di universalità ci sembra messa in ombra da quello che non si può non definire particolarismo, folklore.
Jean-Claude Carriere: “La reincarnazione non appartiene in alcun modo alle nostre tradizioni religiose, a meno che non si presti fede alla resurrezione finale promessa dai testi antichi del cristianesimo. Ma oltre al fatto che il tema della resurrezione sembra un po’ accantonato dai teologi cristiani contemporanei, questa resurrezione dei corpi non ha nulla a che vedere con la reincarnazione buddhista che ci resta estranea, e molto difficile da accettare. Succede anche che susciti ironia o alzate di spalle.”
Mi ascolta molto attentamente, scrollando la testa.
Jean-Claude Carriere: “La seconda difficoltà, strettamente legata alla prima, dipende da questo esame scrupoloso dei fatti che il buddismo ha sempre rivendicato come proprio metodo. Sakyamuni l’ha detto per primo: “Osservate quest’oggetto che è qui, ora”. Non bisogna mai accettare nulla, si legge nelle vostre scritture, che non sia stabilito, provato e verificato dall’esperienza. Ora, lungi dall’essere verificabile, la reincarnazione ci appare precisamente come una di queste “credenze” che il buddhismo, in altri campi, invita sovente a rifiutare. Noi vediamo qui una contraddizione.”
Scrolla ancora la testa, lasciandomi proseguire:
“Esiste una terza difficoltà, che dipende dalla dottrina stessa del buddhismo. Questa afferma ad ogni occasione – e ne abbiamo lungamente parlato per dire che sembrerebbe del tutto possibile su questo punto un accordo con le conclusioni (provvisorie) dei nostri scienziati – che nulla è stabile, né nella materia né nello spirito, che tutto si dissolve e si ricompone senza sosta, che in particolare il nostro “io”, così orgogliosamente esibito in Occidente, non è che un soffio di vento, un’illusione, una realtà sfuggente, rigorosamente irreperibile. Di conseguenza, se nulla sussiste del nostro io, qual è questo io che si reincarna? Bisogna pure che qualcosa di noi, una qualità che ci è propria, possa sussistere e perpetuarsi. Confesso che questo punto resta per me un enigma. Ho letto quasi tutti i suoi libri, l’ho sentita rispondere a questa domanda, ma molto brevemente, e in un modo che non mi ha mai convinto. Ecco giunto forse il momento di affrontarla”.
Dopo un momento di riflessione, formulo così la mia domanda:
Jean-Claude Carriere: “Che cosa rappresenta oggi, per lei, la reincarnazione? È un’allegoria o un fatto? E quale forza ne trae lei?”.
Attende a lungo prima di rispondermi.
Sua Santità il Dalai Lama: “I buddhisti dicono che la rinascita è una realtà. È un fatto. Nel ciclo noto delle rinascite, che noi chiamiamo il samsara, si produce di tanto in tanto il fenomeno della reincarnazione”.
Impariamo dunque per prima cosa a distinguere. Il ciclo delle rinascite, il samsara, è la condizione di ogni vita. Nessuna esistenza gli sfugge, a meno di giungere al nirvana. Questa condizione è dolorosa, perché ci obbliga a rivivere senza sosta, in situazioni che possono essere peggiori di quelle che abbiamo conosciuto.
Sua Santità il Dalai Lama: “Se la rinascita è un obbligo, la reincarnazione è una scelta. È il potere, dato ad alcuni individui meritevoli, di controllare la loro futura nascita.”
Jean-Claude Carriere: “Come fu il caso del Buddha?”
Sua Santità il Dalai Lama: “E di molti altri. Quando ha raggiunto un certo grado di qualità, che abbiamo chiamato coscienza sottile, il nostro spirito non può morire, nel senso comune del termine. Gli è dato il potere di reincarnarsi in un altro corpo. È, in particolare, il caso dei bodhisattva, l’abbiamo detto. Proprio sulla porta del nirvana, preferiscono rinunciarvi per restare nel samsara, e continuare a venirci in aiuto.”
Jean-Claude Carriere: “Ma come si constata che questo o quell’individuo è la reincarnazione di questo o quell’altro?”
Sua Santità il Dalai Lama: “In effetti è un punto cruciale.”
Devo dire che a Dharamsala, e in altri centri buddhisti, questa credenza è abbondantemente condivisa. Si chiama talku l’individuo che porta, inequivocabilmente, i segni di una reincarnazione. E i talku sono numerosi. In un negozio di souvenir, gestito da un indiano, ho incontrato un fotografo tedesco che sta preparando un libro sui talku. Ne ha già fotografato diverse decine e mi ha mostrato il questionario che chiede loro di compilare. Bisogna indicarvi il proprio cognome, nome, data di nascita, indirizzo, la scuola buddhista alla quale si appartiene. Poi, su un’altra riga, si vede scritto: “Reincarnazione di…?”.
Sua Santità il Dalai Lama: “Innanzitutto incontriamo persone che si ricordano con precisione delle loro vite passate.”
Jean-Claude Carriere: “O che pretendono di ricordarsene. La cosa più curiosa è che nel passato non sono stati né un rospo, né un misero schiavo. In genere, sono già vissuti nel desiderabile corpo di una famosa cortigiana o in quello di un grande sacerdote egiziano.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Sicuramente. Ovunque vi sono mentitori.”
Jean-Claude Carriere: “E d’altra parte, i testi mostrano chiaramente che esistono sei possibili condizioni dell’uomo dopo la morte, che si chiamano i cammini di trasmigrazione.”
Sua Santità il Dalai Lama: “Esatto.”
Queste condizioni sono quelle di dio, di uomo, di asura (che traduce in modo impreciso il termine “demone”), di animale, di un essere assetato e affamato, chiamato in sanscrito preta, infine di un essere infernale, che vaga dagli inferni ghiacciati agli inferni infuocati, dall’inferno di bronzo, all’inferno di letame, all’inferno di spine.
Jean-Claude Carriere: “Ora, di queste sei condizioni, la più difficile da ottenere è proprio la condizione umana. La sola speranza per raggiungere un giorno la buddhità è di rinascere uomo, ma è anche la speranza più rara. A titolo di paragone, ci dice un’antica leggenda, si immagini una tartaruga che viva nel fondo dell’oceano, dal quale la sua testa emerge ogni cento anni, e un anello galleggiante sulla superficie mossa dell’acqua: le possibilità che la testa della tartaruga possa entrare nell’anello sono poche quanto quelle di un essere umano di reincarnarsi in un altro essere umano. Come dunque spiegare il fatto che tutti coloro che ricordano le loro vite passate parlino sempre di situazioni umane favorevoli, e che i tulku proliferino intorno a noi?”
La reincarnazione in un essere umano è in effetti difficile, ma molto meno rara di quanto dica la leggenda indiana. Il fenomeno esiste, ne siamo certi. Proprio qui, a Dharamsala, conosciamo alcune persone che hanno ricordi molto chiari delle loro passate esistenze, e le cui condizioni di vita non avevano allora nulla di straordinario. In particolare, abbiamo conosciuto due bimbette indiane di tre e quattro anni, che raccontavano dettagliatamente episodi di vite anteriori. I loro genitori non potevano credervi, ma quando le abbiamo portate dove sembravano essere già vissute, hanno riconosciuto i posti. ”
Questi esempi di riconoscimento sono citati abbastanza frequentemente. Il Dalai Lama stesso, all’età di tre anni, riconobbe alcuni oggetti appartenuti al suo predecessore, morto qualche anno prima. Come racconta nel suo libro, aveva preso questi oggetti dicendo: “È mio, è mio!”, e ognuno fu convinto che fosse davvero la reincarnazione cercata. Altri segni avevano portato coloro che conducevano le ricerche fino alla casa dei suoi genitori. Quando fu ufficialmente riconosciuto, venne tolto alla famiglia e portato in un convento. Ebbe così inizio la sua formazione di Dalai Lama. Tutto ciò accadeva nel 1938. Alcuni giornalisti superficiali presentano ancora il Dalai Lama come un dio vivente. Per un buddhista, questa espressione non ha senso. L’istituzione del Dalai Lama, autorità spirituale e temporale, risponde in effetti a due esigenze: dev’essere la reincarnazione certa di colui che l’ha preceduto, e di conseguenza di tutti gli altri, risalendo fino al XIV secolo. I tibetani tengono molto a questo concetto di discendenza, di un’altissima energia spirituale che si trasmette da individuo a individuo e che, ogni volta, può rafforzarsi. L’attuale Dalai Lama afferma di avere discusso a lungo in sogno con il proprio predecessore, e di avere tenuto in considerazione i suoi consigli.
D’altra parte il Dalai Lama, per la sua stessa funzione, è considerato una “manifestazione” o una “emanazione ” di Avalokitesvara, il signore del loto bianco, il grande bodhisattva della compassione. Sarebbe così il settantaquattresimo di un’altra discendenza, che risalirebbe a un bambino brahmano vivente nella stessa epoca del Buddha. Oggi, i buddhisti non sembrano più accettare che esista davvero nel cielo un “essere”, una “persona” che si incarni in una forma umana. Vedono piuttosto questa emanazione come una forza particolare che permette al Dalai Lama di concentrare in sé le capacità di compassione che ciascuno di noi possiede.
Quando gli si domanda se è sicuro, oggi, di appartenere realmente a queste due discendenze, il Dalai Lama confessa un leggero imbarazzo. La risposta, dice, non è semplice. Ammette tuttavia che, appoggiandosi alla propria educazione e pratica buddhista, si sente “spiritualmente legato” ai tredici precedenti Dalai Lama, ad Avalokiteshvara e allo stesso Buddha Sakyamuni.
Sua Santità il Dalai Lama: “Si può anche considerare la reincarnazione da un altro punto di vista, riflettendo sull’evoluzione del nostro pianeta, e anche del nostro universo. Oggi siamo qui, vediamo il mondo intorno a noi, sappiamo che si estende per distanze inimmaginabili, ma sappiamo anche – in ogni caso ce lo dicono gli scienziati – che questo mondo non è sempre esistito.”
Da: Il Dalai Lama, La Compassione e la Purezza. Conversazioni Con Jean-Claude Carriere. Traduzione di Laura Deleidi. Fratelli Fabbri Editori Anno: 1995 http://it.scribd.com/doc/157928207/Dalai-Lama-Purezza