Seconda parte degli Insegnamenti di Sua Santità il Dalai Lama a Dharamsala il 19 marzo 2011 per le celebrazioni del Monlam, il nuovo anno tibetano, sul tema: “I racconti di Jataka”, la vita del Buddha.
Appunti, traduzione dall’inglese ed editing del Dott. Luciano Villa, dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Consigliamo vivamente di ascoltare, visionare e scaricare il filmato in inglese di questo insegnamento liberamente disponibile qui http://dalailama.com/webcasts/post/176-jataka-tales .
Sua Santità il Dalai Lama Nel buddhismo crediamo che il nostro benessere o malessere attuale è null’altro che il risultato di cause e condizioni. Se ponete le basi per una causa positiva, vi scaturirà felicità. Viceversa , se seminerete delle cause negative, che danneggiano gli altri esseri, vi deriveranno esperienze e risultati negativi. Vi sarà capitato che, se affrontate qualcuno con acrimonia, prima verbalmente, quindi fisicamente, quando lo scontro sarà terminato, anche voi, ammesso che ne siate il vincitore, proverete della vergogna, non ve ne sentirete certo soddisfatti. Se ad esempio vi siete arrabbiati col vostro vicino, quando gli passerete davanti a casa l’indomani, proverete certo una qual ritrosia, senso d’imbarazzo. Se invece manterrete schiettamente l’amicizia e la fiducia in quella persona, allora sarete contento. Persino già d’ora potete rendervi conto che se aggredite gli altri, se, peggio, fate loro del male, sarete insoddisfatti. Viceversa, se sarete stato onesto e sincero con gli altri, sopratutto aiutandoli, non dovrete affatto sentirvi imbarazzati o vergognarvi. Coloro che trattano male gli altri perché hanno paura di perdere il potere, saranno ricambiati con la stessa moneta. Mentre coloro che avendo cariche e prestigio sono gentili con gli altri, saranno ricompensati con maggior stima e benevolenza. Ovviamente il nostro obiettivo è una società armoniosa, ma non deve fondarsi sulla paura, ma dalla fiducia, dall’adesione e dal crederci in quegli ideali. Di conseguenza, la compassione e l’altruismo sono il motore della felicità, col risultato collaterale di migliorare la salute, prevenendo infezioni e malattie. Questa è la causa maggiore del benessere mentale e fisico. Il che è ribadito e confermato dagli studi scientifici che dimostrano che chi è più in preda alla rabbia o all’invidia risulta maggiormente suscettibile alle malattie. Viceversa, se mantiene un atteggiamento calmo e compassionevole ne ricava una ricaduta positiva sul proprio sistema immunitario. Non sto parlando di benefici per la prossima vita, ma per questa stessa. Se manterrete un certo benessere mentale, allora sarete ricambiati anche sul piano fisico, sarete contenti e starete meglio anche fisicamente: avrete più amici. Quindi, l’armonia della società sopraggiungerà grazie a queste cause. La proibizione di nuocere agli altri deriva dalla consapevolezza della natura interdipendente delle cose. Nessuno desidera soffrire, tuttavia ci facciamo del male da soli. Non lo facciamo intenzionalmente, ma lo facciamo. Perciò dobbiamo astenerci almeno dal fare intenzionalmente del male. Viceversa, ricordiamoci quanto scriveva Shantideva nel Bodhisattvacharyavatara: chi vuole sfuggire la sofferenza, comportandosi in modo non virtuoso, non fa altro che rincorrerla, chi desidera la felicità non fa altro che imboccare la strada opposta aggredendo il proprio nemico. Se ad esempio guardate alle notizie che sconvolgono il mondo, come il recente terremoto e tsunami in Giappone, ovviamente si tratta di disastri naturali. Ma esistono disastri procurati dall’uomo: le sofferenze provocate dalle disuguaglianze sociali, dalla disonestà dei governi. Queste, e tante altre sofferenze sono date dalla mano dell’uomo, dall’ignoranza, dal fatto di non voler riconoscere le vere cause della sofferenza nell’ignoranza. Quindi, quando parliamo di piacere e sofferenza, non dobbiamo pensare di risolverli con l’intervento delle parole del Buddha, ma, grazie al fatto di essere inseriti in una società, di renderci conto che siamo degli esseri che hanno bisogno di stare in comunità, grazie al fatto di renderci conto che le nostre sensazioni di gioia e dolore dipendono dagli altri.
Anche lo sviluppo economico dipende dagli altri. Perciò, se partite dal punto di vista dell’interdipendenza, esprimete una visione globale, olistica, ed in questo modo potrete anche migliorare la vostra posizione economica, mentre se vi mancherà questo punto di partenza ampio e complessivo, dato appunto dalla concezione dell’interdipendenza, allora siete precipitati nel baratro dell’egoismo.
Poiché in molti casi intravediamo solo una dimensione delle cose, se facciamo affidamento solo a questa, potrà riservarci molti problemi. Se invece osservate le cose da diverse angolature, raggiungerete una visione olistica e le cose vi sembreranno diverse e vi si proporranno soluzioni migliori. La comprensione dell’interdipendenza è essenziale, e per arrivarci occorre studiarci e meditarci sopra. Perché, se ci riuscirete, andrete incontro a grandi benefici.
Ci sono state inondazioni in molte zone della Russia, siccità in molte zone della Cina, il disastroso tsunami in Giappone col conseguente grave incidente al reattore nucleare di Fukushima che ha messo in pericolo molte persone: perciò dobbiamo pregare per tutti coloro che soffrono a causa di ciò.
Dobbiamo pregare per tutti coloro che soffrono, come pure per noi tibetani che andiamo incontro a tempi difficili. In Tibet sono state uccise delle persone e, recentemente, un monaco dell’Amdo s’è dato fuoco, immolandosi. Perciò dobbiamo pregare per tutti costoro.
Poiché in questo mese dei miracoli commemoriamo le imprese illuminate del Buddha, per tradizione leggo le storie di Jataka.
Desidero aprire una parentesi sulla nostra condizione. Noi tibetani siamo diventati degli esuli nel corso degli ultimi 50 anni. Ovviamente in tutto questo periodo ci sono stati dei progressi economici sul Tetto del Mondo, ma questi progressi, come diceva il defunto Panchen Lama, non possono cancellare le enormi sofferenze patite dal popolo tibetano a causa dell’occupazione cinese. Ora i Tibetani vivono nella sofferenza della paura e del sospetto, ma non solo i Tibetani: anche gli stessi cinesi sono soggetti a queste vessazioni. Me l’anno confermato degli amici taiwanesi che mi hanno riferito che dopo aver soggiornato per alcuni mesi a Taiwan, quei cinesi dicevano loro di sentirsi in un paese completamente diverso, perché in Cina vivevano nella paura e nel sospetto. Specialmente i Tibetani sentono su di sé il peso della loro straordinaria cultura e, sotto la repressione cinese, questa fondamentale cultura viene annientata. Ora molte persone nel mondo sono consapevoli della situazione del Tibet e molti scienziati si sono interessati al buddhismo tibetano. In passato l’occidente ha catalogato il buddhismo tibetano come Lamaismo, in quanto la vita monastica, la disciplina del Vinaya, rappresenta la base del Buddhismo. Così molti hanno preso i voti monastici, ma altri si sono autodefiniti dei maestri pur abusando in alcolici e sesso ed esteriormente osservavano rappresentazioni con maschere, spesso anche dall’aspetto terrificante. Perciò, per questi aspetti esteriori, il Buddhismo tibetano è stato chiamato Lamaismo, come se non fosse vero Buddhismo. Un monaco birmano, che incontrai in una conferenza mondiale sul buddhismo in Australia, mi disse: “ovviamente seguiamo lo stesso maestro, lo stesso percorso, ma tra di noi ci sono molte differenze, come le pratiche tantriche o i rituali delle danze Cham con le maschere.
La Birmania, per quanto riguarda il Buddhismo, ha una grande tradizione sulla consapevolezza, sulla meditazione Vipassana e Shamata. Naturalmente, tutte queste pratiche tantriche, se effettuate appropriatamente, portano a dei risultati. Ovviamente necessitano d’una concentrazione univoca, capace di far riconoscere ed eliminare le negatività. Ma non sto parlando dei rituali del fuoco che gli astanti apprezzano come molto efficaci perché dall’olio bollente s’è sprigionata una fiamma ed un improvviso scoppiettare causato dall’avervi gettato sopra dell’alcol. Inoltre, in passato, al termine dell’anno tibetano, i monaci del Namgyal erano soliti realizzare questi stessi rituali. Quando dalle fiamme si sprigionava un denso fumo, i nomadi tibetani, vestiti di pelli d’animali, erano soliti dondolarvisi dentro, nel mentre i loro abiti e corpi venivano impregnati dai vapori d’olio bollente e dalle fiamme che improvvisamente sprigionavano. In molti casi, quando venivano eseguiti questi rituali, la gente non mostrava affatto una forte concentrazione. In passato, infatti, al monastero del Namgyal veniva riconosciuto sì il merito di possedere un buon livello di pratiche rituali, ma anche il demerito di non esprimere un altrettanto livello elevato di studio del Dharma. Per questa ragione, una volta in esilio ho stabilito un rigoroso piano di studi da realizzarsi nel monastero del Namgyal come pure nei collegi tantrici inferiori. Così è successo al Monastero di Gyume dove ho stabilito un preciso percorso di studi buddhisti. La stessa cosa ho fatto con le monache, incoraggiandole a studiare il buddhismo in un programma preciso. Così ora abbiamo monache talmente qualificate da essere sul punto di diventare dei Geshe. Dopo che ci siamo rifugiati in India, ho auspicato che le monache che non avevano fatto appropriati studi buddhisti in Tibet, lo facessero in India, dando quindi meno importanza ai rituali rispetto allo studio. Ho anche stimolato i Ghesce, i monaci più istruiti, a non limitare la propria conoscenza alla nostra tradizione, ma ad estenderla. Ad esempio, nel caso del dibattito sulla dialettica, siamo stati capaci d’applicare ad altre discipline la logica che pervade lo studio del Dharma. Perciò non dobbiamo accontentarci dei progressi fino ad ora conseguiti. Ad esempio, in passato, effettivamente eravamo carenti per l’aspetto tecnologico, certamente siamo del parere che quel divario andava colmato. Insomma, i cambiamenti sono necessari sia per ampliare la nostra visione del mondo, sia per migliorare la nostra situazione contingente. Il che si adatta pure alla situazione instauratasi in Cina. Se le autorità cinesi vogliono avere un’influenza a livello mondiale, devono percorrere la via del cambiamento. Il mondo cambia, ma loro vogliono rimanere uguali a prima. Dal momento in cui siamo diventati dei profughi abbiamo dato il via ad una serie d’innovazioni, si tratta di cambiamenti che hanno coinvolto i nostri studi del Dharma. Ma non dovremmo ritenercene soddisfatti. Dobbiamo avanzare sulla strada dei cambiamenti improntati al progresso.
Il Buddhismo è una delle più importanti religioni del mondo, al cui interno troviamo la tradizione Pali e Sanscrita. Studiamo la logica e l’epistemologia grazie al grande maestro Shantarakshita che fu un grande filosofo ed un gran esperto di logica, ma anche al grande maestro Kamalashila che portò il Buddhismo in Tibet. Ne consegue che dobbiamo studiare le antiche scuole filosofiche del Buddhismo, ma anche le tradizioni non Buddhiste. Il che non è compito esclusivamente riservato ad una certa tradizione Buddhista, ad esempio: cinese o giapponese. Ma spetta a tutti i praticanti. Anche dalla Mongolia sono venuti dei grandi maestri. Quand’ero adolescente studiai su molti commentari di maestri della Mongolia, come ad esempio Palden Cece. Tuttavia in Mongolia non sono in grado di fare nella loro lingua i dibattiti improntati sulla logica ma è una prerogativa del corso di studi nei monasteri tibetani, il che ci permette d’approfondire a dovere la conoscenza del buddhismo attraverso il rigore della logica. Noi siamo i detentori degli insegnamenti completi del Buddha che approfondiamo attraverso la logica e l’epistemologia. Attraverso la lingua tibetana rendiamo così un gran servizio alla conservazione e promozione del buddhismo. Per secoli il sanscrito è entrato nell’oblio, ma la lingua tibetana deve molto al sanscrito e ne è in un certo senso continuatrice di quella tradizione. Perciò dobbiamo essere consapevoli della preziosità della nostra lingua. Perciò, praticare il Buddhismo non significa tanto impegnarsi in elaborati rituali, ma dedicarsi seriamente al suo studio. Incontrando dei monaci birmani, questi mi ricordarono le differenze esistenti tra il loro ed il nostro buddhismo. Ancora recentemente, in un ulteriore incontro con dei monaci birmani, mi dissero: “voi avete il tantra, ed i vostri monaci, proprio perché fanno pratiche del tantra, si possono sposare”. Questo, come è noto, è completamente falso, basta informarsi un poco per evitare di dire simili inesattezza. L’attendente del precedente Karmapa lasciò i voti monastici, si fece crescere i capelli, portava vistosi orecchini. Mi disse che fare il monaco non era facile, perchè non si trattava tanto di radersi i capelli, quanto d’astenersi dalla vita sessuale. Recentemente, vedendo un monaco dai capelli lunghi, gli chiesi se fosse davvero un monaco. Al che mi rispose di sì. “Se sei un monaco dovresti tagliarti i capelli”, così lo ammonii, aggiungendo: “Se sei un praticante tantrico, ma non sei un monaco, devi vestire l’abito bianco adatto. Alcuni lama dicono che, pur essendo dei monaci, hanno una consorte segreta e che hanno delle mogli. Ovviamente, se avete conseguito un certo livello di realizzazione spirituale, in cui siete capaci di controllare l’azione del seme bianco e d’usare la vostra mente di chiara luce in meditazione, si tratta d’una condizione molto speciale, che tuttavia è prerogativa di pochissime persone.
Allora, dei monaci birmani hanno detto che i monaci tibetani possono sposarsi: com’è possibile? È completamente falso! Ma proprio per i fraintendimenti che vi ho appena accennato, è possibile che si diffondano queste dicerie assurde.
A proposito del nostro Paese, vi voglio raccontare un episodio della mia infanzia. Fino alla mia maggiore età, l’amministrazione dello stato era gestita da un Reggente. Ricordo che ebbi modo d’assistere ad un importante processo che vedeva protagonisti un membro dell’importante famiglia aristocratica dei Pala ed un altro cittadino. L’assise si svolgeva in uno dei saloni del Potala, dove era invalsa l’abitudine d’ascoltare furtivamente le conversazioni anche dalle fessure dei muri. Mi trovavo in una specie di loggione da cui si dominava la sala, ero in un punto da cui non ero né potevo essere visto. Così notai, che, mentre l’avvocato difensore esponeva le ragioni del suoi assistito, il Reggente, che era allora Taktra Rinpoche, non ascoltava affatto e gli inveiva contro. Il che denota mancanza di senso di giustizia.
Mi resi infatti conto, pur essendo minorenne, che non c’era onestà in quel tipo di processi: era veramente negativo. Così, maturai già allora la convinzione che non fosse una buona soluzione quella di conferire ad una sola persona la suprema autorità politica e spirituale del Paese. Da quando mi furono attribuiti i poteri, diedi vita ad un comitato di riforme. Proprio perché il precedente sistema risultava fuorviante, istituii l’Ufficio Istanze. Se ad esempio l’avvocato difensore dava una tangente al giudice, questi doveva innanzitutto restituirla al mittente, quindi convocare l’inquisito informandolo della cosa e del fatto che proprio perché il compito del giudice era quello di perseguire la verità, non gli interessi privati di qualcuno, egli rinunciava al suo ruolo di giudice in quella situazione. Il che rendeva chiaro che il giudice dovesse dimostrarsi onesto ed imparziale. Fu questa una delle innovazioni che introdussi in quel periodo: il Comitato delle Riforme. Una volta quindi in esilio, già negli anni ’60 iniziai a dar vita ad una forma di governo democratico per i tibetani in esilio. Perciò, ancor oggi i tibetani affermano che “la nostra democrazia è un dono di Sua Santità”. Così, negli ultimi 10 anni abbiamo eletto la nostra dirigenza politica, il Primo Ministro Kalon Tripa viene eletto dai tibetani, senza alcuna interferenza da parte mia. Ma c’era sempre una persona, il Dalai Lama, che deteneva i pieni poteri politici e spirituali. Ora, proprio per formare una vera democrazia, sganciata da influenze religiose, dobbiamo seguire le tendenze del mondo libero, come ad esempio dell’India, che si trova a dover gestire molti problemi, tante popolazioni con lingue diverse, un numero enorme di persone, stati al suo interno molto diversi tra loro, ma tuttora l’India è una democrazia molto stabile, un paese saldo e stabile. Al contrario, in Cina il governo è costretto a spese altissime per la sicurezza. Il costo di mantenimento dell’apparato di sicurezza interno è addirittura maggiore del bilancio della difesa. Il Partito Comunista dovrebbe aspirare al benessere della popolazione, il che è positivo quando l’autorità politica si basa sulla scelta e la fiducia dell’elettorato ma non lo è affatto quando deve mantenere il potere sulla minaccia delle armi.
Perciò, penso che non sia affatto positivo che, nel mio caso di Dalai Lama, debba mantenere il potere spirituale e temporale. Infatti, i primi quattro Dalai Lama non ebbero alcuna responsabilità temporale. Questa tradizione iniziò col quinto Dalai Lama.
Ora ci troviamo nel 21° secolo ed è questo il momento in cui dar luogo al cambiamento. Sarà un cambiamento graduale, ma se si fosse dovuto realizzare sotto la pressione dei cittadini, penso che sarebbe stato un fatto molto deplorevole per il Dalai Lama stesso. Dal momento che il Quinto Dalai Lama Nawang Lobsang Gyatzo si prese questa responsabilità spirituale e temporale del popolo tibetano, ora sono il 14° Dalai Lama, ci sono dei leader politici eletti dai cittadini che sono in grado d’assumersi la responsabilità politica del governo tibetano ed è bene che lo facciano. Altrimenti, se alla mia morte le cose rimanessero inalterate, lascerei una situazione incompiuta.
I tibetani in Tibet hanno fiducia in me, uguale fiducia riscuoto dai tibetani in esilio e da molte persone nel mondo e perciò rinuncio al potere temporale per ritornale alla stessa situazione dei primi quattro Dalai Lama, in cui egli veniva riconosciuto come il maestro ecumenico dei Berretti Gialli.
Ritengo perciò la scelta migliore riservarmi il solo ruolo d’autorità religiosa, per cui potrei dare maggiori contributi per la promozione dei valori umani e dell’armonia religiosa, campi nei quali ho già dato il mio impegno, che mi garantito tanti inviti da parte di molti ambiti: università, scuole e via dicendo. Costoro non mi chiedono tanto di venire ad insegnare loro il buddhismo, ma come sviluppare questi valori umani improntati alla tolleranza, alla compassione e così via. Moltissime persone sono felici di venire ad ascoltarmi, perciò, lasciando il ruolo politico di Dalai Lama, potrò offrire ancor più contributi. Come giunge in modo gioioso la conclusione delle funzioni religiose, così poniamo termine in modo gioioso a questo periodo di potere temporale del Dalai Lama sul proprio popolo. Nessun altro lo può fare, ma io che detengo la funzione di leader politico del mio paese lo posso fare. Mi è stato riferito che i tibetani in Tibet erano un po’ preoccupati quando hanno sentito che intendevo rinunciare al mio ruolo di leader politico del Tibet, senza che ci fosse una chiara successione. Ma non hanno motivo di preoccuparsene.
Il Secondo Dalai Lama Gendun Gyatzo non deteneva alcuna autorità politica. Se rimarrò come leader spirituale forse non sarò biasimato dalla mia gente. Così, se i miei concittadini saranno d’accordo, potrò tornare ad essere unicamente il loro leader spirituale. Perciò, diamo luogo ad un sistema di governo pienamente democratico, e tutti se ne possono render conto.
D’altro canto, il governo cinese afferma che non esiste una questione tibetana, ma che il problema è unicamente il Dalai Lama, ma con questa mia scelta anche quest’affermazione cade, mostrando tutti il suo lato menzognero agli occhi di tutto il mondo.
Se lascio il potere politico, non dovete cadere nello sconforto, lo faccio per un beneficiare in un lungo periodo la causa tibetana, il mio Paese e la comunità in esilio. Proprio perché siamo diventati una società inserita nel mondo attuale, lo dovreste capire: non rinuncio affatto alla causa tibetana, non sono affatto demoralizzato. Chi vi dice l’opposto, vi comunica il falso. Sono dedito alla causa tibetana, sono un tibetano, e come tutti i tibetani sento la responsabilità del problema del Tetto del Mondo. Sono un tibetano dell’Amdo e fintantoché vivrò avrò la responsabilità della causa tibetana. Fintantoché sarò in salute mi sobbarcherò il fardello della causa tibetana e per chiunque di voi che ne avesse necessità io sarò qui ad accoglierlo. Da parte mia ho fatto questa scelta di democrazia ed invito tutti voi a prendervi piena responsabilità di questo pieno processo di gestione democratica dell’Amministrazione Tibetana. Perciò tutti quanti voi dovreste farvene carico e, di contro, non preoccuparvene.
Ho appena incontrato un cinese che venne qui una decina circa d’anni fa ed ora era molto compiaciuto nel vedere quanto i tibetani fossero attivamente impegnati nelle votazioni e quanti progressi avesse fatto il sistema democratico nella società tibetana. Anche da questo è dipesa la mia decisione di devolvere il mio potere: dai progressi in campo democratico realizzati dalla società tibetana in esilio. Tutti voi che venite dal Tibet lo potete spiegare ai vostri concittadini. Naturalmente verrà illustrato per radio e dai mezzi d’informazione. Si tratta non d’una decisione improvvisa, ma maturata nel corso di molti anni, almeno da più d’un decennio. D’altra parte, il Ganden Podrang è un’istituzione del Dalai Lama e, fintantoché vivrò, avrò bisogno d’un istituzione. Il Ganden Podrang rimarrà, ma privo di responsabilità politiche.
Per quanto riguarda i prossimi Dalai Lama, il 15°, 16°, 17° e così via, saranno individuati se i tibetani ma anche le popolazioni himalayane buddhiste vorranno che questa tradizione dei Dalai Lama continui. Il Ganden Podrang così rimarrà, ma cambierà la sua definizione, il che nel lungo periodo sarà di gran beneficio per i tibetani. Dalla nostra costituzione sarà tolta la dizione che il Ganden Podrang è il Governo del Tibet, specificando invece che il Ganden Podrang è l’istituzione del Dalai Lama.
Un giornalista indiano a Nuova Delhi s’è rivolto all’attuale Kalon Tripa Samdhong Rinpoche come il capo del Governo tibetano in esilio, ma ho chiarito al giornalista che noi non usiamo questi termini di Primo Ministro o di Governo tibetano in esilio, ma chiamiamo la nostra amministrazione come la Central Tibet Administration. Poiché noi esuli tibetani abbiamo bisogno di darci una forma organizzativa, non l’abbiamo chiamata Governo tibetano in esilio ma Amministrazione Centrale Tibetana. Perciò ho chiesto di chiamare la nostra organizzazione in esilio come la Central Tibet Administration e non Ganden Podrang. Perciò avremo dei leader eletti, inoltre sarebbe molto proficuo se questo sistema democratico fosse esteso direttamente anche in Tibet e nella stessa Cina.