Insegnamenti di Sua Santità il Dalai Lama a Tolosa, Francia, il mattino del 14 agosto 2011 (sesta parte – secondo giorno) su “Gli stadi intermedi di meditazione” di Acharya Kamalashila liberamente disponibile qui https://www.sangye.it/altro/?p=1698. Traduzione dal tibetano in italiano di Fabrizio Pallotti. Appunti ed editing del Dott. Luciano Villa, dell’Ing. Alessandro Tenzin Villa e di Graziella Romania nell’ambito del Progetto “Free Dalai Lama’s Teachings” per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.
Sua Santità il Dalai Lama
È la prima volta che ascolto il sutra del cuore così ben cantato, e per giunta in una lingua occidentale: il francese. In India, ovviamente dopo la morte del Buddha, il Sangha, i monaci e i monasteri sono i detentori del Buddha Dharma, impegnati in un elevato lavoro intellettuale,nella ricerca della realtà a tutti i livelli, nell’apertura verso nuove conoscenze e nello studio e trasformazione delle emozioni. Così le pratiche collettive erano e sono indirizzate alla visione vasta e generale del Buddha Dharma, secondo la tradizione autentica basata sui Tripitaka, i tre Canestri, il Kangyur e Tengyur, testi fondamentali per conseguire la chiarezza del Dharma, testi che ora vengono tradotti in inglese. Così le istituzioni monastiche sono molto importanti: iniziarono 2000 anni fa a Taxila nell’odierno Pakistan, poi a Nalanda in India, che divenne il centro di elaborazione e di studio della filosofia buddista, quindi, più tardi Vikramascila. A Nalanda studiarono e insegnarono grandi maestri come il monaco pienamente ordinato ed esperto nella logica Shantarakscita (che si incaricò di realizzare la traduzione dei testi dal sanscrito in tibetano), poi Kamalascila quindi Padmasambhava,un grande maestro capace di eliminare gli ostacoli alla diffusione del buddismo in Tibet. Quindi Bikramascila, anch’egli un grande studioso ed uno yogi,anch’egli venne in Tibet e formò un gruppo di giovani e brillanti monaci che formò nella visione profonda pramana della logica. L’abate del tempio di Bodyghaya Sangye Yesce, anch’egli proveniente da Nalanda, era d’accordo nel ritenere che la tradizione tibetana derivi da Shantarascita, Padmasambala, Naropa e Marpa: tutti provenienti da Nalanda. Inoltre, la scuola Cittamatra citata nei testi di Kamalascila proviene anch’essa da Nalanda, da cui provenivano altri grandissimi maestri come Nagarjna ed Asanga. Testi come la Preziosa Ghirlanda di Nagarjuna (liberamente disponibile a https://www.sangye.it/altro/?p=2788 ) erano già allora considerati come il fulcro della Madiamika, e si ritiene che la loro comprensione porti a rinascite fortunate. Come pure per i 400 Versi di Aryadeva il cui compito è di conferire una pacificazione di base a corpo, parola e mente soggiogati dalle emozioni affliggenti. Tramite la saggezza che realizza il non sé pacifichiamo la mente che è afflitta dalle emozioni disturbanti, maturando il non sé della persona, il non sé autosufficiente, sostanzialmente esistente. E su questa base realizziamo il non sé dei fenomeni.
Questa è la via dell’illuminazione. Per eliminare le emozioni disturbanti e la loro radice. Per la Madiamika non esiste una differenza sostanziale tra la mancanza del sé della persona e la mancanza del sé dei fenomeni: si tratta solo di sottili distinzioni.
Credo che in questo momento storico sia giunta l’ora di tornare alle radici della tradizione di Nalanda e sono del parere che si debbano rendere disponibili i testi, almeno quelli principali, dei grandi maestri di Nalanda. Le caratteristiche generali degli insegnamenti si applicano a varie attitudini, mentre, dovendoci indirizzare verso un certo praticante, ne dovremo tenere in considerazione le caratteristiche individuali.
Uno studioso USA che traduceva in inglese il Tengyur e Kangyur mi disse che la maggior parte dei testi che lo compongono sono sia cinesi che tibetani, mentre quelli del Tengyur sono tradotti dal sanscrito. I testi di Darmakirti erano già tradotti in cinese quando giunsero in Tibet ed altri, per cognizione logica lo erano già.
Shantarakshita e Kamalashila, per la loro cognizione valida, sono i leoni della Madyamika, sono loro che introdussero in Tibet la tradizione immacolata di Nalanda, portando con loro testi tradotti principalmente dal sanscrito ed alcuni in cinese. Sono testi vasti e profondi che contengono ragionamenti dotati di una notevole forza dialettica e che portano ad un’elevata accumulazione di meriti. È proprio in Tibet che si svilupparono i corpi principali degli insegnamenti, in particolare modo quelli Buddhisti non settari, volti ad eliminare i difetti di corpo – parole – mente ed a placare l’attaccamento, a sviluppare le Sei Perfezioni (generosità, moralità, pazienza, sforzo entusiastico, concentrazione e saggezza) e Bodhicitta, calma dimorante shinè che vanificano le visioni ostruenti l’onniscienza. Altrimenti, saremmo come ciechi. L’obiettivo finale è quello del conseguimento dello stato del Bodhisattva. Perciò è importante approfondire la nostra conoscenza, sviluppandola progressivamente quanto espresso negli insegnamenti, approfondendo la nostra capacità di comprensione della vacuità e di annullare l’auto-attaccamento.
Shantarakshita nella suo Madiamykalamkara: “Colui che pratica le sei perfezioni sulla base d’una profonda intelligenza, sulla base del significato ultimo della realtà, consegue la natura che possiede le due qualificazioni”. Tutti noi deteniamo, almeno in potenza, la conoscenza di questa realtà, conseguibile con la liberazione, così generiamo la grande compassione, a partire dalla consapevolezza che tutti gli esseri senzienti sono pervasi dalla sofferenza nelle sue infinite diversificazioni. Qual’è la giusta progressione in tal senso? Innanzitutto, per il praticante più intellettualmente dotato: la comprensione della Prima Nobile Verità, intesa soprattutto come sofferenza omnipervasiva, quindi della Bodhicitta, e, sulla base dei Voti del Bodhisattva, la comprensione della realtà ultima. Mentre, il praticante intellettualmente non molto acuto si baserà sulla sola fede. La peculiarità del Buddismo sta nella comprensione dell’origine interdipendente, per cui l’effetto ha una causa e viceversa: da questo presupposto nasce la necessità di riconoscere la mancanza d’un sé inerentemente esistente e della necessità d’intraprendere il cammino della liberazione.