Cattivi presagi: e se questo Dalai Lama fosse l’ultimo?
di Raimondo Bultrini, 29 febbraio 2016, La Repubblica, Il Venerdì
Una copertina del “New York Times” con i suoi abiti funereamente svuotati. Dichiarazioni del fratello, e anche sue, che fanno pensare a un addio della tradizione secolare. Alla fine avrà vinto la Cina?
BANGKOK. La domanda circola di web in web come un mantra himalayano tra i fedeli e i simpatizzanti del Tibet disseminati ormai nel mondo virtuale più che nelle valli degli altipiani. Ci sarà un prossimo Dalai Lama? E, eventualmente, dove vivrà, sotto quali spoglie tornerà sul Pianeta il prossimo erede di questa antica stirpe di 14 reincarnati che per la prima volta nella storia troverà al suo posto un «concorrente» eletto politicamente dalla Cina? L’attualità è che nei giorni scorsi l’ottantenne Sua Santità Tenzin Gyatso è partito quasi d’improvviso dalla residenza indiana di Dharamsala per volare in America a operarsi di prostata. Subito la preoccupazione è tornata a montare, smorzata dalle assicurazioni che non c’è da allarmarsi. Tra le persone del seguito autorizzate a prendersi cura di lui, c’è una mia vecchia conoscenza, il più giovane dei fratelli del Dalai lama, Ngari Rimpoche. A sua volta un reincarnato, o tulku, l’ex lama da tempo ha rifiutato il titolo e ha ripreso il suo nome di Tenzin Choegyal per sposarsi e fare figli che gli hanno dato dei nipoti, mentre lui sovrintende alla gestione di una guest house, scrive e insegna occasionalmente cultura tibetana.
Choegyal è un uomo dalla franchezza adamantina, i cui modi schietti e diretti talvolta gettano scompiglio nella cerchia di attendenti e funzionari dell’Ufficio privato del XIV Dalai Lama sia a Dharamsala che all’estero. Tutti sanno infatti che ha un posto particolare nel cuore del fratello maggiore, e una volta mi confidò che, secondo certe profezie, gli è capitato e capiterà ancora di trovarsi vicino a Sua Santità, anche se nega di avere certezze assolute su queste sequenze di vite che nel buddhismo si interrompono solo con l’illuminazione finale.
È un fatto che, come suo fratello e la quasi totalità dei tibetani, abbia bevuto il buddhismo dal latte della madre. In particolare la genitrice in questione, Diki Tsering, ha partorito nove bambini morti prematuri e sette figli vivi, dei quali ben tre, incluso Ngari Rimpoche, sono stati riconosciuti come reincarnazioni di importanti capi di monasteri e yogi dagli speciali poteri. Si dice che questi tulkupossiedano una mente talmente allenata dalla meditazione a restare vigile e presente che non li spaventa nemmeno il momento in cui questa si stacca dal corpo per entrare nel lungo e inquietante periodo del bardo, la fase tra morte e rinascita durante la quale si prepara la prossima forma di vita.
Nessun tibetano considera il tipo di rinascita come un semplice caso. Lo vede invece come il frutto di azioni e attitudini passate, visto che ognuno è artefice del proprio destino o karma individuale. «Vuoi sapere chi eri» diceva il Buddha «guarda chi sei adesso, vuoi sapere chi sarai, guarda ciò che fai adesso».
Quinto nato della fortunata mamma, Lhamo Dondup venne portato via 76 anni fa dal minuscolo villaggio dell’Amdo per essere messo sul trono centrale dell’immenso Potala di Lhasa, dove hanno vissuto gran parte dei Dalai Lama. A quel tempo Pechino aveva già probabilmente intenzione di controllare in un modo o nell’altro la reincarnazione del XIII, che all’inizio del 1900 aveva osato dichiarare per iscritto l’indipendenza del Tibet e cacciato i rappresentanti cinesi da Lhasa. Quando inizia l’avventura moderna del XIV di questa serie, diventato un Nobel della Pace nonché l’esule più famoso del mondo, il giovane Tenzin Choegyal non era ancora nato (ha 67 anni, 13 meno del fratello). Ma oggi nessuno ha dubbi che sia lui la persona al mondo più vicina all’uomo spinto dal destino a guidare un popolo dall’esilio (indiano) senza che la sua gente possa nemmeno tenere una sua foto in casa, perché rischia l’arresto o peggio. E nella Corte del Dalai non è mai sfuggita l’influenza reciproca. Se il giovane è discepolo del Dalai durante le funzioni religiose, il leader spirituale dei tibetani ammira e per certi versi segue le idee «rivoluzionarie» del fratello. Anche perché cresce l’ipotesi che questo sia l’ultimo Dalai Lama. Fotografata dalla copertina del New York Times Magazine: i suoi paramenti ritratti senza un corpo dentro, con effetto quasi macabro.
L’immagine ha mandato su tutte le furie uno dei paladini del buddhismo tibetano in Occidente, il professor Robert Thurman, decano della Columbia e primo monaco occidentale ad essere stato ordinato personalmente da Sua Santità molti anni fa, prima di smonacarsi e dare al mondo la celebre Uma. «Il settimanale fa di tutto» ci dice «per cercare di rendere l’intera causa tibetana senza speranza, una causa persa, e incolpare la vittima per la sconfitta». Del resto lo dice lo stesso fratello minore, parlando confidenzialmente con il giornalista indiano Pankaj Mishra: «Saremo tutti finiti quando Sua Santità non ci sarà più». Thurman, che conosce bene la schiettezza di pensiero di Tenzin Choegyal e la apprezza, pure non condivide una visione che, secondo lui, «cade nel punto di vista sbagliato cinese, secondo il quale basta aspettare la dipartita dell’attuale XIV per far scomparire improvvisamente il problema tibetano. Ma questo non succederà mai».
A cavallo tra l’anno della pecora di legno e il nuovo anno della Scimmia di fuoco inaugurato il 9 febbraio, le certezze degli ottimisti e dei pessimisti dividono le due anime pro-tibetane di esuli e occidentali, osservatori attenti di questa sfida dai toni frequentemente surreali. L’attuale Dalai Lama va ripetendo da tempo di non voler più rinascere sugli altipiani occupati da Pechino, ma di non avere intenzione di abbandonare la sua gente né ora né in futuro. Della forma che assumerà, sappiamo soltanto che, tra il serio e il faceto, Tenzin Gyatso ha detto di non escludere un corpo femminile, «particolarmente attraente». Di più non è dato sapere.
Forse il Dalai – di certo non restio a scherzare anche su se stesso – si è ispirato alla figura della leader buddhista birmana Aung San Suu Kyi, sua collega Nobel della Pace, che in questi giorni sta mettendo piede nelle stanze del potere. Ma è un fatto che non esistono casi precedenti di un Dalai Lama nato in esilio, e visto che le speranze di un suo rientro in questa vita sono pressoché zero, lui cerca di trasferire del tutto fuori dal Tibet – e fuori da ogni logica politica – la prossima partita a scacchi con i suoi nemici. Dice uno dei suoi insegnamenti trasmessi dal maestro Shantideva mille anni fa: «Possa io essere il medico e la medicina (…) il cibo e la bevanda (…) un ponte, una barca, una nave per chi vuole attraversare l’acqua…».
In Occidente e in particolare in certi Paesi dell’Europa e del Nord America, il leader tibetano ha amici fedeli, come George W. Bush – non suona strano? – che per riceverlo hanno sfidato grosse corporazioni contrarie ai rischi di ritorsioni della Cina. Ma molte delle voci critiche negli anni si sono affievolite, con l’aumento delle minacce di ritorsioni commerciali e un’autocensura preventiva. Clamoroso è stato pochi mesi fa il no di Papa Francesco a un’udienza in Vaticano, e più recentemente l’imbarazzante rottura di cerimoniale del capo del Parlamento norvegese – un tempo a capo del Comitato pro-Tibet – che non ha voluto incontrarlo a Oslo per celebrare i 25 anni del Nobel.
Escluso da certi circoli esclusivi della élite politica globale, quando ha tempo e voglia di sapere qualcosa di riservato sul mondo, il Dalai Lama va a trovare l’ex presidente Usa nel suo ranch texano. Come ogni essere umano, ha bisogno di amici per confrontare le sue idee, e sempre meno di yes man, il che riduce al minimo le persone che lo circondano. Il fratello piccolo è uno di questi. Il Dalai non è mai intervenuto con giudizi moralistici quando Tenzin Choegyal è caduto in depressione e ha dovuto vincere, da solo, una sofferta dipendenza dall’alcool. Una vittoria sulle «emozioni negative» che assalgono come demoni ogni uomo e si sconfiggono con metodi diversi secondo le capacità.
I cinesi che non s’intendono molto di «vecchie superstizioni» sepolte con la Rivoluzione culturale, cercano lo stesso il più possibile di trovarsi teologicamente pronti quando sarà annunciata la morte del Dalai Lama, e hanno già rispolverato una antica urna dove «per legge» dovranno essere riposti i bastoncini coi nomi dei candidati alla carica dai quali sarà estratto quello giusto dopo averla sballottata recitando preghiere di rito. Sembra un gioco infantile se non fosse una questione di Stato. Pechino infatti considera l’urna – donata al clero buddhista alcuni secoli fa – la prova che i tibetani dipendevano già anticamente dalla Cina per nominare i loro leader. Ma la scelta delle reincarnazioni passa attraverso processi ben più lunghi, e quando un Dalai Lama sta per andarsene lascia indicazioni precise per ritrovare il suo prossimo corpo.
Così fece il XIII quando indicò un tetto di tegole azzurre nel villaggio dell’Amdo sotto al quale nacque Lhamo Dondup. Ma, a parte le battute, l’attuale titolare non ha, almeno pubblicamente, diffuso alcun dettaglio, se non un vademecum su come non si dovrà scegliere il XV. Di certo a Dharamsala ritengono che, se queste indicazioni ci saranno, sarà il fratello minore a conoscerle per primo.
A rileggere la storia, le transizioni da un Dalai Lama all’altro sono sempre state traumatiche e circondate spesso da intrighi di palazzo. Il XIII Dalai, il primo a firmare una lettera d’indipendenza formale del Tibet dalla Cina, morì rifiutando di far avvicinare al suo letto di morte l’intera Corte, tranne un paio di assistenti fedeli. Ma altri prima di lui, dall’ottavo al dodicesimo, morirono giovani o giovanissimi senza mai esercitare il potere temporale loro assegnato. Nella sorte di qualcuno di loro, si scoprì, c’era stato uno zampino cinese.
Anche per questo il XIV leader spirituale del Tibet va ripetendo sempre più spesso che un conto è la sua istituzione, un conto la persona che ne indossa le vesti. Insomma, l’abito non fa il Dalai, e se qualcuno vuole usurparne il posto – come ci dicono alcuni collaboratori stretti – «troverà solo una veste vuota proprio come quella ritratta sulla stampa..».
L’autore dell’articolo del New York Times affronta crudemente con lo stesso Dalai Lama il tema della possibile fine di un’era storica, citando le parole del fratello Tenzin Choegyal, che aveva detto di essere contrario al concetto stesso di fede organizzata, comprese istituzioni-religiose come il governo dei Dalai Lama, che ai tempi del pieno potere sono state «alquanto reazionarie». Le sue dichiarazioni mi hanno ricordato la risposta a una domanda che avevo rivolto al leader tibetano in visita in Italia all’inizio degli anni 90, quando un vescovo abruzzese gli impedì di entrare nella cattedrale cattolica dell’Aquila. «Anche noi anticamente avremmo agito così» mi rispose, col sottinteso che i tempi, almeno per lui, erano cambiati da un pezzo. Per questo non è suonata sorprendente la risposta che il Dalai Lama ha dato al giornalista del Nyt: «Tutte le istituzioni religiose, tra cui il Dalai Lama, si sono sviluppate in circostanze feudali, corrotte da sistemi gerarchici, e hanno cominciato a discriminare tra uomini e donne; sono giunti a compromessi culturali con leggi simili alla Sharia e al sistema delle caste». I tempi cambiano, devono cambiare, ha aggiunto, «pertanto, l’istituzione del Dalai Lama, con orgoglio, volontariamente, si è conclusa».
Quando a 4 anni si chiamava Lhamo Dondup e venne prelevato da un corteo di sacerdoti e monaci giunti nel villaggio da Lhasa per trasferirlo nel leggendario Potala, mai avrebbe immaginato la turbinosa piega degli eventi che stava per prendere la sua vita. Aveva fatto di tutto per stare in pace con Mao Tse Tung, che pure lo accusava di essere come l’oppio per la mente del popolo, e fino all’ultimo, nel ‘59, si rifiutò di seguire il consiglio dei suoi collaboratori: fuggire da Lhasa occupata dalle truppe rosse. Finché capì che non poteva restare un giorno di più sotto il controllo e la perenne minaccia cinese per sé e la famiglia. Sua madre Diki raccontò l’angoscia dei momenti prima della fuga, quando i comunisti rapirono per qualche ora il suo piccolo Tenzin Choegyal e il fratello Dalai capì che, restando, metteva a rischio le persone a lui più care, senza contare le migliaia di fedeli pronti a offrire il petto nudo ai moschetti dell’Esercito di liberazione popolare.
Ora che da decenni vive in pace, ospitato sul palco di atenei e teatri, o grandi concerti rock come l’ultimo con Patty Smith per il suo 80° compleanno, la sua attenzione è dedicata alle poche cose che gli restano da fare. «Addestrarmi alla concentrazione su un punto solo» mi disse, riferendosi a una precisa pratica tantrica, «e alla preservazione della cultura del mio popolo e dell’ambiente che è la nostra natura madre». Poco lo interessano ormai anche le continue proteste contro la sua decisione di abolire una pratica antica di culto degli spiriti, diventata il pretesto di alcuni lama dissidenti per accusarlo di intolleranza religiosa. Né il fatto che Pechino sostiene questi suoi nemici interni ai quali ha già deciso di affidare la scelta di un Dalai Lama da educare secondo criteri stabiliti dal partito, come è stato già fatto con la figura numero due del buddhismo tibetano, il Panchen Lama. Di recente un sito governativo ha anche diffuso online una lista ufficiale di circa 800 buddha viventi autorizzati a esercitare quello che le autorità comuniste considerano, nella loro pragmaticità, un mestiere in fondo come un altro. Infatti il sito spiega che la decisione serve a distinguerli dai ciarlatani, privi di un albo professionale e dunque passibili di arresto e multe.
Il Dalai Lama sa bene che i tulku a lui fedeli finiscono spesso per rientrare in questa categoria, ma c’è poco che lui possa fare per la sua gente se non continuare a vivere più a lungo che può. In questa transizione al buio e senza una guida apparente da qui ai prossimi cinque, dieci anni, c’è una sola novità potenzialmente capace di ribaltare ogni piano futuro sul Tibet studiato a tavolino dal Politburo. Secondo Thurman ci sono «almeno 400 milioni di buddisti cinesi piuttosto appassionati del Tibet e dei suoi lama». Non essendoci sfere di cristallo, nessuno è in grado di prevedere nel futuro che dimensioni raggiungerà il fenomeno confermato da certi segnali nell’aria, come il fatto per esempio che anche la moglie del numero uno cinese Xi Jinping è buddhista. Il dettaglio potrà apparire insignificante, (pure la madre di Mao Tse Tung lo era, ma suo figlio fece invadere il Tibet). Ma i tibetani, come i cinesi, sono scaramantici, e credono nei segni.
Anche noi cominciamo a crederci sempre di più. In fondo, se quel giorno del ’59 a Lhasa non fosse scomparso il piccolo Tenzin scatenando il panico in famiglia, forse l’attuale Dalai Lama non sarebbe fuggito dal Potala e dal Norbulingka. E il mondo non avrebbe conosciuto una delle culture più antiche sulla terra, della quale il Dalai Lama vuole preservare l’essenza. L’essenza, forse non più la forma.
(26 febbraio 2016) http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2016/02/29/news/e_se_questo_fosse_l_ultimo_dalai_lama_-134479943/