Il Dalai Lama visita i sopravvissuti nei luoghi distrutti dal tifone Morakot
Pechino insiste che la visita avrà conseguenza negative per i due Paesi. Ma il leader spirituale ripete che vuole solo portare conforto alla popolazione. Un sacerdote presente nei luoghi racconta ad AsiaNews le conseguenze del tifone e la difficile ripresa della vita quotidiana.
Il Dalai Lama ha iniziato oggi la controversa visita nel sud di Taiwan, dove il tifone Morakot ha ucciso almeno 571 persone (ma altre 106 sono “disperse”) e distrutto interi villaggi sommersi sotto montagne di fango e pietre. La Cina riafferma la sua protesta contro la visita del leader spirituale tibetano, che accusa di essere un pericoloso terrorista. Dalle zone flagellate dal tifone, un sacerdote racconta ad AsiaNews la drammatica situazione.
Il Dalai Lama si è recato nel villaggio Hsiaolin, che conta almeno 424 morti. Ha invece cancellato la prevista conferenza con la stampa estera, per evitare maggiori proteste di Pechino contro il governo taiwanese.
Egli ha ripetuto che la visita non ha alcuna significato politico. “Sono un monaco – ha detto ieri all’arrivo a Taiwan – non c’entra la politica, la mia visita è di natura umanitaria… Ho chiesto di pregare per la pace”.
Nei 5 giorni di visita si prevede che guiderà momenti di preghiera di massa, come pure una messa con i fedeli buddisti.
Poco prima del suo arrivo, Pechino ha ripetuto che questa visita “è destinata ad avere effetti negativi sui rapporti tra Cina e Taiwan”. Il leader tibetano è stato invitato da esponenti di rilievo del Partito democratico progressista, all’opposizione. Il viaggio non è stato gradito dal Partito Kuomintang al governo, anche se è stato poi approvato dal presidente taiwanese Ma Yingjeou.
Dal sud di Taiwan un sacerdote del Pontificio istituto missione estere , p. Paolo Spanghero racconta ad AsiaNews la grave perdita di vite e gli immensi danni materiali. Spiega che “a Chishan l’acqua e il fango hanno invaso l’intera città fino alla strada principale, hanno sommerso tutti i negozi con ingenti danni perché molti avevano la merce in cantine e seminterrati. Ci sono stati almeno 15 morti. Molti negozianti hanno perso in un attimo i loro averi e l’unica fonte di reddito e non sanno come tirare avanti”.
“Sul lungofiume il mare di fango ha invaso l’ospedale Guang-Sheng. Ha sommerso la grande Arcade dove ci sono sale da computer frequentate dai giovani per giocare. Si parla di oltre 10 morti intrappolati nell’edificio e molti accusano il Comune di avere nascosto la notizia perché discredita la polizia e le autorità che non facevano rispettare gli orari per l’accesso a queste sale e permettevano la presenza di minorenni”.
“Sono distrutti i due ponti, per Chiwei e per l’autostrada, per andare a Meinong bisogna passare per il tunnel allungando la via di 12 chilometri. In alcune zone sono usate le vecchie gallerie fatte dai giapponesi. Si cerca di creare passaggi sui greti, ma le forti piogge sui monti causano ondate d’acqua che portano via i tubi di cemento”.
“In un villaggio sopra Jiaxian sono morte almeno 500 persone. Alcuni sopravvissuti raccontano che quell’8 agosto, festa del papà, hanno visto il pericolo e sono corsi di casa in casa dicendo di fuggire. Ma molti hanno risposto: ‘mangiamoci prima i buoni piatti della festa, poi penseremo al da farsi’. Il villaggio non esiste più, sommerso da un cumulo di terra e sassi alto come una casa di 3 piani”.
“Il grande pericolo – conclude il sacerdote – è che ora i sopravvissuti siano dimenticati e che si facciano prendere dalla disperazione. Molti che si sono salvati non hanno più niente, dovranno lasciare per sempre il loro villaggio che non esiste più. La nostra comunità cattolica va nella zona, per portare a tutti parole di speranza”. http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=16191#