Papa e Dalai agli occhi di Pechino, di Raimondo Bultrini
“Una cosa è certa: l’impegno per la pace di Papa Francesco è indubitabile. Ma per quale ragione il pontefice non incontra il Dalai Lama?”. Se lo chiede Il Giornale dopo l’annuncio del Vaticano di “snobbare” – parole del Guardian – il leader tibetano. “Non ci sono motivazioni ufficiali – scrive il Giornale – Sullo sfondo possono esserci i rapporti (ancora oggi molto tesi) tra Pechino e la Santa Sede, con la pretesa del governo (ormai è una pratica consolidata) di nominare i vescovi infischiandosene del placet papale. Ma i negoziati sono in corso e, presto, i rapporti potrebbero migliorare. Per questo le ragioni del Tibet possono aspettare…”
Il testo mi è capitato davanti mentre cercavo di rispondere allo stesso interrogativo. Perché il Papa degli emarginati e delle vittime di ingiustizie non riceve un uomo costretto a fuggire dal suo Paese come un profugo, uno dei tanti che secondo Bergoglio rivivono il sacrificio di Cristo stesso?
D’accordo, il Dalai è un “profugo”-Nobel per la pace, che ha fatto la sua fortuna in termini di fama non solo come esponente di un popolo oppresso, ma come un saggio di una religione diversa, il buddhismo, che ha distribuito consigli capaci di cambiare milioni di vite. Niente di paragonabile alle moltitudini che seguono il messaggio di Cristo. Ma è pur sempre la vittima di una ingiustizia enorme, com’è stata l’espropriazione del suo regno, della sua casa, privandolo del contatto con la gente che dopo generazioni ancora lo ama ed è ricambiata, nonostante i tentativi cinesi di conquistare cuori e menti del Tibet. Se il governo d’Italia invece dei patti lateranensi avesse imposto alla chiesa la confisca dei beni e la sottomissione del Pontefice al partito del Duce, non sarebbe stata una bella cosa. Così per reciprocità, tra persone che credono nella libertà della fede, un abbraccio di solidarietà al Dalai lama come quello concesso ai leader di altre religioni e musulmani, sarebbe stato apprezzato universalmente. Certo non dalla Cina.
Ora si puo’ supporre che il Papa sia mosso dalla volontà compassionevole di non ferire Pechino, specialmente – come ricorda il Giornale – mentre sono in corso colloqui delicati, ma di certo lascia molti altri delusi. Soprattutto perché i cattolici in Cina hanno poco da sperare in un trattamento molto dissimile da quello riservato ai tibetani, qualora si mettessero davvero sotto il patrocinio del Papa, e non solo o non più sotto lo United Front Department, sezione Affari religiosi ed etnici del Partito comunista.
Non sappiamo che idea si sia fatto Papa Francesco della situazione religiosa in Cina e delle conseguenze in cui incorrono individui e movimenti che possono costituire una qualsiasi minaccia al potere di controllo del Partito e dello Stato. La Falun gong e il suo annientamento con torture uccisioni e arresti di massa dei suoi seguaci resta un monito nella storia. Poiché il Vaticano sa bene cosa significano le persecuzioni di preti e devoti nella stessa Repubblica popolare, puo’ dunque anche immaginare perché a loro volta gli spiritualissimi tibetani cercano supporto, magari da un’entità morale ed etica di “infallibile compassione” qual è il capo della Chiesa più grande dell’Occidente.
Al Vaticano basterebbe osservare le foto e i video sui social network dove si vedono i turisti cinesi entrare in monasteri e templi con le scarpe buttando in giro le cicche delle sigarette, prendendo selfie con due dita a V tra i devoti e i monaci che meditano o si prostrano ai Buddha. Certo, agiscono in modo solo più blando di quanto fecero i soldati del PLA, che rasero al suolo edfici religiosi e statue, calpestarono i rosari e i mulini di preghiera dei devoti. E talvolta ancora lo fanno, secondo rapporti di gruppi dei diritti umani e di esuli tibetani.
Ma nella Cina di oggi ci sono modi più sottili di denigrare una religione e con essa l’affetto che lega il popolo al loro attuale leader spirituale. A questo scopo la Cina sta appoggiando come puo’ un gruppo che accusa il leader tibetano di aver commesso delle ingiustizie contro i devoti di una certa divinità dall’aspetto feroce chiamata Gyalpo Shugden o Gyalchen. Questa organizzazione, che fa capo a un vecchio lama allontanato anni fa dal suo monastero per “grave violazioni del vincolo religioso con la comunità buddhista”, è talmente ricca da poter spedire in giro per il mondo centinaia di persone con lo scopo di manifestare in strada e accusare il Dalai lama di essere un bugiardo.
Ci sono prove dei pagamenti effettuati dai seguaci di questo lama erudito e considerato eretico, Kelsang Gyatso, per organizzare i viaggi dei contestatori itineranti. Gyatso è il fondatore della “New Kadampa tradition”, con lo scopo di rinverdire la tradizione originaria della scuola cui appartiene ancora il Dalai lama. Ha una lussuosa sede in Inghilterra e centinaia di centri in America e altri Paesi dove si pratica il culto di Shugden, considerato potente ed efficace contro ogni nemico interno ed esterno, ma che secondo il Dalai lama è fonte di discordia e tensione tra i tibetani fin dall’origine ai tempi del suo quinto predecessore, nel XVII secolo. Il braccio operativo nella attuale campagna internazionale anti Dalai è la Western Shugden society, poi ribattezzata International Shugden Community, e la loro prima uscita pubblica risale al 1996, durante una protesta in pieno centro di Londra, dello stesso tenore di quelle di oggi.
E’ una storia piena di intrighi e di misteri, che comprende un triplice omicidio avvenuto a Dharamsala in India l’anno dopo quella prima dimostrazione inglese, vicino alla residenza dell’attuale Dalai lama. Un gruppo di tibetani che apparteneva allo stesso culto ed era – a quel tempo ufficialmente – collegato alla NKT, fu indagato e non è stato ancora prosciolto in istruttoria per le serie prove di un complotto per assassinare il direttore della locale Scuola di Dialettica tibetana, che si era schierato con il Dalai contro questa pratica considerata “pericolosa”. Nell’assalto furono uccisi a coltellate anche due monaci. Tra le carte dell’inchiesta fu sequestrata una lista di autorità dell’allora governo tibetano in esilio, Dalai lama in testa, da eliminare. Un rischio che secondo l’intelligence dei tibetani esuli esiste ancora oggi.
Poiché non esistevano altre “piste” plausibili, con la fine dell’istruttoria sul triplice delitto è passato in secondo piano il ruolo dell’associazione che faceva capo a un gruppo di monaci e laici del quartiere tibetano di New Delhi, la Dorje Shugden Devotee’s Charitable & Religious Society. Eppure sarebbe stato importante andare a fondo, visto che furono i suoi aderenti ad aprire per la prima volta ai cinesi la possibilità di comprendere i vantaggi della loro speciale versione di buddhismo tibetano, basata sul culto di uno spirito che, idealmente, sta dalla loro parte e non quella del nemico “separatista” Dalai.
A cominciare dai giorni successivi al triplice delitto avvenuto nel febbraio del 1997, le autorità cinesi hanno garantito speciali privilegi ai cultori di Shugden (i killer entrarono in Cina via Nepal nonostante un mandato di cattura ancora oggi pendente), e li invitano regolarmente a consultazioni politiche e strategiche su come ridurre l’influenza del Dalai lama in Tibet. In cambio aiutano a costruire sempre nuovi templi dedicati al loro “Buddha” Shugden, mentre i tibetani che invitano la gente a non praticare il culto come consiglia il Dalai lama, vengono perfino arrestati com’è successo proprio in queste ore al 77enne Jamyang Tsering.
A livello internazionale l’attuale strategia mediatica della International Shugden Community è molto più sottile e si avvale di milioni di post sui social network e inviti ai seguaci a partecipare alla campagna “Dalai lama smetti di mentire” via twitter o direttamente nei luoghi delle manifestazioni che si stanno svolgendo in parecchi luoghi del mondo visitati dal leader tibetano.
La Cina osserva naturalmente sfregandosi le mani questa polemica che mira a indebolire la figura del leader tibetano proprio nel suo punto forte dei diritti umani. Il Dalai ha spiegato più volte la sua posizione sull’argomento ed esistono centinaia di gigabyte di documenti e testimonianze online dalla sua viva voce e libri di studiosi come Georges B.J. Dreyfus e gli autori della Dolgyal Shugden Research Society (‘Dolgyal Shugden: A History’)”. Così anche gli esperti del Vaticano possono indagare sui retroscena del caso e intravvedere qua e là il tipo di strategia di diffamazione e denigrazione che la Cina potrebbe adottare per ridimensionare, oltre che il Dalai lama, anche il Pontefice di Roma.
Per esempio potrebbe rispuntare fuori qualche storia più recente e ugualmente imbarazzante per la chiesa cattolica di quella dello spirito-demone tibetano, che ha per protagonisti Papa Bergoglio e altri sacerdoti nel periodo più buio della storia argentina moderna. Nel 2000 un tribunale di Buenos Aires scrisse nella sentenza contro tre ex militari condannati all’ergastolo per l’uccisione di due sacerdoti progressisti, che la gerarchia ecclesiastica aveva “chiuso gli occhi” su quel duplice delitto. Erano gli anni in cui l’attuale papa guidava l’ordine dei Gesuiti argentini (1973-1979), al top della gerarchia cattolica che chiedeva ai fedeli di agire da patrioti.
Bergoglio tacque ufficialmente anche durante il rapimento di altri due preti della sua congregazione, accusati di connivenza con gli antiregime quando lavoravano nelle baraccopoli. Il Pontefice nego’ sempre di avere abbandonato i suoi uomini, anzi disse di aver aiutato più volte i preti della resistenza. Ma per due volte ha rifiutato di testimoniare al relativo processo, finché nel 2010 si presento’ ai giudici e gli avvocati dissero che era stato troppo “evasivo”.
Le accuse, dalle quali Bergoglio è sempre stato prosciolto, sono relativamente importanti nel passato di un religioso di specchiata fedeltà agli ideali della Chiesa. Ma quando si stringono patti con uomini di potere, come lo sono certamente i politici cinesi in trattativa con il Vaticano, le sorprese cui si puo’ andare incontro sono numerose. Tenendo presente tutto questo, la gerarchia di San Pietro avrebbe fatto bene a riconsiderare la sua decisione di rinunciare al ricevimento del Dalai lama solo per non offendere Pechino. Se un giorno dovesse tornare utile, il fango di quegli anni sotto i generali di Buenos Aires potrebbe tornare in superficie e il Pontefice si troverebbe – come il Dalai lama – al centro di una polemica costruita da altri e sostenuta dal Dipartimento religioso del Partito comunista.
Anche in cinese si dice infatti “diffamate diffamate, qualcosa resterà”.
http://bultrini.blogautore.repubblica.it/