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Buon Anno del Cavallo, al galoppo nella storia del Tibet
Marzo 3rd, 2014 by admin

tibet-zodiacBuon Anno del Cavallo, al galoppo nella storia del Tibet

di Raimondo Bultrini

In questo blog numero 111 di Asiaticom, vorrei celebrare il triplo numero (che dà inizio a ogni calcolo matematico) con un augurio per il nuovo anno tibetano (o Losar) del Cavallo di Legno, che comincia oggi.

Questo animale simbolo, lo stesso dello zodiaco cinese festeggiato il 31 gennaio scorso, è assieme al cane, la tigre, la scimmia, il topo eccetera uno dei 12 segni coi quali è rappresentato il calendario orientale, che alterna ogni ciclo con un elemento diverso: fuoco, metallo, acqua, terra e, appunto, legno, che è un po’ il prodotto degli altri. Il cavallo, in accordo con i principi dell’astrologia e della filosofia tibetana, richiama le caratteristiche di forza, vitalità e velocità proprie della sua natura. E’ considerato di particolare auspicio per la comunicazione e la diffusione o propagazione della “buona parola”, anche se nella storia umana i messaggeri lo hanno cavalcato al galoppo per trasportare tra città e regni ogni genere di informazione inviata dal mittente, comprese le dichiarazioni di guerra.

Il messaggio spirituale e quello mondano sono e restano due cose ben distinte rispetto al significato intrinseco del segno, del quale ognuno puo’ approfondire le diverse caratteristiche qualora fosse interessato alla mistica di questa antichissima consuetudine. Qui ricorderemo soltanto che il cavallo è una delle figure principali e ricorrenti delle bandierine tradizionali tibetane, o lungta (letteralmente “il cavallo del vento”), dipinte con il colore associato ai cinque elementi del cosmo, leggermente diversi da quelli associati agli animali: aria (verde), spazio (blù), fuoco (rosso), acqua (bianco) e terra (giallo). Quasi tutti i tibetani preparano le lungta cucendole in ordine cromatico su di un filo per appenderle poi vicino casa e nei luoghi sacri, agli incroci importanti, o sulle cime delle montagne, possibilmente in luoghi non inquinati. Il principio delle lungta è quello di trasferire – attraverso il vento che le fa sventolare in ogni direzione – il messaggio iscritto sulla bandiera di stoffa con un cavallo disegnato al centro, ovvero i mantra di buon auspicio per il beneficio di tutti gli esseri. Un’impresa virtuale, vista l’impossibilità di poter davvero diffondere il verbo della pace confidando nel solo significato dei simboli. Per tornare alla realtà del Tibet odierno, nel segno del Cavallo cade quest’anno il 55esimo anniversario dell’Insurrezione di Lhasa, avvenuta il 10 marzo del 1959, pochi giorni prima della fuga dal Paese dell’attuale Dalai lama che non vi ha mai più fatto ritorno. Quella rivolta di popolo fu la risposta all’invasione delle truppe dell’Esercito comunista cinese che la definirono una “liberazione dalla schiavitù”, ovvero la fine del potere feudale dei lama e degli aristocratici, per sostiturlo con quello del regime comunista di Pechino. Molti morirono durante il cannoneggiamento del Norbulingka, il Palazzo d’estate, per proteggere il loro leader spirituale che aveva all’epoca 24 anni. Cio’ che e’ successo in questi 55 anni è storia nota, e mentre la Cina continua a contrabbandare le politiche del suo governo come un grande successo in termini di sviluppo economico e progresso sociale, in questo stesso anno si celebra il quinto anniversario dall’inizio della catena di suicidi che dal ’99 ad oggi ha visto l’autoimmolazione di 120 tibetani, tra monaci, monache e laici di ogni età e distretto del Paese delle nevi. Per commemorare la rivolta del 1959 e il sacrificio dei tibetani che si sono dati fuoco, l’Associazione Italia Tibet organizza una manifestazione a partire dalle 15,30 del prossimo 9 marzo a Piazza Farnese a Roma. Qui vorremmo ricordare tutte le vittime della resistenza anti-cinese in occasione del nuovo anno, visto che da molto tempo il Tibet non fa più notizia, e ne scriviamo nonostante la personale disapprovazione per un gesto che impedisce oggi a questi martiri della causa del Tibet libero di esprimere da vivi il loro sacrosanto dissenso, contro il rigido regime di censura e sopraffazione delle libertà individuali che vige in tutto l’altipiano, nonché nel resto della Cina. E’ un fatto che solo attraverso di loro, e grazie alla popolarità del loro leader spirituale divenuto messaggero unico dello spirito di una tradizione a rischio di estinguersi, il caso-Tibet continua a essere ricordato nel mondo come uno dei simboli moderni della resistenza anti-imperialista per eccellenza. Da più di mezzo secolo questa causa rappresenta il pacifico anelito di libertà religiosa e sociale di ogni popolo contro l’oppressione di un’etnia numericamente schiacciante, portatrice di culture e tradizioni che si impongono anziché integrarsi, che tentano di eliminare le diversità di lingua, religione e razza attraverso un sistema di controllo capillare e militaresco. Un sistema che, nonostante tutto, non è riuscito nel suo intento finale di omologazione e omogeneizzazione, com’è invece successo per i mancesi, i mongoli (sui quali torneremo più avanti) e altre etnie di minoranza oggi rappresentate soltanto in qualche libro di storia e nei musei. Una resistenza quasi miracolosa, sebbene le giovani generazioni degli altipiani siano costrette da decenni a studiare in lingua cinese, a vestirsi alla cinese, a lavorare per i cinesi. Una resistenza analoga, ma decisamente più violenta, caratterizza un altro popolo – gli islamici uyiguri – che proprio oggi torna alla ribalta delle cronache per il sospetto di essere responsabile della strage di innocenti accoltellati nella stazione ferroviaria di Kunming, con almeno 28 morti e 170 feriti. Qualcuno ha definito la resistenza pacifica dei tibetani – che non si spingono oltre la protesta delle autoimmolazioni – e quella armata degli uyiguri, una “puntura di spillo” contro un potere monolitico come quello della Cina, destinata entro breve a diventare la più forte economia del pianeta. Pechino sa bene che queste due razze non saranno mai alleate contro lo stesso nemico, grazie alle profonde diversità religiose e culturali, e in ogni caso si tratta di pochi milioni di individui al cospetto di un miliardo e 300 milioni di han cinesi, liberati oggi anche dal vincolo della politica del figlio unico. Per questo nell’anno del Cavallo resta solo la speranza che il rumore del vento che fa sventolare le bandierine di preghiera lungta sovrasterà quello degli zoccoli, destinati a calpestare (non troppo metaforicamente) ogni cosa al loro passaggio. La storia del resto insegna che nemmeno il mongolo Gengis Khan – capo di un impero quattro volte più vasto di quello del macedone Alessandro il Grande – riuscì a tener fede alla leggenda secondo la quale non sarebbe cresciuto nemmeno un filo d’erba dopo il passaggio delle sue armate a cavallo. “E’ facile conquistare il mondo a dorso di un cavallo”, disse il celebre condottiero. Perfino il suo immediato successore, Ogedei Khan, uso’ un’analoga metafora annunciando di voler sterminare l’intera popolazione cinese attorno al XIII secolo, quando gli han erano poco più di 40 milioni. “Non ci servono a nulla” – disse – “Sarebbe meglio sterminarli del tutto e lasciar crescere l’erba per farci pascolare i nostri cavalli” (Stanley Stewart – 2004 – ‎Literary Collections).

Qualcuno lo convinse pero’ che sarebbe stato meglio sfruttare i nemici facendo pagare loro una gabella invece di adottare la soluzione finale. Pochi anni più tardi, furono proprio i lama tibetani a salvare le popolazioni cinesi convertendo i feroci mongoli al rispetto della vita umana degli stessi nemici, avviando di fatto l’attuale lento e costante processo di estinzione di entrambi i popoli per mano delle antiche vittime.

Difficile giudicare la storia passata e presente. Ma la doppia metafora del cavallo come simbolo di libertà o all’opposto di strumento del dominio resta un monito per tutti i potenti della terra. Chi usa la forza e la sopraffazione non fa altro che allontanare e rinviare l’avvento di un’era di rispetto reciproco, di pietà e compassione. Perfino tra i tibetani c‘è oggi chi continua a puntare sulle divisioni del passato, quando alcune scuole vantavano la supremazia del proprio “guardiano” celeste anziché quella della tolleranza reciproca. Basta leggere le cronache delle recenti manifestazioni anti-Dalai lama negli Stati Uniti in nome di un’ambigua divinità-demone chiamata Gyalpo Shugden, (http://timesofindia.indiatimes.com/city/chandigarh/Tibetans-condemn-protest-by-Shugden-followers-against-Dalai-Lama/articleshow/31243865.cms) per avere una idea della portata di questo scisma visto sempre più di buon occhio da Pechino.

Non a caso nel Tibet “cinese” stanno letteralmente proliferando i templi dedicati a “buddha” Shugden che brandisce una spada in sella a un cavallo nero di fuoco, grazie al fatto che i seguaci del suo culto sono apertamente ostili alla politica ecumenica del leader tibetano esule. Un amico è il nemico del mio nemico.

http://bultrini.blogautore.repubblica.it/2014/03/02/buon-anno-del-cavallo-al-galoppo-nella-storia-del-tibet/


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