La polizia spara sulla folla, 4 morti
Tibet torna di prepotenza nelle cronache relative alla Cina: dopo alcune proteste seguite a un arresto, la polizia cinese ha sparato sulla folla, ferendo centinaia di tibetani e uccidendone quattro. La notizia, resa nota da Radio Free Asia, da sempre molto vicina agli ambienti degli esuli tibetani, riverbera sul web, proprio mentre la Corte di Cassazione spagnola accetta il ricorso di un esule tibetano, di cittadinanza spagnola, e accusa l’ex Presidente cinese Hu Jintao di genocidio, perpetrato negli ultimi 50 anni da Pechino contro la minoranza tibetana. Si tratta di due fatti, cui va aggiunta la dichiarazione del Dalai Lama che parlando del Xinjiang, l’ha definito «Turkmenistan Orientale» irritando ancora di più Pechino, che ripropongono come centrale il problema interno numero uno della dirigenza cinese, ovvero la gestione della regione autonoma del Tibet.
I quattro morti sono il risultato dell’ennesima repressione militare nella regione. Nei giorni scorsi, un tibetano era stato arrestato perché si era rifiutato di innalzare la bandiera cinese, nel giorno della festa della Repubblica Popolare (il 1 ottobre). All’arresto era seguita una protesta, di cui erano arrivate solo scarne informazioni: dalle notizie giunte dai luoghi tibetani, si era venuti a conoscenza di almeno sessanta feriti. Da ieri si sa che invece almeno quattro sarebbero i morti e molti gli arrestati.
Un fatto che dopo centinaia di autoimmolazioni, testimonia una politica da parte di Pechino nei confronti della regione tibetana che non cambia neanche al mutare della propria leadership politica. Neanche se – come abbiamo scritto anche nei giorni scorsi su il manifesto – Xi Jinping ha recentemente aperto alle fedi tradizionali cinesi, tra le quali figura in primo piano proprio il buddismo.
I tibetani contestano l’arroganza del potere cinese, che si manifesta attraverso una sorta di colonizzazione economica, religiosa e culturale: da un lato Pechino trasforma le antiche città tibetane in Disneyland dei tempi moderni, insedia centinaia di prefabbricati dove dovrebbero abitare popolazioni tradizionalmente nomadiche, dall’altro spinge sul depotenziamento del lamaismo (descritto come un regime teocratico e feudale, non a torto) attraverso la sinizzazione dell’area. Le stesse procedure adottate in altre regioni, come il Xinjiang, dove le minoranze etniche lottano per la propria sopravvivenza culturale.
Dal Tibet, inoltre, le notizie arrivano con il contagocce, perché il governo ha di fatto chiuso l’area ai giornalisti e anche per i turisti è molto complicato raggiungere le sue vette e le sue antiche città. Anche la rete internet subisce spesso chiusure, proprio per evitare il diffondersi di notizie che possano mettere in difficoltà il regime pechinese.
Prima dell’avvento al potere di Xi Jinping, la rivolta più clamorosa si era avuto nel 2008, poco prima delle Olimpiadi di Pechino, quando violente proteste infiammarono la regione. Allora la risposta dello Stato cinese presieduto da Hu Jintao fu durissima. Del resto lo stesso Hu si era formato politicamente proprio in Tibet, esercitando la carica di segretario regionale alla fine degli anni 80. E proprio in occasione della rivolta del 1988 Hu Jintao proclamò la legge marziale nella regione.
Anche per questo e per aver sempre avallato una politica repressiva nei confronti della comunità tibetana, Hu Jintao è stato accusato, insieme ad altri dirigenti comunisti, di «genocidio nei confronti della popolazione tibetana», perché nella sua posizione avrebbe avuto «la competenza e la capacità organizzativa sufficienti per azioni dirette e campagne volte a molestare la popolazione tibetana». La Corte spagnola è giunta a questa decisione contro Hu Jintao, in base alla possibilità riconosciuta di prendere in considerazione anche i casi internazionali di violazione dei diritti umani, purché ci sia almeno un cittadino spagnolo coinvolto. Nel caso del Tibet, uno degli esuli querelanti, Thubten Wangchen risponde a questo requisito. Si tratta di imputazioni pesanti, soppesate a fronte del mancato lavoro dei dirigenti cinesi per rispondere alle accuse e che rischiano di sollevare una clamorosa polemica internazionale tra la Spagna e la Cina. http://ilmanifesto.it/la-polizia-spara-sulla-folla-4-morti/
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Nuova ondata di proteste in Tibet, La polizia spara sulla folla: 4 morti
Disordini nella prefettura di Nagchu
Repressione degli agenti cinesi: ferite 50 persone. Le Ong: decine di arresti
Uccisi dalla polizia per essersi rifiutati di issare la bandiera del paese che ritengono invasore ed oppressore. È quello che è successo martedì, ma la notizia si è diffusa solo poche ore fa, nella contea di Driru (Biru in cinese), nella prefettura di Nagchu (Naqu per i cinesi) nel Tibet, provincia autonoma per i cinesi, regione occupata per i locali.
Da un mese l’area è interessata da una ondata di proteste dopo che le autorità cinesi hanno emesso una ordinanza che obbliga tutti i residenti ad issare la bandiera cinese, soprattutto in considerazione che all’inizio di ottobre cade la festa nazionale cinese della nascita della Repubblica Popolare. Nonostante le forti pressioni da parte di autorità e forze di polizia, moltissimi locali si sono rifiutati di sottostare all’obbligo e hanno cominciato a manifestare. Domenica scorsa, il promo forte scontro tra polizia e manifestanti: i primi, per disperdere la folla, esplodono colpi di arma da fuoco sulla folla, facendo una sessantina di feriti. In quella occasione, i manifestanti chiedevano la liberazione di Dorje Draktsel, uno dei principali protagonisti della protesta anti bandiera cinese, che è stato poi arrestato. Martedì nuovamente in strada e nuovi spari della polizia. Questa volta, restano a terra quattro vittime, le prime dal 27 settembre, da quando sono cominciate queste manifestazioni. Secondo quanto riferiscono organizzazioni che si battono per i diritti dei tibetani, tre vittime provenivano dal villaggio di Sengthang ed uno da quello di Tinring. Una cinquantina di tibetani del villaggio di Yangthang sono invece stati feriti dei colpi esplosi dalle forze paramilitari cinesi. A seguito delle manifestazioni, le autorità cinesi hanno inviato nell’area migliaia di agenti e paramilitari per controllare l’area. A Sengthang e in altre zone, sono stati operati anche centinaia di arresti oltre a sequestri di telefonini, per evitare i collegamenti. Ma è caccia al residente dell’area anche in altre parte del Tibet.
Nella capitale Lhasa, infatti, secondo il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, le autorità hanno cominciato una vera e propria caccia ai tibetani di Nagchu. Per l’occasione, è stato diffuso un codice «segreto» per identificare i residenti dell’area teatro delle manifestazioni, subito scoperto dai locali. Gli uomini di Nagchu vengono chiamati `turisti maschi´, le varie città e villaggi dalle quali provengono indicate con lettere dell’alfabeto. Giunti a Lhasa, vengono seguiti a distanza dalla polizia che ne annota gli spostamenti e ne informa i vari centri di polizia di zona. Quelle di queste settimane sono le ultime manifestazioni in Tibet, che hanno visto dal 2008, in concomitanza con il passaggio della fiaccola delle Olimpiadi di Pechino, una recrudescenza della soppressione di ogni forma di protesta da parte delle autorità di Pechino, che ha poi portato ad un aumento delle auto immolazioni. Dal 2011 sono 121 (122 considerando il primo caso avvenuto nel 2009) i tibetani che si sono dati fuoco in nome della libertà del Tibet e per il ritorno dall’esilio del loro leader spirituale, il Dalai Lama. Sono 24 le immolazioni dall’inizio di quest’anno. Sul totale delle autoimmolazioni, 103 sono uomini, 19 donne, 24 erano minori di 18 anni. http://www.lastampa.it/2013/10/12/esteri/nuova-ondata-di-proteste-in-tibet-la-polizia-spara-sulla-folla-morti-FcHIU33An6uREhisUp83vJ/pagina.html