Il Dalai Lama. Il leader spirituale incontra la stampa e si dice “dispiaciuto” del mancato incontro con Ratzinger “La natura della mia venuta non è politica, non voglio creare problemi, sono solo un visitatore straniero” Dalai Lama: “Mi manca Wojtyla un grande uomo meraviglioso”
“La Cina mi ha accusato di separatismo e ha rafforzato la repressione. E’ un genocidio culturale Hanno detto che il capo del Tibet non esiste più. Ma il terrore non è un bene neanche per loro”
MILANO – Peccato per il mancato incontro con papa Ratzinger, “avrei desiderato vederlo, per un saluto, per rispetto, per un impegno morale”. Ma allo stesso tempo, “mi mancano Giovanni Paolo II e la sua determinazione nel promuovere i valori umani e il discorso interreligioso, come nel meeting di Assisi. Oh, Giovanni…”. Il suo cuore batte ancora per Wojtyla e il Dalai Lama non ha alcuna difficoltà ad ammetterlo con i giornalisti che ha incontrato questa mattina a Milano nel corso della sua visita in Italia. Wojtyla “un grande, non solo ufficialmente, ma personalmente, un uomo davvero meraviglioso – così lo ricorda – per cui ho sentito una sensazione piacevole sin dal primo incontro”. Di Ratzinger apprezza che sia “un grande esperto”, “mi ha detto che fede e ragione devono camminare insieme”.
E’ da vero uomo di pace che il Dalai Lama si presenta ai cronisti che lo aspettano all’Hotel Principe di Savoia. Cerca di stemperare le polemiche dopo l’imbarazzo col quale alcune istituzioni italiane hanno accolto il suo arrivo. “La natura della mia visita non è politica, non voglio creare problemi allo Stato e alle autorità dei Paesi che visito. Per me – dice – non c’è problema, sono solo un visitatore straniero”. Accompagnato dai suoi monaci, lascia intendere di conoscere i motivi che inducono i politici alla cautela: “Vorrei andare in Tibet e anche in Cina per una visita breve, ma la propaganda cinese mi demonizza, per loro sono un nemico del popolo e così quelli che mi incontrano, da Bush alla Merkel, diventano anche loro mezzi demoni”.
Gli dispiace, si diceva, di non poter avere un colloquio con Ratzinger, “in passato ho avuto l’opportunità di incontrarlo, questa volta invece no, evidentemente avrà le sue difficoltà, avrà poco tempo o altri impegni”. E se ne rammarica, convinto dell’importanza della conoscenza reciproca, perché “nonostante le differenze filosofiche, tutte le religioni danno lo stesso messaggio di amore, compassione, tolleranza, perdono e disciplina morale”. Per la stessa ragione non vede di buon occhio le conversioni: “E’ più salutare rimanere con la propria fede di cuore, quella di nascita, altrimenti si rischia di far confusione”.
Fermo restando che “la religione del cuore è quella cui si appartiene” nulla vieta, comunque, “di imparare anche dalle altre”, come faranno le ottomila persone che, al Palasharp di Milano, parteciperanno alla tre giorni sul tema della pace interiore. Condizione, quest’ultima, necessaria – secondo il premio Nobel – per raggiungere la pace nel mondo: “Tanta guerra è frutto dell’azione dell’uomo, dell’intenzione umana: soldi e tecnologia non possono risolvere i nostri problemi, credo che si debba invece migliorare l’uomo dal profondo”. In questo senso, “tutte le grandi religioni, anche se diverse, hanno un’enorme potenzialità di realizzare la pace interiore”.
Ma oltre alla pace interiore c’è anche un altro valore in cui il leader spirituale crede, quello della democrazia, rivendicato dal movimento dei monaci buddisti della Birmania. Lui, di fronte alla repressione militare, ha provato “grande dispiacere” perché “lo scopo della loro manifestazione era la democrazia, valore universale ed estremamente nobile”. Allo stesso modo il suo Tibet si batte da anni per ottenere l’autonomia dalla Cina, già concessa – come prevede la Costituzione cinese – ad alcune altre etnie.
Nonostante questo, “nel 2002, quando si ripresero i contatti con la Cina, dissi che non chiedevamo l’indipendenza ed ero fiducioso, ma sono stato accusato di separatismo e si è rafforzata la repressione finché, nel giugno del 2007, nel nostro ultimo incontro, mi hanno detto che il capo del Tibet non esiste più”.
Quello che sta avvenendo nel suo Paese, denuncia Tenzin Gyatso, è “un genocidio culturale” ma “repressione e terrore non sono un bene neanche per la Cina”. Al Paese che dal 1951 occupa il Tibet, il leader spirituale ricorda che “se l’istituzione del Dalai Lama per successione continuerà o meno, dipenderà dal popolo tibetano: sarà lui a decidere”. Per quanto lo riguarda, non esclude – come aveva già detto – né che il suo successore possa essere una donna né che possa essere scelto mentre lui è ancora in vita.
Da una parte, infatti, “se una donna sarà la più adatta per portare beneficio tramite l’insegnamento, allora sarà possibile che il prossimo Dalai Lama si incarni in una donna”. Dall’altra invece “nella tradizione tibetana esistono già esempi di reincarnazioni in vita”, e visto che lo scopo delle reincarnazioni è ultimare il lavoro incompiuto nella vita precedente, se la situazione del Tibet rimarrà tale e quale Tenzin Gyatso non esclude di rinascere nell’esilio cui è costretto da quasi cinquant’anni.
(6 dicembre 2007) http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/esteri/dalai-lama/dalai-lama-wojtyla/dalai-lama-wojtyla.html
L’intervista. Leader spirituale e simbolo politico: né il governo né il Papa l’hanno ricevuto. E lui replica così: “Mi dispiace se sono ingombrante” Il Dalai Lama: “Italia, i miei rimpianti
Non boicottate le Olimpiadi in Cina”
di ANAIS GINORI
Il Dalai Lama a Roma
ROMA – “In Tibet è perfino proibito pronunciare il mio nome”. Il Dalai Lama, in questi giorni a Roma, parla delle persecuzioni del governo cinese nei confronti dei buddisti (“hanno tolto qualsiasi riferimento alla religione, è proibito fare pellegrinaggi”), nega di voler puntare all’indipendenza del Tibet ed esprime rammarico per non avere potuto incontrare Benedetto XVI. “Il Papa però rappresenta una importantissima spiritualità e la spiritualità deve essere ferma quando si tratta di principi”. Perché non ha incontrato il governo italiano? “Chiedetelo a loro” ribatte con un sorriso disarmante.
“Sono ingombrante, che posso farci?”. Piedi scalzi, seduto in posizione yoga e avvolto nella sua tunica giallo-arancione, “Oceano di Saggezza” ha modi semplici, informali. Stringe la mano con convinzione, fa spazio dentro alla suite dell’hotel Exedra di Roma. Eccoci dice, go on, parliamo. Perché non ha incontrato il governo italiano? “Già, perché? Chiedetelo a loro” ribatte, con il suo solito, disarmante sorriso. L’icona mondiale del pacifismo, 72 anni di cui 48 passati in esilio, torna serio. “Me ne dispiace. Un piccolo rimpianto c’è anche per non aver visto il Papa. Ma se ha trovato qualcosa di sconveniente, nell’incontrarmi, per me va bene, non c’è problema. Il Papa però rappresenta un’importantissima spiritualità. E la spiritualità deve essere ferma quando si tratta di principi”.
Sua Santità, crede che le pressioni della Cina abbiano condizionato il governo italiano?
“Ovunque io vada, cerco sempre di non recare disturbo, quindi se provoco imbarazzo a qualche governo rispondo “Ok, nessun problema”. Non sarò certo io a protestare. Il mio obiettivo più grande è la promozione dei valori umani e l’armonia tra le religioni. Ecco, l’unica cosa che mi sento di dire è forse che anche i governi e i leader politici dovrebbero fare qualcosa di più per promuovere i diritti umani e i valori (ride)”.
Lei ha parlato più volte di un genocidio culturale in Tibet.
“Nel nostro paese, è vietato tenere una statua di Budda in casa, o esibire qualsiasi oggetto religioso. E’ proibito fare pellegrinaggi ai templi. Nelle scuole, le autorità cinesi hanno tolto ogni riferimento alla religione, mentre nei monasteri buddisti sono incominciati gli indottrinamenti politici, divisi in punti. Il primo punto è quello che invita a criticare il Dalai Lama”.
In Tibet è addirittura proibito pronunciare il suo nome, giusto?
“Hanno anche tolto tutte le mie fotografie. Ma non fa niente. La cosa fondamentale è che nel nostro paese c’è un’insofferenza sempre maggiore e che qualsiasi manifestazione di protesta o critica alle autorità cinesi viene repressa con la violenza. Arresti e torture sono all’ordine del giorno. I tibetani vengono trattati come cittadini di seconda classe nel loro stesso paese. Anzi, come animali da bastonare, a cui è negata qualsiasi dignità”.
Le capita di provare rabbia o frustrazione?
“Non sono abituato a lasciarmi andare a questi sentimenti. E’ molto meglio rimanere calmi, proteggere la propria pace mentale”.
La Cina l’accusa di essere un leader politico che cerca l’indipendenza, un separatista.
“Sono accuse calcolate, perché da tempo i cinesi sanno che non cerchiamo l’indipendenza. Purtroppo è ormai chiaro che è in atto una strategia di denigrazione nei miei confronti. Volontaria e costante”.
Se non cercate l’indipendenza, quali sono gli ostacoli per trovare un accordo con Pechino?
“Dal 2001 ci sono stati sei incontri tra la nostra delegazione e il governo cinese. Fino all’anno scorso, nel nostro penultimo colloquio, avevamo fatto molti progressi. Nella primavera 2006 sono invece ricominciate le accuse nei miei confronti e la repressione all’interno del Tibet. Prima dell’estate, durante il nostro ultimo incontro, Pechino ha rotto il dialogo. Dicendoci soltanto: “Non c’è nessuna questione aperta sul Tibet”. Oggi devo ammettere che la situazione è molto critica, difficile. Da parte nostra nulla è cambiato. Siamo sempre in cerca di un riconoscimento della nostra autonomia, all’interno della Costituzione della repubblica popolare cinese”.
E’ a favore del boicottaggio delle Olimpiadi?
“No. Da subito, mi sono pronunciato contro il boicottaggio. La Cina è un grande paese, si merita le Olimpiadi. Penso però che per essere un buon ospite, Pechino dovrebbe prestare più attenzione alle preoccupazioni di governi e Ong sulle violazioni di diritti umani, libertà religiosa e di espressione, e sul rispetto dell’Ambiente”.
Cosa possono fare i governi occidentali per aiutare la causa tibetana?
“La mia opinione su questo è che la Cina non deve essere isolata dalla comunità internazionale. E se guardiamo all’economia, l’integrazione dei cinesi è già nei fatti, ma non è sufficiente. Il mondo libero ha la responsabilità morale di portare la Cina nell’ambito della democrazia. La relazione economica deve essere un’amicizia alla pari, in cui vengono tenuti fermi i valori delle società aperte e democratiche. Se ci si presenta solo per fare affari, ripetendo unicamente “Sì, ministro”, allora si rischia di perdere la faccia, e anche il rispetto dei cinesi”.
Se non fosse stato un Dalai Lama, cosa avrebbe fatto?
“Ma è impossibile! Un sogno! (ride) E’ vero però che la mia mente è molto scientifica. Anche Mao Zedong me lo aveva detto. Forse avrei fatto qualche mestiere attinente alla meccanica”.
E’ vero che ama riparare i motori?
“Certo, usando gli attrezzi e sporcandomi le mani di grasso. Quando ero giovane, però. Ora non lo faccio più”.
Come sarà scelto il prossimo Dalai Lama?
“Ci sono tre opzioni. La prima, prevede che il mio successore sarà eletto con una procedura simile a quella del Papa, scelto da un conclave di religiosi. La seconda, potrebbe essere la scelta del Dalai Lama prima della mia morte. E’ già successo. Infine, è possibile la mia reincarnazione, dopo la mia morte. In questo caso, se morirò in esilio, la mia nuova reincarnazione dovrà portare a termine quello che non ho potuto fare in questa vita. E quindi il prossimo Dalai Lama nascerà fuori dalla Cina”.
I cinesi potrebbero scegliere loro il suo successore, come già è accaduto per il Panchen Lama.
“Se fosse così non sarebbe un Dalai Lama, ma soltanto un pupazzo (ride). Speriamo non lo facciano, anche se lo temo: i nostri fratelli e sorelle cinesi sono molto furbi e amano complicare le cose (ride)”.
E lei si ricorda il momento in cui è stato riconosciuto come la quattordicesima reincarnazione del Dalai Lama?
“Avevo due anni, vivevamo in un remoto villaggio del Tibet orientale. Mia madre racconta che nei giorni precedenti all’arrivo della delegazione in cerca del nuovo Dalai Lama, ero stranamente eccitato. Poi quando i lama arrivarono, corsi verso di loro e riconobbi come miei gli oggetti del precedente Dalai Lama. E dopo due giorni, mentre andavano via, mi misi a piangere. Un comportamento molto strano: quale bambino vuole seguire degli estranei, invece che rimanere con la propria madre? (ride)”.
Non deve essere stato facile diventare improvvisamente, così piccolo, un Dio Re.
“Fortunatamente, venivo trattato come un bambino normale. Durante le cerimonie ero sul trono, ma quando giocavo con gli altri bambini ero uno di loro. Mi capitava spesso di perdere, e mi arrabbiavo parecchio. La sera, ci sedevano in cerchio a bere tè, mangiando zuppe. Mi ricordo che guardavo con invidia la ciotola degli inservienti, molto più grande della mia (ride). Noi bambini ci raccontavano storie di fantasmi, che di notte mi terrorizzavano (si copre gli occhi e ride). Ero davvero un bambino come gli altri, felice. Se io e mio fratello facevamo capricci per non studiare, il maestro ci prendeva a frustate. L’unica differenza era che il frustino per me era giallo, del colore sacro. Il dolore, però, era lo stesso! (ride)”.
Durante l’adolescenza, il suo paese è stato invaso e lei si è ritrovato a trattare con il Grande Timoniere, Mao Zedong.
“Lo incontrai nel 1954 a Pechino. Mi trattò come un figlio, mi diede consigli. Mi aveva quasi convinto ad iscrivermi al partito comunista. Ancora adesso mi considero metà buddista, metà marxista. Davvero, credo che il marxismo sia ancora la chiave di una giustizia sociale ed economica”.
Eppure nel marzo 1959 dovette scappare dal Tibet, in piena notte e a dorso di uno yak.
“Dal palazzo reale di Potala vedevo l’artiglieria cinese avanzare. Non ho scelto l’esilio, sono stato costretto. E adesso è quasi mezzo secolo che sono un homeless, un senza casa, per fortuna ho trovato tanti amici all’estero, anche in Italia (ride)”.
Ha voglia di esprimere un desiderio per il 2008?
“Spero che la Cina si aprirà al mondo, con fiducia e speranza”.
(15 dicembre 2007) http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/cronaca/summit-nobel/dalai-lama-rimpianti/dalai-lama-rimpianti.html