SIDEBAR
»
S
I
D
E
B
A
R
«
L’invasione cinese
Maggio 7th, 2013 by admin

Polizia cinese in assetto di guerra nel centro di Lhasa

Polizia cinese in assetto di guerra nel centro di Lhasa

L’invasione cinese

di Claudio Cardelli

Nel 1950 per voce del generale Zhu Deh, la Cina rese pubblica la sua decisione di “liberare” il Tibet. I cinesi forzarono le frontiere e l’esercito tibetano, armato di rudimentali fucili ad avancarica che rispecchiavano insieme alle pittoresche uniformi lo stato di arretratezza tecnologica del Paese, opposero un’eroica ma inefficace resistenza. In pochi giorni l’esercito cinese ebbe via libera e avanzò sino a Lhasa che raggiunse nell’aprile del 1951.

L’isolazionismo del Tibet, la vacuità di potere e le faide interne seguite alla morte del XIII Dalai Lama nel 1933, l’incapacità di cogliere la nuova realtà politica scaturita alla fine della seconda guerra mondiale trovarono il Paese indifeso di fronte all’aggressività della neonata Repubblica Popolare Cinese. Il giovane Dalai Lama, l’attuale, non ancora insediato si rifugiò a Yatung ai confini con il Sikkim. Ebbe inizio un balletto di disperate delegazioni inviate in India a cercare accordi, aiuti. La situazione precipitò. L’ambasciatore cinese a Delhi consigliò di inviare le delegazioni direttamente a Pechino. Lì, dopo diversi giorni di segregazione e senza possibilità di comunicazione con il governo di Lhasa, la delegazione fu obbligata a siglare con dei sigilli falsi un accordo in 17 punti: anche se, da un lato, garantiva pietosamente varie forme di autonomia al Tibet, dall’altro, ne decretava di fatto la sparizione come nazione indipendente (purtroppo dobbiamo ammettere che nella situazione attuale l’applicazione dei 17 punti, siglati peraltro anche da Pechino, sarebbe una soluzione ben accettabile per il Tibet). Il mondo occidentale, comunque, di fronte a tale prevaricazione, non alzò un dito.

Seguirono dieci anni di tormenti durante i quali i cinesi sottoposero il Tibet a tutte le angherie e vessazioni possibili. La convivenza era una vana speranza: era lo scontro tra due mondi antitetici.

Nel marzo del 1959 la tensione era al suo apice. Si era sparsa la voce che i cinesi volessero rapire il Dalai Lama. Tutta Lhasa si era riversata nel monastero principale della città, il Jokhang, per assistere agli esami religiosi del giovane Dalai Lama che dopo una ventina di anni di studi conseguiva il titolo diGeshe, dottore in teologia, dibattendo brillantemente con i più venerati e importanti maestri. Nel contempo irruppero due ufficiali cinesi che chiesero l’accettazione immediata di un invito per il Dalai Lama a uno spettacolo teatrale organizzato dal comandante supremo delle forze cinesi in Tibet. Il rifiuto fu diplomaticamente gentile; si propose una data entro i successivi dieci giorni per permettere al Dalai lama di concludere gli esami. La visita fu fissata per il 10 marzo: Sua Santità si doveva presentare solo, senza scorta armata. I sospetti divennero certezze e gli oltre 100.000 pellegrini presenti a Lhasa formarono il catalizzatore di una reazione anticinese mai vista fino ad allora. Il popolo del Tibet era deciso a proteggere il suo giovane sovrano e guida spirituale. Iniziarono piccoli tafferugli culminanti con alcuni morti davanti alla missione indiana. Ai funerali delle vittime la collera dei tibetani fu incontenibile. Il Dalai Lama annunciò che non accettava l’invito. Il fermento si trasformò in agitazione e poi in aperta rivolta.

Rinforzi armati continuarono ad arrivare a Lhasa. Verso sera gli altoparlanti cominciarono a diffondere sarcastici insulti e minacce. Poi il finimondo. Racconta un vecchio monaco in una testimonianza raccolta da Claude B. Levenson (Claude B. Levenson, Tibet: storia di una tragedia, Edizioni Lavoro 1997): “Fu un diluvio di frastuoni, ferro, proiettili, fumo,urla di terrore e odore di sangue. Il baccano si placò verso l’alba, quando su un paesaggio di morte sorse un giorno livido, del color della polvere. Dai corpi aggrovigliati salivano lamenti, rantoli, sospiri; alcuni feriti supplicavano di essere finiti. Con alcuni monaci ci eravamo messi a rivoltare tutti i cadaveri per il timore che Sua Santità fosse tra le vittime.”

Ma il Dalai Lama era in viaggio travestito da soldato e protetto da due robusti guerrieri del Kham alla volta dell’India. Per il Tibet inizia il periodo più tragico della sua storia.

Negli anni che seguirono all’occupazione cinese più di un milione di tibetani morirono in seguito alla repressione cinese e la quasi totalità dei templi e monasteri andò distrutta.

Claudio Cardelli, Presidente dell’Associazione Italia-Tibet, da oltre 30 anni impegnato per il riconoscimento dell’identità di questa terra e strenuo sostenitore della causa tibetana. Documentarista e reporter, autore di diverse pubblicazioni e documentari, fra cui il volume Tibetan Shadows, Ed. Mediane 2008.

L’esilio

di Claudio Cardelli

Il Dalai Lama trovò rifugio a Dharamsala, in India, dove vive tuttora dal 1959. Fu seguito da oltre centomila esuli – uomini, donne, anziani, bambini – che arrivavano nelle afose foreste indiane stremati dalla fatica, dagli stenti e dal freddo degli alti passi himalayani. Trovarono una accoglienza calorosa, l’antico legame di amicizia con l’India non poteva essere rinnegato, ma anche un grande imbarazzo politico. Nel tempo si insediarono in diverse località che il governo indiano assegnò loro per poter ricostruirsi un’esistenza decorosa. Furono anni durissimi. I tibetani in un primo tempo furono impiegati nella costruzione delle alte strade himalayane: senza tecnologia ma solo con le nude mani e vivevano in condizioni di estrema povertà e difficoltà. Tuttavia, col passare degli anni, grazie alla loro grande iniziativa e laboriosità, furono in grado di ricostruire, oltre a una realtà economica lavorativa di tutto rispetto, l’essenziale della loro eredità culturale. Oggi nell’India del Sud a Karnataka, troviamo gli insediamenti più importanti a livello di numero di rifugiati. A Mungod e Bylakuppe sono stati ricostruiti i grandi collegi monastici di Ganden e Sera e la microsocietà tibetana si è riunita nei suoi valori fondamentali. Anche nel Nord dell’India sono nati importanti insediamenti. Le regioni di Himachal Pradesh e Uttar Pradesh ospitano i principali centri, come anche nel remoto Ladakh ci sono campi profughi di tutto rispetto come quello di Choglamshar. A Mussorie e Dhera Dun troviamo i più importanti centri educativi religiosi e laici. Qui vengono a studiare anche i ragazzi di molte aree himalayane fuori dal Tibet: come Ladakh, Zangskar e Mustang. Da un certo punto di vista l’arrivo dei profughi assieme a quello di importanti lama e maestri ha ridato agibilità culturale a remote regioni per le quali Lhasa era terra lontana e inarrivabile.

Il Nepal ospita una cospicuo numero di rifugiati che, in particolare a Kathmandu, hanno creato un’importantissima realtà economica legata al mondo delle spedizioni e dei trekking.

Il centro che oggi è comunque considerato da tutti come la “Piccola Lhasa “, capitale politica e morale del Tibet in esilio, è Dharamsala, nell’alta valle di Kangra, sede del governo Tibetano in esilio e residenza del XIV Dalai Lama, Tenzing Gyatso.

Appare chiaro dunque che se oggi la cultura del Tibet in qualche modo è riuscita a sopravvivere al terremoto dell’occupazione cinese, lo si deve al lavoro, alla tenacia dei rifugiati, della gente comune; al loro amore per le proprie radici e la propria cultura.

Certo la presenza della cultura tibetana nel mondo di oggi non sarà mai più, anche perché non è mai stata, quella dell’ideale Shangri-la, amato e vagheggiato da un Occidente inquieto e senza riferimenti interiori. Forse spogliato delle sovrastrutture rituali e simboliche rimarrà solo l’essenza dell’insegnamento del Buddha che ha modellato nei secoli una società tanto originale quanto affascinante. Non sarà facile per un Occidente consumista e affamato di emozioni più che di valori, rinunciare alla parte esotica e suggestiva della koinè tibetana, ma per chi ci riuscirà sarà sicuramente un arricchimento verso il traguardo di una migliore consapevolezza esistenziale e, di conseguenza, di una più profonda serenità interiore.

Claudio Cardelli, Presidente dell’Associazione Italia-Tibet, da oltre 30 anni impegnato per il riconoscimento dell’identità di questa terra e strenuo sostenitore della causa tibetana. Documentarista e reporter, autore di diverse pubblicazioni e documentari, fra cui il volume Tibetan Shadows, Ed. Mediane 2008.

Il Tibet brucia, perché tutto tace?

Intervista a Carlo Buldrini

La linea del Dalai Lama ha fallito, serve altro.

Sono più di cento i tibetani che, fino a oggi, si sono bruciati vivi all’interno del Tibet per protestare contro l’occupazione militare cinese del loro Paese. «Voglio che il Dalai Lama ritorni nella sua terra e che il Tibet sia governato dai tibetani», è stata l’ultima volontà espressa da tutti questi autoimmolati.

Carlo Buldrini ci illustra le cause di questa lunga sequenza di sacrifici e il contesto politico in cui essa avviene.

Che posizione ha assunto il Dalai Lama sulle autoimmolazioni?

Nel mese di aprile dello scorso anno, durante una conferenza stampa a Taiwan, è stato molto duro. Le ha descritte come il frutto della «totalitaria, cieca e irrealistica politica cinese in Tibet». A luglio ha fatto una parziale marcia indietro, riferendo al quotidiano The Hindu che è meglio che lui resti «neutrale», perché qualsiasi cosa dicesse «verrebbe strumentalizzata dai cinesi». Penso che il Dalai Lama stia cercando di non esporsi. Primo, perché con la devolution dell’agosto 2011 ha ormai rinunciato al potere politico, trasferendolo al Sikyong (il primo ministro tibetano in esilio) al momento dell’elezione di quest’ultimo. Secondo, perché con la sua “via di mezzo”, lanciata nel 1987 con l’obiettivo di raggiungere una genuina autonomia per il Tibet rinunciando all’indipendenza, si è infilato in un cul-de-sac.

La “via di mezzo” è davvero arrivata a un punto morto?

Il Dalai Lama, intervistato dalla Bbc nel maggio scorso, ha chiarito che è stata un totale «fallimento» a causa dei cinesi, definiti in quell’occasione «stupidi, di orizzonti ristretti e autoritari». Pechino, i cui sessantatré anni di occupazione hanno portato a un milione e 200mila morti in Tibet, non è disponibile a concessioni. Tanto per capirci, per il capo del Partito comunista cinese a Lhasa, Zhang Qingli, il Dalai Lama è ancora oggi «una volpe con le vesti di un monaco» e «un diavolo con volto umano e cuore di bestia». Con queste basi il dialogo è impossibile. La riprova arriva dalle dimissioni, rassegnate nell’estate 2012, di Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen. Erano i delegati del Dalai Lama per i colloqui con la Cina sull’autonomia del Tibet, che tra il 2002 e il 2010 hanno portato a nove incontri ufficiali, tutti infruttuosi. Dimettendosi, hanno spiegato che Pechino rifiuta totalmente il Memorandum sulla genuina autonomia del Tibet, documento che si rifà alla via di mezzo e che la Central Tibetan Administration, il governo in esilio, ha messo al centro della possibile trattativa.

Ma Lobsang Sangay, il primo ministro tibetano in esilio, sposa ancora la causa autonomista.

Perché?
Lo stesso Dalai Lama non l’ha sconfessata. Dichiararla fallita non significa che non si può insistere. Il problema è che in questo momento le scelta del Sikyong di accordare priorità alla via di mezzo appare perdente. Lobsang Sangay sembra temporeggiare, in attesa che Xi Jinping, il nuovo Presidente della Repubblica popolare cinese, assuma i pieni poteri. Ma la sua è una linea poco coraggiosa. Trasmette l’idea che il Tibet possa ottenere qualcosa solo grazie alla benevolenza cinese. Che non ci sarà. La recente ondata nazionalista scatenata dall’incidente diplomatico sulle isole Senkaku, controllate dal Giappone ma rivendicate da Pechino (che le chiama Uotsori), lascia presagire che la nuova dirigenza cinese non cambierà linea politica.

Ci sono alternative alla via di mezzo?

La grande novità è l’imminente a nascita di un Tibetan National Congress, partito che agirà rifacendosi all’esperienza gandhiana dell’Indian National Congress. L’iniziativa ha tra i suoi promotori il Tibetan Youth Congress, l’organizzazione che sostiene con più vigore l’autodeterminazione e che ha dichiarato il 2013 “Anno dell’indipendenza di Tibet”. La speranza è che la formazione di questa nuova forza politica risolva l’equivoco, avallato anche da alcuni intellettuali tibetani, che la nonviolenza è la via di mezzo e che l’indipendenza è sinonimo di violenza.

Può avere successo la lotta nonviolenta?

È l’unica opzione. I tibetani, insorgendo in armi, verrebbero annientati. La lezione di Gandhi, poi, è sempre attuale. Spesso il Mahatma è scambiato per un pacifista ascetico. La sua era invece una lotta radicale, fatta di scioperi, resistenza passiva, disobbedienza civile e boicottaggi. Il tutto affiancato dalla consapevolezza che non può esserci compromesso sulle cose fondamentali e con l’obiettivo finale e irrinunciabile dell’indipendenza. La cosa incoraggiante è che in Tibet è già in atto questa lotta nonviolenta. Nel Tibet orientale, incorporato nella province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, ci sono frequenti proteste contro l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole ed è nato da poco il movimento del Lhakar Karpo (mercoledì bianco). Ogni mercoledì, giorno di nascita del Dalai Lama, i tibetani indossano gli abiti tradizionali, boicottano cibo e prodotti degli occupanti, si automultano se anche solo pronunciano, parlando tra di loro, una parola cinese. E poi c’è questo drammatico fenomeno delle autoimmolazioni. Ecco, tutto questo spiazza la Cina. La sua potenza militare è inutile, se le si contrappone la nonviolenza. Ma i tibetani hanno bisogno di una guida politica autorevole, che sappia indirizzare la nonviolenza verso un obiettivo chiaro.

In che misura le autoimmolazioni sono gesti nonviolenti?

Certo, è contraddittorio definire nonviolento il gesto del suicidio. Ma la cultura buddhista lo autorizza. In primo luogo l’autoimmolazione fa salvo il principio di non nuocere al nemico. In più i Jataka, le storie delle vite precedenti del Buddha, una delle fonti letterarie di questa fede, dicono che è lecito sacrificare la propria vita in nome di un bene superiore. L’esempio è quello del racconto in cui ilbodhisattva, colui che diverrà il Buddha in una vita successiva, si getta in un dirupo per placare la fame di una tigre che, altrimenti, sbranerebbe i propri cuccioli.

Perché la voce dell’Occidente, rispetto al problema del Tibet, è così debole?
Al di là delle ragioni dettate dai rapporti economici con la Cina, l’Occidente commette l’errore di inquadrare la questione tibetana in termini di rispetto dei diritti umani. Ci si limita a invocare il dialogo tra tibetani e cinesi, chiedendo ai secondi di non violare tali diritti. Il vero punto non sono i diritti umani, ma la sopravvivenza dei tibetani come popolo. La Cina, con l’aggressione demografica nel Tibet storico (ci sono ormai dieci milioni di cinesi Han a fronte di sei milioni di tibetani), l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole, le sterilizzazioni delle donne tibetane e altri esempi ancora di discriminazione, porta avanti un’operazione di assimilazione che solo l’indipendenza tibetana può fermare.

Ma i tibetani possono farcela da soli?

Insieme alla nonviolenza devono manifestarsi anche fattori esterni. Serve sicuramente la pressione occidentale, finora mancata. Eppure la vera “spinta” deve giungere dall’interno della Cina, attraverso l’aprirsi di crepe in quello che è un regime totalitario. L’esempio è quello dell’impero britannico, il cui declino, accelerato dalla seconda guerra mondiale, permise all’India di ottenere la libertà. Non è detto che la storia non si ripeta. La Cina vive migliaia di contraddizioni: divario tra città e campagne, forbice tra ricchi e poveri che s’allarga, proteste contro il partito e la burocrazia corrotta, bisogno di informazione. Le crepe potrebbero allargarsi.

Proclama di Sua Santità il Dalai Lama, l’ottavo giorno del primo mese dell’Anno del Bufalo d’Acqua (13 febbraio 1913).

Io, il Dalai Lama, il maggior onnisciente detentore della fede buddhista, il cui titolo fu conferito secondo gli ammaestramenti del signore Buddha della gloriosa terra dell’India, cosi mi rivolgo a voi :

Mi rivolgo a tutta la popolazione tibetana. Il signore Buddha, del glorioso paese dell’India, ha profetizzato che le reincarnazioni di Avalokithesvara, attraverso una successione di governanti a partire dai primi re della regione fino ai nostri giorni, hanno vegliato sulla prosperità del Tibet.

Dal tempo di Gengis-Khan e di Altan-Khan, dei Mongoli, della dinastia cinese dei Ming e di quella manciù dei Qing, il Tibet e la Cina hanno concordato su un rapporto di protettorato sacerdotale. Da alcuni anni, le autorità cinesi del Sichuan e dello Yunnan hanno tentato di colonizzare il nostro paese. Hanno portato un grande esercito all’interno del Tibet con la scusa di salvaguardare i traffici commerciali. A causa di ciò ho dovuto abbandonare Lhasa con i miei ministri dirigendomi verso la frontiera indo-tibetana, col proposito di chiarire all’imperatore Manciù per telegrafo che le relazioni tra Tibet e Cina sono quelle di un sacerdote e del suo protettore e che non sono fondate sulla subordinazione del primo verso il secondo.

Non c’è altra scelta per me che varcare la frontiera, perché le truppe cinesi mi inseguono con l’ordine di catturarmi vivo o morto. Arrivato in India, ho inviato diversi telegrammi all’imperatore, ma la sua risposta alle mie domande è stata ritardata a Pechino da funzionari corrotti. Nel frattempo, l’impero Manciù si è dissolto. I Tibetani hanno trovato il coraggio di espellere i Cinesi dal Tibet Centrale. Così io stesso ho fatto ritorno incolume al mio paese legittimo e sacro, ed ora mi accingo a scacciare il resto dell’esercito cinese dal Do Kham al Tibet orientale. Così, l’intenzione cinese di colonizzare il Tibet, con la scusa del protettorato sacerdotale, è svanita come un arcobaleno nel cielo.

Avendo ancora la speranza per noi in un’epoca di felicità e di pace, affido d’ora innanzi a ciascuno di voi i seguenti doveri da compiere senza alcuna negligenza :

1. Pace e felicità nel mondo non possono essere mantenuti se non salvaguardando il Buddhismo. Pertanto è essenziale salvaguardare tutte le istituzioni buddhiste del Tibet, come i santuari di Jokhang e di Ramoche, Samye e Tradoug del Tibet meridionale.

2. Le diverse Scuole buddhiste del Tibet devono essere custodite nelle loro forme più pure e caratteristiche. Bisogna insegnare, imparare e meditare il Buddhismo in modo adeguato. Con l’eccezione di alcune persone a ciò preposte, l’amministrazione dei monasteri è preclusa ai commerci, ai prestiti di denaro, da ogni affare connesso al Cheptel o all’assoggettamento delle persone.

3. All’atto della riscossione delle imposte o quando trattano con i cittadini, i funzionari civili e militari del governo tibetano devono svolgere il loro compito in modo equo e onesto, a favore del Governo, ma senza nuocere agli interessi dei cittadini. Alcuni funzionari del Governo nella sede di Ngari Korsoum nel Tibet Occidentale, e di Do Kgham nel Tibet Orientale, costringono i sudditi a comprare la merce ad un prezzo superiore ed hanno imposto delle tasse di trasporto eccedenti il limite indicato dal Governo. Case, proprietà e terre appartenenti ai sudditi sono state confiscate con la scusa di imposte non pagate al Governo. Si vietano le punizioni fisiche, come l’amputazione di membra. Da qui in avanti simili castighi sono proibiti.

4. Il Tibet è un paese ricco di risorse naturali, ma non è progredito scientificamente come altri. Noi siamo una piccola nazione religiosa e indipendente. Per restare in vita, dobbiamo difendere il nostro paese. Circa le recenti invasioni straniere, il nostro popolo può dover far fronte a certe difficoltà che comunque non deve temere. Al fine di salvaguardare e conservare l’indipendenza del nostro paese, ognuno di noi deve impegnarsi duramente. I nostri sudditi residenti nei pressi delle frontiere devono stare in allerta e tenere informato il Governo di ogni attività sospetta mediante messaggi speciali. I nostri sudditi non devono però creare problemi maggiori a causa di incidenti di piccola entità.

  1. Sebbene scarsamente popolato, Il Tibet è un grande paese. Certi funzionari e proprietari fondiari creano egoisticamente problemi a quelli che sono desiderosi di sviluppare le terre incolte, e inoltre non si adoperano in questo senso neanche nelle loro terre. Costoro sono nemici dello Stato e delle nostre direttive. A partire da ora nessuno deve arrogarsi il diritto di ostacolare chi voglia coltivare dei terreni incolti. Le imposte fondiarie verranno riscosse non prima di tre anni e poi annualmente saranno pagate dal coltivatore al governo e al proprietario del fondo, in proporzione con l’affitto del fondo. La terra apparterrà al coltivatore. I vostri doveri verso il Governo e il popolo saranno compiuti quando avrete eseguito tutto ciò che ho detto qui. Questo proclama deve essere affisso e gridato in ogni Distretto del Tibet, ed una copia deve essere conservata nell’Ufficio del Registro di ogni Distretto.

    Carlo Buldrini, scrittore, giornalista, ha vissuto in India 30 anni, proprio durante il primo esodo di tibetani rifugiatisi in India. Ha scritto per diverse testate italiane e indiane ed è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura di Delhi. È autore di In India e dintorni (1999) e di Nel segno di Kali (2008). L’altro suo libro, Lontano dal Tibet (2006), è stato pubblicato in India come A Long Way from Tibet ed è entrato subito nella lista dei best seller indiani.


Comments are closed

»  Substance:WordPress   »  Style:Ahren Ahimsa