Lhasa il Barkhor e sullo sfondo il gran Potala
Lhasa, Tibet, Cina
di Carlo Buldrini
Un furgone percorre a passo d’uomo Beijing Donglu, via Pechino Est, il tratto orientale della strada che attraversa tutta la città.
Legata attorno al furgone c’è una larga fascia di stoffa rossa, con dei caratteri cinesi dipinti a mano. Fuori dal finestrino di guida sventola una bandiera rossa a cinque stelle. Da un altoparlante escono, frusciando, le note di una marcia militare. Si alternano alla voce stridula di una donna che grida: «Il lancio di ordigni esplosivi, le violenze, i sabotaggi, i furti, saranno puniti severamente».
Severamente vuol dire qui con la pena di morte.
Dietro al furgone avanza lentamente un camion militare Dong Feng. È color verde oliva e ha il muso schiacciato, come quello di un bulldog. In piedi, sul camion, ci sono sei tibetani in catene. Li sorvegliano alcuni uomini della People’s Armed Police, la Polizia del Popolo Armata. I poliziotti, giovanissimi, hanno i lineamenti tesi e imbracciano i fucili mitragliatori. Il Comitato del Partito Comunista dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Lhasa ha lanciato in questi giorni una campagna contro il crimine. La campagna è chiamata «Colpisci duro».
Il capo della polizia di Lhasa, Luobu Dunzhu (Norbu Dhondup), in un articolo pubblicato sul «Xizang Ribao» («Quotidiano del Tibet»), ha scritto che il «giro di vite ha per obiettivo il mantenimento della stabilità politica e della pace sociale». Norbu ha detto che «atti di sabotaggio si verificano ormai non solo nelle città ma anche nelle campagne. Le attività dei gruppi separatisti si stanno intensificando».
La maggior parte dei negozi di Beijing Donglu è in mano ai cinesi.
Manichini impettiti, con i capelli biondi e lo sguardo di plastica, indossano giacche da uomo Shingbaolu. C’è un negozio di scarpe marca Ya Shi Nan. Nel negozio successivo sono in vendita borsette, gilet da donna e minigonne. Tutto in cuoio nero. Le commesse portano ai piedi zatteroni alti quindici centimetri.
C’è un negozio di cosmetici. Vende anche reggiseni. Le commesse hanno i capelli ramati.
C’è un negozio di divise militari. Due cinesi stanno caricando in un risciò parcheggiato sul marciapiede una trentina di cappelli con la stella rossa sopra la visiera.
C’è un negozio di articoli kitsch. Vende piccoli mulini a vento chiusi sotto delle campane di vetro. Nella vetrina sono esposti anche orologi a pendolo di plastica, a forma di animale. Una civetta nera con la coda che oscilla e gli occhi che si muovono, Cani. Gatti. Un coniglio con una carota che gli dondola sotto il naso.
C’è un porno-shop. Bambole gonfiabili con i capezzoli rossi. Preservativi borchiati. Mutandine da donna rosse e nere sono appese alla parete su un cartoncino bianco cellofanato. Sembrano piccoli aquiloni. I clienti del negozio sono una coppia di giovani cinesi. Lei è china a guardare i preservativi esposti in una vetrina sotto il bancone.
Il furgone con la fascia rossa e il camion militare hanno ormai percorso buona parte di Beijing Donglu.
I negozi cinesi lasciano adesso il posto a piccoli ristoranti tibetani.
Nella minuscola vetrina di una bettola c’è una ciotola d’alluminio piena di momo cotti al vapore. Si intravede anche un vasetto con dentro dei semi di zucca abbrustoliti.
Sul marciapiede, un vecchio tibetano vende dei poster colorati. In alcuni è raffigurato il Potala, l’ex residenza del Dalai Lama. In altri, degli chalet alpini, con delle mucche pezzate in primo piano.
Il furgone con la fascia rossa e l’altoparlante arriva all’altezza del marciapiede dove il vecchio vende i suoi poster colorati.
All’improvviso, da una strada laterale, sbuca un giovane tibetano. Ha i capelli lunghi, raccolti a crocchia dietro alla nuca.
Il giovane alza il pugno destro verso il cielo. Grida: «Tibet indipendente», «Viva Sua Santità il Dalai Lama», «Cinesi, fuori dal Tibet».
Il furgone sembra non accorgersi di nulla. Prosegue la sua corsa.
Il camion militare invece si ferma. Qualcuno si sporge dal finestrino. Si guarda attorno.
Anche i passanti, tutti tibetani in questa zona della città, si fermano. Restano immobili, senza fiatare. Guardano gli uomini della People’s Armed Police con i fucili mitragliatori spianati.
Ma del giovane tibetano si sono perse le tracce.
Ancora pochi istanti e il camion Dong Feng color verde oliva si mette di nuovo in movimento. Accelera, per potersi ricongiungere al furgone infiocchettato che lo ha distanziato di quasi quaranta metri.
(Tratto da: Carlo Buldrini, Lontano dal Tibet. Storie da una nazione in esilio, Lindau 2008, seconda edizione; autorizzazione dell’Autore)
Carlo Buldrini, scrittore, giornalista, ha vissuto in India 30 anni, proprio durante il primo esodo di tibetani rifugiatisi in India. Ha scritto per diverse testate italiane e indiane ed è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura di Delhi. È autore di In India e dintorni (1999) e di Nel segno di Kali (2008). L’altro suo libro, Lontano dal Tibet (2006), è stato pubblicato in India come A Long Way from Tibet ed è entrato subito nella lista dei best seller indiani.