I nomadi pastori e i contadini sono costretti ad abbandonare pascoli e terreni curati da millenni. I villaggi più antichi vengono abbattuti per fare posto a stazioni turistiche prodotte in serie. Centinaia di monasteri cadono in rovina e i religiosi sono concentrati altrove, in scuole di rieducazione ideologica.
Resort sul tetto del mondo
La nuova frontiera del turismo di massa si sposta sulle vette himalaiane. E l’ultimo paradiso rischia di diventare un deserto.
di Giampaolo Visetti. La Repubblica
Gli altopiani dell’Himalaya sono esempi di natura al grado massimo della bellezza. Non appena la quota seleziona la presenza degli uomini, tutto esibisce l’essenzialità perfetta del proprio ruolo. Rocce, animali, pascoli, neve e vento contribuiscono all’equilibrio della regione montuosa più elevata della terra, decisiva per la vita dell’Asia. Se si interrompe la stabilità dell’ambiente tra Tibet e Nepal, Cina e India vedono in pericolo la propria sopravvivenza. La meraviglia dei luoghi spinge governi e imprese a vagheggiare enormi affari. Consumati gli spazi più vicini alle nazioni sviluppate, le multinazionali del turismo sono ora impegnate nella conquista delle destinazioni estreme. Sul versante cinese, Pechino stanzia fondi miliardari per lanciare il turismo internazionale di massa. Convinta che i soldi siano il più formidabile strumento di conquista culturale, finanzia alberghi di lusso, aeroporti, ferrovie e centri commerciali. I monasteri buddhisti vengono trasformati in musei e presto, alla periferia di Lhasa, sarà inaugurato un parco dei divertimenti che dovrebbe descrivere alle comitive organizzate, la storia delle popolazioni in montagna. L’obbiettivo è chiaro: fare dell’Himalaya il resort più redditizio del pianeta, sfruttando anche il cambiamento del clima. Gli inverni sono sempre più miti e pur concedendo scarsa neve offrono l’opportunità di ricorrere alle riserve d’acqua per l’innevamento artificiale. Grandi gruppi, cinesi e stranieri, sono decisi a lanciare le montagne più alte del mondo come mèta ideale per i trekking estivi di massa, ma pure come il paradiso dello sci tutto l’anno: entro pochi anni, le regioni asiatiche del grande alpinismo e della storia delle esplorazioni in Oriente appariranno come le confortevoli tappe di un qualsiasi viaggio organizzato. Nell’800 è successo anche sull’arco alpino e nemmeno gli atolli oceanici a cavallo dell’equatore si sono sottratti allo sfruttamento turistico. L’industria turistica non è un danno in sé: sono gli eccessi, lo sfruttamento fuori controllo e la speculazione privata, a sconvolgere e consumare le più importanti risorse naturali. L’impatto di quanto sta accadendo in Himalaya è senza precedenti. In Europa le Alpi, pur essendo ridotte allo stremo della sostenibilità, hanno conservato popolazione, tradizioni, sistemi di vita e i segni della propria fede. Lo spopolamento resta drammatico. Esistono però regioni che dimostrano che in montagna una buona vita è ancora possibile. Gli alpeggi ritrovano una funzione per il bestiame, i masi alti sono il presidio dei pascoli, i fondovalle tornano a essere il caposaldo di un’agricoltura capace di innescare azioni che contribuiscono a preservare elementi indispensabili per l’ecosistema. È tutto questo a convincere milioni di persone a lasciare le città per trascorrere il tempo libero tra le montagne. Senza la popolazione locale, senza l’agricoltura tradizionale e dunque senza una natura armonica e intatta, nemmeno la più sofisticata promozione turistica riuscirebbe a portare qualcuno in alta quota. Chi ha avuto la saggezza di porre un limite allo sfruttamento dell’ambiente e all’espulsione della gente dalla montagna, raccoglie oggi il frutto della propria responsabilità. In Himalaya questa lezione non è stata appresa e la sua cinesizzazione è una tragedia ignorata. I nomadi pastori e i contadini sono costretti ad abbandonare pascoli e terreni curati da millenni. I villaggi più antichi vengono abbattuti per fare posto a stazioni turistiche prodotte in serie. Centinaia di monasteri cadono in rovina e i religiosi sono concentrati altrove, in scuole di rieducazione ideologica. Le vie e i campi base si trasformano in centri commerciali impegnati a vendere l’illusione di un’emozione. Tutto risponde all’imperativo della fretta, signora assoluta di un turismo industriale che non prevede passione né interesse. Non c’è tempo nemmeno per acclimatarsi e i tour operators con il biglietto aereo forniscono la bomboletta dell’ossigeno. Salvare la vita sull’Himalaya dovrebbe essere una priorità nell’agenda politica internazionale. Invece un altro pezzo di mondo viene condannato a diventare un deserto. http://d.repubblica.it/dmemory/2012/09/22/rubriche/rubriche/082vis80982.html