Una ricerca dell'Università del Nordest proverebbe che buona parte delle ribellioni nei conventi buddisti non sarebbe contro il colonialismo cinese, ma contro la condanna di migliaia di adolescenti a vivere in una condizione di "clausura medievale".
Piccole storie (non solo) cinesi. Shopping rieducativo.
Il piano di Pechino per “cinesizzare” i buddisti dei monasteri ribelli: profumi, tecnologia, turismo e alta moda.
di Giampaolo Visetti. D Repubblica 04.08.12
Dove non arriva l’esercito, arriva lo shopping. Contro i tibetani fedeli al Dalai Lama, Pechino cambia arma. L’ultima è il centro commerciale di lusso. La capitale cinese scoppia di alta moda e la repressione ha scoperto che sui monaci buddisti, isolati da bambini nei conventi himalayani, può esercitare un richiamo irresistibile. Per “rieducarli”, invece che rinchiuderli nelle scuole del partito, il potere opta così per offrire vacanze da vip. Una trentina di suore e cinquanta religiosi, scelti nei monasteri ribelli di Gansu, Qinghai e Yunnan, sono stati ospiti dei leader comunisti che hanno organizzato i primi “corsi di aggiornamento buddhista”. Lezioni di socialismo e di nazionalismo ridotte al minimo. La comitiva dei “dissidenti” è stata guidata dai funzionari a fare acquisti nelle boutique, al ristorante, o a fotografare i luoghi turistici più famosi. Una “full immersion” nel successo del capitalismo autoritario di Stato. La sfilata nei reparti di elettonica e nei negozi di borsette, documentata dal Quotidiano del Popolo, ha sconvolto i giovani con la testa rasata e la tunica rossa. Quasi tutti provenivano da zone remote del Tibet storico, che non avevano mai lasciato. Molti non erano informati sull’esistenza di ascensori, scale mobili, aria condizionata, telefoni portatili e computer. È stata una bella festa. Monaci e suore hanno trascorso ore su e giù, lasciandosi trasportare dal miracolo di un tasto appena sfiorato. Un novizio ha chiesto come sia possibile trasportare il vento ghiacciato dell’Himalaya fin dentro una scatola che la spara tra scarpe e boccette di profumo. I finanziamenti di Pechino, decisa a cinesizzare il Tibet, stanno portando elettricità, acqua e strade anche nelle valli più sperdute. I religiosi, a spese del partito, sono stati così invitati a sostituire le loro divinità con i nostri consumi, operazione abbondantemente conclusa dai rivoluzionari di Mao. “Rieducati” a colpi di carta di credito, i monaci hanno fatto il pieno di cellulari, vestiti, televisioni e, secondo la propaganda, “non la finivano di provare tutti i gusti di gelato”. I funzionari comunisti hanno osservato che “assaporare la vita vera della nuova Cina può aiutare i tibetani a recuperare la loro identità e a capire quali sono le loro responsabilità patriotiche”. La stampa di Stato si è spinta fino a mettere in dubbio la vocazione dei religiosi: un’imposizione famigliare che sarebbe “fonte di instabilità nei monasteri e nella nazione”. Una ricerca dell’Università del Nordest proverebbe che buona parte delle ribellioni nei conventi buddisti non sarebbe contro il colonialismo cinese, ma contro la condanna di migliaia di adolescenti a vivere in una condizione di “clausura medievale”. Dawa Tsering, monaco di Samye e capo comitiva a Pechino, ha spiegato che la maggioranza dei confratelli avrebbero un’istruzione limitata, alcuni sarebbero analfabeti, mentre altri sarebbero costretti ad abbandonare gli studi per lavorare nei conventi. Un’emarginazione che colpirebbe in particolare le suore, vendute come serve ai monasteri ancora bambine. La tivù cinese le ha mostrate, rapate e avvolte nelle semplici tuniche, mentre non riuscivano a esprimersi in mandarino con le commesse eleganti e sui tacchi a spillo. Qualcuna trasecolava per il sapore ignoto di una caramella, una ha chiesto se la biro possa realmente sostituire il pennello, un’altra non credeva che quella fatta scorrere su uno schermo fosse una rappresentazione del mondo e che il mare, abbandonato l’Himalaya, esistesse ancora, nascosto più in basso. Assistere a questa messinscena del regime ha fatto riflettere molti cinesi. Il tentativo di ridurre l’ascetismo buddhista a una prova di sottosviluppo, la fede a una condanna, il ritiro a una segregazione e l’innocenza a ignoranza, è parsa un’ammissione di debolezza anche ai sostenitori della leadership di Pechino. La propaganda ha assicurato però che i risultati dello “shopping rieducativo” sono stati prodigiosi. In mille, tra monaci e suore, avrebbero firmato il primo documento contro il Dalai Lama, inneggiante a Gyalten Norbu, il Panchem Lama nominato dal partito. Può essere che, rapiti dall’iPhone proletario, non l’abbiano letto. Nella capitale, per gli occhi accesi di sorpresa dei fanciulli strappati alle montagne, si è notata della nostalgia.
http://d.repubblica.it/dmemory/2012/08/04/rubriche/rubriche/028cin80328.html