LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE NON DEVE PERDERE L’OCCASIONE DELLE OLIMPIADI DI PECHINO PER AIUTARE IL TIBET NELLA SUA LOTTA PER L’AUTONOMIA
Repressione e violenza: l’unico linguaggio di Pechino
Anthony M. Quattrone …
L’attuale violenta repressione cinese nei confronti delle proteste del popolo tibetano contro l’occupazione cinese del Tibet non è un fatto nuovo. Il 10 marzo 1959, quando i tibetani insorsero contro l’occupazione cinese, iniziata il 7 ottobre del 1950, l’Esercito di Liberazione Popolare di Mao soppresse nel sangue la rivolta, e, dopo solo tredici giorni d’interventi armati, impose un governo militare al paese. Nel frattempo, il 17 marzo 1959, il Dalai Lama, seguito da circa 80 mila tibetani, prese la via dell’esilio in India, fraternamente accolto dal primo ministro indiano, Jawaharlal Nehru. Fra la rivolta del 1959 e la fine della cosiddetta “Rivoluzione Culturale”, che Mao ufficialmente dichiarava conclusa nel 1969, ma che, di fatto, finì solo nel 1976, con l’estromissione della “banda dei quattro” dalla direzione del partito comunista cinese, sono stati uccisi circa un milione di tibetani, distrutti il 90 percento dei monasteri e furono messi al bando le tradizioni religiose tibetane.
Solo dopo la morte di Mao nel 1976, Pechino ammise che in Tibet erano stati compiuti “alcuni errori”, che furono addebitati alla sinistra estrema del partito, ed in particolare alla “banda dei quattro”. Dopo un breve periodo, fra il 1979 e la metà degli anni ’80, in cui Den Xiaoping aveva fatto delle aperture verso il mondo esterno, e favorì alcune liberalizzazioni nei confronti della pratica religiosa in Tibet, la Cina è tornata all’uso della violenza per sopprimere la protesta tibetana. Nel settembre 1987 e nel marzo 1988, le proteste tibetane anticiparono la grossa mobilitazione del 5 marzo 1989, quando oltre 10 mila tibetani parteciparono nelle dimostrazioni contro i governanti cinesi a Lhasa. Il 7 marzo 1989, l’esercito rosso occupò la città, imponendo la legge marziale ed il coprifuoco, espellendo tutti gli stranieri, i diplomatici, e i giornalisti, e arrestando oltre 400 tibetani. Non si sa quanti tibetani persero la vita durante la brutale repressione, guidata dall’attuale presidente cinese, Hu Jintao, che nel 1989 era il segretario del Partito comunista cinese della regione autonoma del Tibet. Le proteste tibetane del marzo 1989 anticiparono di qualche mese quelle degli studenti di Pechino, che culminarono nella strage degli studenti cinesi a Piazza Tiananmen da parte delle autorità comuniste nel giugno 1989. In breve, ad ogni protesta tibetana, o anche degli stessi cinesi, la risposta dei comunisti di Pechino è stata sempre l’uso indiscriminato della forza, quella più bruta, fatta di carri armati, fucili, baionette, sangue, e, nella migliore delle ipotesi, dalla “riabilitazione” in carcere.
I giornali mondiali hanno recentemente messo in risalto l’insistenza di Sua Santità il 14mo Dalai Lama sulla necessità di evitare di rispondere all’oppressione cinese con la violenza, e di seguire la via della lotta non violenta, del Satyagraha. Il Dalai Lama, consapevole dell’impazienza dei giovani tibetani, che non hanno mai ricevuto alcun segnale positivo da Pechino, ma solo risposte di totale e intransigente chiusura, ha richiamato più volte i tibetani al rispetto dei cinesi, all’applicazione delle regole buddiste dell’amorevole gentilezza e della compassione, e ha anche minacciato di abbandonare il suo ruolo di guida politica dei tibetani in caso che la violenza dovesse prendere il sopravvento nella lotta contro l’oppressione cinese.
Il Dalai Lama ha anche scelto una via “di mezzo”, seguendo la tradizione buddista, di compromesso, in cui non chiede più l’indipendenza del Tibet dalla Cina, bensì una reale e significativa autonomia, che permetta ai tibetani di salvaguardare l’identità nazionale, la lingua, le tradizioni, la cultura, e la loro religione, rimanendo all’interno della Cina popolare. Durante una visita di una delegazione del Consiglio Regionale del Trentino Alto Adige a Dharamsala nel marzo 2005, il Dalai Lama ha anche auspicato pubblicamente che la Cina prendesse in considerazione di adottare per il Tibet un modello di autonomia come quello del Trentino Alto Adige.
Durante gli insegnamenti che Sua Santità il 14° Dalai Lama ha tenuto a Dharamsala dal 22 febbraio al 1 marzo 2008, un gruppo di italiani, guidati dal dott. Luciano Villa e da Graziella Romania del Centro Studi Tibetani Sangye Cioeling di Sondrio (www.sangye.it), è stato ricevuto dal capo del governo tibetano in esilio, il professore Samdhong Rinpoche, e ha potuto porgli alcune domande, che oggi, alla luce di quanto sta succedendo in Tibet, sono di grande attualità.
Samdhong Rinpoche è il primo capo del governo tibetano in esilio eletto direttamente e democraticamente, nel settembre del 2001, dagli oltre 100 mila tibetani che vivono nella diaspora. E’ un accademico, un filosofo, e un monaco buddista pienamente ordinato. Il 27 febbraio 2008, Samdhong Rinpoche ha ricevuto la delegazione italiana negli uffici del Kashag, il governo tibetano in esilio, a Gangchen Kyishong, una frazione di Dharamsala. Dopo la presentazione delle “khata” da parte dei partecipanti, e i ringraziamenti, Samdhong Rinpoche ha candidamente risposto alle domande dei presenti a riguardo dei Giochi Olimpici, del Satyagraha, e della situazione attuale in Tibet.
D. Quale è il sentimento tibetano rispetto ai Giochi Olimpici che si svolgeranno a Pechino quest’anno?
R. I Giochi Olimpici sono un’attività internazionale che hanno alla loro base la pace, la felicità, la fratellanza, e la gioia. Sua Santità il 14mo Dalai Lama ha dato il suo appoggio all’assegnazione dei Giochi a Pechino e spera nel successo del loro svolgimento. Per il Dalai Lama, la Cina merita l’assegnazione dei Giochi perchè è un grande paese che ha fatto grandi passi in avanti verso la modernità. Ci auguriamo che i Giochi saranno un successo sia per gli atleti, sia per il paese che li ospita. Ovviamente, c’è anche la speranza che con i giochi la Cina si aprirà e sia più rispettosa dei diritti umani.
L’assegnazione dei Giochi Olimpici alla Cina diventerebbero controproducenti se non ci saranno delle aperture per quanto riguarda la libertà e i diritti civili. Mentre comprendiamo che la Cina, poiché governato da un regime dittatoriale, limiti la libertà di parola, siamo preoccupati che alcuni paesi europei hanno messo delle limitazioni al diritto di parola dei propri atleti. Ci risulta che alcuni Comitati Olimpici europei hanno fatto sottoscrivere ai propri atleti l’impegno a non fare dichiarazioni politiche durante le Olimpiadi. Sembrerebbe che alcuni paesi europei stiano creando un clima di compiacenza nei confronti delle autorità di Pechino.
L’occasione dei Giochi Olimpici permette alla comunità internazionale di chiedere, in modo cortese e garbato, ai governanti cinesi di essere più aperti e di concedere più libertà. Se la comunità internazionale perde quest’occasione, e se la repressione in Cina diventa addirittura più forte, allora l’assegnazione dei Giochi Olimpici ai cinesi diventerà veramente un evento controproducente.
D. Quali sono i rapporti attuali fra il governo tibetano in esilio e i dirigenti di Pechino?
R. Il dialogo con la Cina è ripartito nel 2002, e abbiamo avuto fino ad ora sei incontri, in cui, attraverso un dialogo sincero e intimo, abbiamo tentato di ridurre sospetti e dubbi. I nostri emissari hanno tentato di convincere i cinesi a proposito dei nostri più sinceri desideri e le nostre aspirazioni. Abbiamo ribadito che non vogliamo la separazione del Tibet dalla Cina, ma vogliamo che venga applicata in modo integrale la costituzione cinese, che permetterebbe una autonomia significativa e reale per il Tibet. In breve, non chiediamo ai cinesi di cambiare nulla nelle leggi o nella costituzione, o anche nella politica generale cinese, chiediamo solo che quanto è scritto nella costituzione cinese sia finalmente implementato, permettendo ai tibetani di difendere la loro cultura, le loro tradizioni, la loro lingua, la loro religione, e il loro modo di vivere.
Ovviamente, c’è bisogno di una volontà politica da parte dei cinesi per far sì che questo possa avvenire, e in Cina, è risaputo, che le forze del cambiamento operano con grande lentezza.
D. Il metodo della non violenza, il Satyagraha, sembra essere una procedura che richiede molto tempo. Davanti alla lentezza cinese, ed il tentativo da parte delle autorità di Pechino di distruggere l’identità nazionale dei tibetani, si può aspettare i tempi del Satyagraha?
R. E’ vero . Il metodo della non violenza, del Satyagraha, ha bisogno di tempo. I tibetani devono avere pazienza perchè la vittoria della verità ha bisogno dei suoi tempi, che sono dei tempi naturali. Ci vogliono 50 anni per far crescere pienamente un albero nei boschi che troverete su queste montagne. Cinquanta anni dal momento in cui il seme è stato piantato. Non ci sono scorciatoie. Certo, se invece di un albero naturale, che prende i suoi 50 anni per svilupparsi pienamente, uno vuole un albero artificiale, si può fare prima andando a comprarlo, ma l’albero sarà sempre artificiale, con tutto quello che comporta. Noi tibetani abbiamo bisogno di una vera libertà sostenibile, non di una libertà artificiale. Ottenere la vera libertà richiede tempo.
Il metodo della non violenza permette di arrivare ad una situazione “win-win” dove tutti vincono. Noi non vogliamo pensare ai cinesi come avversari da demonizzare e da sconfiggere. Il metodo del Satyagraha permette non solo che la verità possa emergere, ma che tutti possano essere vincenti. Solo in questo modo, quando si arriverà alla verità e la vittoria sarà condivisa, la libertà può diventare sostenibile e duratura nel tempo.
D. Com’è la situazione in Tibet in questo momento? (27 febbraio 2008, ndr)
R. Siamo preoccupati e ansiosi per la situazione in Tibet e per le notizie che riceviamo. Abbiamo segnali che la repressione e le restrizioni nei confronti della popolazione tibetana sono in aumento. Pensiamo che le autorità di Pechino siano molto preoccupate che possa succedere qualcosa prima delle Olimpiadi, e cercano, attraverso la repressione e maggiori controlli, di impedire che succeda qualcosa che li metta in imbarazzo. Siamo speranzosi che dopo le Olimpiadi, le autorità di Pechino allentino un po’ la morsa sul Tibet, ma, per il momento, siamo molto preoccupati.
Le risposte di Samdhong Rinpoche confermano la posizione delle autorità tibetane in esilio rispetto alla Satyagraha e alla via di mezzo, dell’autonomia invece dell’indipendenza, scelta dal Dalai Lama. Tuttavia, la politica del Satyagraha rischia, di perdere tutta la sua forza propositiva e l’energia che proviene dalla verità e dall’alto valore morale della lotta non violenta, se la comunità internazionale non sostiene la lotta tibetana incalzando i cinesi, premendoli, gentilmente, ma fermamente, a rispettare i diritti umani. I paesi occidentali, che oggi sono testimoni della brutalità della repressione cinese di queste ultime settimane, non possono continuare a chiudere gli occhi davanti alla realtà cinese, e a negare, di fatto, la legittimità del Dalai Lama come capo del popolo tibetano, come purtroppo invece ha fatto lo scorso dicembre il signor Romano Prodi, il dimissionario capo del governo italiano, quando non lo ha ricevuto a Roma, adducendo il mancato incontro a fumose e pretestuose “ragioni di stato”. Il premier inglese, Gordon Brown, ha dato un eccellente esempio il19 marzo di cosa deve fare la comunità internazionale, quando ha dichiarato che incontrerà il Dalai Lama nel suo prossimo viaggio in Gran Bretagna, programmato a maggio.
Se si crede nella giustezza del Satyagraha, se non si vuole essere accusati di “sciacquarsi la bocca” con la non violenza di circostanza, allora è necessario appoggiare apertamente chi ha scelto metodi gandhiani per lottare per i propri diritti. Se si sceglie, come ha fatto Prodi, il silenzio e s’ignora la lotta non violenta dei tibetani, si finisce per rafforzare la repressione cinese, e forse si crea anche l’humus per la crescita di una risposta violenta da parte dei tibetani. Il Dalai Lama chiede l’appoggio della comunità internazionale per il Satyagraha, anche per evitare che il suo popolo scelga la violenza.
La comunità internazionale può fare molto durante l’anno delle Olimpiadi di Pechino. Perdere quest’occasione per aiutare la Cina a fare dei passi in avanti verso il rispetto dei diritti civili dei tibetani, delle altre minoranze in Cina, e degli stessi cinesi, può portare ad un periodo buio e pericoloso. Il monito di Adriano Sofri su “La Repubblica” del 19 marzo riassume in due frasi la gravità della situazione che si presenta alla comunità internazionale e agli amanti della libertà: “Oggi, reagire francamente alla violazione cinese dei diritti umani, e disporsi a pagarne un prezzo, chiede coraggio. Già domani, il coraggio non basterà più.” E’ un monito che crea brividi, e che da ancora più significato allo slogan scandito durate la manifestazione non partisan indetta da Radio Radicale e da “Il Riformista” lo scorso 19 marzo a Roma: “Siamo tutti tibetani”.