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Nuove voci tibetane
Luglio 12th, 2012 by admin

Soldati e polizia cinese in Tibet

Soldati e polizia cinese in Tibet

La repressione di Pechino dopo le proteste del 2008, scrive Brice Pedroletti su “Le Monde”, ha fatto emergere un’élite intellettuale che si batte per l’indipendenza

Jamyang Kyi ha smesso di cantare. La celebre cantante, presentatrice TV e scrittrice tibetana non è più dell’animo giusto. Il ristorante tibetano dove la incontriamo è arrampicato in un grattacielo residenziale di Xining, il capoluogo della provincia del Qunghai. Si può abbracciare in un colpo d’occhio il paesaggio urbano di questa megalopoli cinese del grande ovest. Xining è al confine con il Tibet, il grande altopiano che Pechino ha suddiviso in zone indipendenti. Di autonomo in realtà non c’è che il nome: regione autonoma tibetana per il Tibet e prefetture autonome tibetane per le regioni delle province limitrofe, cioè Sichuan, Qinghai, Gansu e Yunnan.

Jamyang Kyi, che lavora a Xining per la tv locale tibetana, racconta che a febbraio, il giorno della festa del losar, il capodanno tibetano, le è arrivata una chiamata della polizia di Gansu. “Volevano venire a parlare a casa mia, ma ho rifiutato. Ho proposto di vederci in un caffè insieme a mia figlia maggiore, che parla bene cinese”, spiega.

L’incontro è teso. I poliziotti le fanno vedere una lunga lista di nomi e le chiedono quali sono le sue relazioni con quelle persone. Sono tutti intellettuali tibetani. Molti di loro sono stati arrestati.

Le prendono le impronte digitali. Il poliziotto le chiede se è già stata arrestata: “Lo sapevano benissimo, sono stata arrestata per aver mandato un sms”. Era il 2008, l’anno della sollevazione generale nelle regioni tibetane. All’epoca aveva descritto nel suo blog i tredici giorni passati in isolamento guardata a vista, le molte ore di interrogatorio su un 2banco di tigre” – una sedia che costringe la persona interrogata in una posizione dolorosissima – per aver ritrasmesso delle informazioni sulle manifestazioni.

La repressione causata dalla rivolta del 2008 ha provocato un nuovo ciclo di proteste: stavolta i monaci, giovani e vecchi, hanno cominciato a darsi fuoco. Dal 2009 ad oggi ne sono morti 37. Questi gesti estremi sono riusciti a saldare la società tibetana intorno a un nuovo senso di solidarietà. La mobilitazione degli intellettuali di alcuni esponenti di spicco del mondo culturale è una dimensione meno conosciuta della rivolta, ma sempre più importante.

Secondo il rapporto 2011 di Tchrd, una ong in difesa dei diritti tibetani con sede fuori della Cina, dal 2008, circa settanta tra autori, giornalisti e cantanti sono stati arrestati e molti di loro condannati.

I tibetani, incessantemente etichettati dalla propaganda come “pericolosi”, “terroristi” e “parassiti”, hanno deciso di combattere l’aperta ostilità della società cinese. Jamyang Kyi, che ha scritto due opere sulla condizione delle donne in Tibet, fa parte di un’élite intellettuale cosiddetta modernista, ovvero contraria alla tentazione di una reazione comunitaria e religiosa: “Abbiamo cominciato a riflettere sulla nostra cultura negli anni ’90 e abbiamo assimilato i valori universali. E’ normale chiedere uguaglianza, libertà e democrazia. Ma, dal 2008, la polizia pensa che il popolo protesti seguendo le indicazioni delle élites. Si mettono a sfogliare i libri che abbiamo scritto molti anni fa”.

Secondo un esponente della Nuova scuola di pensiero – una corrente in origine tollerata dalle autorità cinesi, preoccupate di limitare l’influenza dei monaci e dell’èlite religiosa – “i tibetani hanno l’impressione che la loro cultura stia regredendo in fretta”. “Ma la nostra civiltà è ricca e siamo fieri di esserne gli eredi. E non possiamo sopportare questa situazione”, dice il nostro interlocutore, che preferisce restare anonimo.

In Tibet si combatte sul fronte dell’informazione distorta dalla propaganda cinese. Ma anche su quello della rivendicazione identitaria o etnonazionalista, che passa a volte per gli appelli al ritorno del Dalai Lama. Si moltiplicano gli attacchi verbali e i gesti di disobbedienza. Così uno scrittore di Serthar è “scomparso” all’inizio dell’anno per aver descritto le manifestazioni nel Sichuan. E il cantante di 25 anni Ugyen Tenzin è stato condannato a due anni di prigione per una canzone dedicata al primo ministro tibetano in esilio, Lobsang Sangay. “Questa rinascita culturale è guidata da una generazione di tibetani che spesso hanno ricevuto un’educazione anche in cinese”, si legge nell’introduzione alla raccolta di scritti tibetani post 2008, curata dall’ong “International campaign for Tibet”. “Non stiamo assistendo al risveglio della coscienza tibetana, ma alla sua costruzione. In passato non c’è mai stata una coscienza nazionale così forte. Ma dal 2008 è come se la nazione tibetana avesse portato a termine la sua integrazione. In un certo senso è il regalo inatteso della repressione cinese”, spiega dalla Germania, dove vive, Wang Lixiong, uno dei pochi scrittori cinesi che s’interessano alla questione tibetana.

Censurato nel suo paese Wang Lixiong è il marito della poetessa e blogger tibetana Woeser, che vive a Pechino, da dove documenta senza soste – e in cinese – i soprusi nelle regioni tibetane. Attaccando le élite intellettuali tibetane, lo stato cinese sta imboccando un vicolo cieco, sostiene Wang Lixiong: “Le autorità cinesi pensano di poter frenare l’espansione della coscienza nazionale tibetana con la repressione degli intellettuali. Ma il risultato è l’opposto: la coscienza nazionale si cristallizza”.

Secondo Woeser, il risveglio degli intellettuali tibetani è il pendant delle aspirazioni democratiche che oggi hanno presa sulla sfera intellettuale cinese: sono queste ultime, dice Woeser, a influenzare le minoranze etniche. La poetessa ritrova dappertutto nelle regioni tibetane i segni di un attaccamento militante alla lingua e alla cultura. “Ci sono iniziative di ogni tipo”, dice citando il concorso per le nuove parole tibetane e il movimento del Lakhar (il mercoledì bianco), il giorno in cui ognuno si obbliga a parlare un tibetano epurato di ogni parola cinese. “I cinesi evocano l’unità della grande Cina, ma facendo così hanno portato all’unità del Tibet”, conferma la tibetologa francese Katia Buffetrille.

Sta nascendo pure un cinema tibetano: Pena Taeden e Sonthar Gyal, entrambi originari dell’altopiano del Qinghai, sono i primi tibetani usciti dall’Istituto di Cinematografia di Pechino che realizzano film indipendenti. Devono molto all’educazione ricevuta in Cina, ma hanno preferito evitare ogni collaborazione ufficiale.

In un pugno di film autorizzati dalla censura, per la prima volta hanno portato sullo schermo l’universo dei nomadi. Sullo sfondo il quadro politico rimane appena abbozzato, in modo simile a quello che accade nel cinema iraniano.

Con “Old dog”, Perna Tseden evoca il conflitto tra le culture. Un canale di televendite irrompe nella vita di una famiglia allo sfascio: il figlio ha scoperto di essere sterile e il vecchio padre rifiuta di vendere il suo mastino, desiderato da acquirenti di ogni tipo. Alla fine il padre ucciderà il suo cane adorato. Un gesto tabù nel buddismo tibetano e che la dice lunga su una cultura che si batte per sopravvivere.http://notizie.radicali.it/articolo/2012-07-11/intervento/nuove-voci-tibetane


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