Tashi Sangpo, il monaco "suicicato" nel fiume Machu dopo essere stato fermato e, secondo Shingsa Rinpoche, torturato dalla polizia cinese.
L’ordine non regna fra i tibetani. Qualcosa sta succedendo nel Qinghai, la provincia cinese che rappresenta la porzione settentrionale del Tibet storico. – …
Alcune centinaia di monaci hanno attaccato sabato una stazione di polizia e la manifestazione è sfociata ieri in oltre 90 arresti. Secondo fonti della diaspora, i tibetani coinvolti nell’assalto di Ragya sarebbero stati circa 2 mila tra cui centinaia di lama e alcuni tra funzionari e agenti – scrive l’agenzia Xinhua – sarebbero stati feriti in modo lieve. Significativo che la stessa Xinhua non abbia potuto fare a meno di diffondere l’informazione. Integrando la versione cinese con i dettagli dati dagli esuli tibetani, causa scatenante sarebbe stato il fermo di un monaco di 25 anni che aveva mostrato la bandiera tibetana. Avrebbe chiesto di andare in bagno, riuscendo così a scappare, e nella fuga si sarebbe gettato nel Fiume Giallo. La blindatura che le autorità di Pechino hanno dispiegato sul Tibet e nelle aree tibetane delle regioni limitrofe non riesce dunque a essere totale.
Qualcosa sfugge, benché gli anniversari più sensibili siano trascorsi: il 10 marzo, mezzo secolo dall’avvio della fallita insurrezione che culminò con la fuga del Dalai Lama, e il 14, un anno dalla rivolta e dai morti di Lhasa. Manca una data: sabato prossimo, 28 marzo. Le autorità l’hanno consacrata all’«emancipazione dei servi», liberati solo col pieno avvento del socialismo nel 1959. Pechino ha collocato la festa nel quadro di una offensiva mediatica potentissima, s’è fatto avanti anche il Panchen Lama riconosciuto da Pechino (quello indicato dagli emissari del Dalai Lama vive invece sorvegliato in una località segreta), a sua firma appare oggi un editoriale sul Quotidiano del Popolo in cui loda il Partito comunista, perché «i fatti mostrano che solo sotto la sua guida il Tibet ha potuto raggiungere la prosperità di oggi e aspirare a un futuro ancora migliore». Ma oltre la propaganda c’è un livello diplomatico, perseguito premendo sugli Stati intenzionati a ricevere il Dalai Lama. Il Sudafrica, a leggere il Sunday Independent, sarebbe stato così ubbidiente a Pechino da rifiutare l’ingresso al Dalai Lama, invitato a una conferenza con altri Nobel per la Pace. Il vescovo Desmond Tutu ha chiesto spiegazioni. Il Dalai Lama no: come vanno le cose lui lo sa. Marco Del Corona http://www.corriere.it/esteri/09_marzo_23/Nuovi_disordini_in_Tibet_Arrestati_novanta_monaci_Marco_del_corona_fb567c32-1776-11de-b00e-00144f486ba6.shtml
L’assalto a una caserma dopo la notizia del suicidio di un religioso fermato.
Intanto il Sudafrica nega il visto al Dalai Lama. L’ira del Nobel Tutu
Il pugno di Pechino sul Tibet monaci in rivolta, cento arrestati
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO – Cento monaci buddisti arrestati, un assalto di massa contro una caserma di polizia, migliaia di soldati in stato di massima allerta: in Tibet riesplode la tensione, un anno dopo le rivolte contro l’occupazione cinese che furono schiacciate nel sangue. Nonostante la regione sia in stato di assedio, con un dispiegamento senza precedenti di forze armate, e vietata ad ogni osservatore straniero, ieri sono filtrate notizie di duri scontri. (23 marzo 2009) http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/tibet/monaci-arrestati/monaci-arrestati.html
L’ultimo episodio è accaduto al monastero di Ragya, nella provincia del Qinghai: quindi fuori dal confine amministrativo attuale del Tibet. Il Qinghai come il Sichuan hanno “ricevuto” intere enclave tibetane quando il perimetro delle provincie fu ridisegnato per motivi politici, dopo l’invasione cinese del 1949. L’obiettivo era quello di rimpicciolire il Tibet le cui dimensioni originarie si avvicinavano a quelle dell’intera Europa occidentale. Tuttavia le comunità tibetane che vivono nelle provincie limitrofe hanno conservato la stessa ostilità verso il governo cinese, e sono rimaste a maggioranza fedeli al Dalai Lama, il leader politico-spirituale fuggito in esilio nel 1959. L’ultima protesta nel Qinghai segue di pochi giorni il lancio di una bomba contro una caserma di polizia.
Attorno al monastero di Ragya la scintilla della rivolta sembra essere stata il suicidio di un monaco 28enne, Tashi Sangpo, gettatosi nelle acque del fiume dopo essere che la polizia lo aveva interrogato e torturato. La sua colpa: aveva esposto la bandiera nazionale tibetana, un vessillo proibito dalla legge cinese perché è simbolo dell’indipendenza. Alla notizia del suicidio del religioso più di duemila persone sono scese in piazza a protestare contro le violenze poliziesche. I manifestanti, inclusi un centinaio di monaci, si sono diretti verso il commissariato di polizia di Ragya e l’hanno preso d’assalto. La controffensiva dei reparti speciali anti-sommossa e delle forze armate non si è fatta attendere, con la nuova retata di manifestanti. I monaci detenuti finiscono nei campi di lavori forzati, dove subiscono sedute di “rieducazione” in cui sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al partito comunista cinese.
Malgrado il susseguirsi di episodi di protesta, finora il governo di Pechino sembra essere riuscito a evitare una rivolta generalizzata come quella dell’anno scorso. Il 14 e 15 marzo 2008, approfittando anche dell’avvicinarsi dei Giochi olimpici e quindi della maggiore attenzione dell’opinione pubblica occidentale, la protesta partita da Lhasa era dilagata in tutto il Tibet, apparentemente cogliendo impreparate le autorità centrali. Quest’anno Pechino ha voluto prendere tutte le precauzioni, aumentando il dispiegamento preventivo di militari e polizia. Inoltre l’isolamento del Tibet e il divieto di accesso per gli stranieri ha reso più stringente il controllo cinese sulle informazioni che filtrano da quelle zone.
Nei confronti dell’estero, il governo della Repubblica Popolare ha alternato il bastone e la carota: da una parte le aperture al dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama (finora rivelatesi inconcludenti), dall’altra i “castighi” somministrati ai governi stranieri colpevoli di solidarietà col Tibet (come la cancellazione del vertice tra Cina e Ue dopo la visita del Dalai Lama all’Eliseo). L’ultimo paese a piegarsi al ricatto di Pechino è il Sudafrica. Ha negato il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto incontrare Nelson Mandela, come lui premio Nobel per la pace. Sdegnato un altro Nobel, l’arcivescovo Desmond Tutu, che ha accusato il Sudafrica di “soccombere vergognosamente alle pressioni di Pechino”. Il paese è mèta di importanti investimenti cinesi nelle materie prime, un legame economico che ha sicuramente pesato nel veto al Dalai Lama.
Tibet, arrestati 95 monaci. Il Sudafrica nega il visto al Dalai Lama
Non si placa la repressione cinese sui tibetani. Domenica 95 monaci sono stati arrestati nel monastero di Ragya, in una zona a maggioranza tibetana della provincia del Qinghai. L’arresto è arrivato dopo che sabato una grande rivolta popolare aveva attaccato una caserma della polizia: a dare il via alla protesta è stata la vicenda di un monaco di Ragya di 28 anni, Tashi Sagpo, arrestato dopo che nella sua stanza al monastero erano stati trovati una bandiera tibetana e del materiale di propaganda anticinese. Portato al commissariato, il giovane sarebbe riuscito a darsi alla fuga con la scusa di andare in bagno.
La mano pesante della Cina contro i tibetani si è fatta più forte dalla prima settimana di marzo, quando quasi tutte le aree a popolazione tibetana – la Regione Autonoma del Tibet e le aree tibetane del Qinghai, del Sichuan e del Gansu – sono finite sotto lo stretto controllo delle forze di sicurezza cinesi, che impediscono le visite agli osservatori indipendenti. Il «lock down» è stato deciso in vista di alcune scadenze «delicate»: il 10 marzo, che ha segnato i 50 anni della fuga in India del Dalai Lama; il 14 marzo, primo anniversario degli incidenti del 2008 a Lhasa, quando giovani tibetani hanno attaccato negozi e case degli immigrati cinesi uccidendone una ventina; infine il 28 marzo, quando si celebrerà per la prima volta la «festa della liberazione dalla schiavitù», indetta dal governo di Pechino in occasione del cinquantesimo anniversario della formazione del primo governo filocinese del Tibet, a pochi giorni dalla fuga del Dalai Lama. 22 marzo 2009
Le pressioni cinesi continuano ad avere forte presa anche a livello internazionale. L’ultimo visto negato per il Dalai Lama, in ordine di tempo, è quello del Sudafrica. Venerdì prossimo, il 27 marzo, il Dalai Lama avrebbe dovuto partecipare a una conferenza insieme a diversi premi Nobel per la Pace, tra cui l’ex arcivescovo Desmond Tutu e l’ex premier sudafricano Friederick Willy de Klerk, Nelson Mandela e Martti Ahtisaari.
Pechino ha chiesto a Pretoria di non concedere il visto, avvertendo di possibili ripercussioni negative sulle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il ministero degli Esteri sudafricano ha smentito tutto, sostenendo che il Dalai Lama non era stato invitato alla conferenza. Diversa l’opinione dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu: «Se viene rifiutato il visto a Sua santità – ha detto – allora non parteciperò alla conferenza della pace».
http://www.unita.it/news/83172/tibet_arrestati_monaci_il_sudafrica_nega_il_visto_al_dalai_lama
n. 12 del 2009-03-23 pagina 10
Rivolta contro polizia, retata di monaci tibetani
di Gian Micalessin
Ancora repressione in Cina. Almeno cento arresti dopo la protesta per il fermo di un religioso dissidente di un vicino monastero. L’oppositore è scomparso in un fiume dopo essere riuscito a fuggire dal commissariato
Un intero santuario in piazza, una città in rivolta e, alla fine, quasi cento monaci in galera e uno disperso, annegato forse nelle gelide acque del Fiume Giallo. È questo il bilancio della nuova esplosione di proteste e violenze nella prefettura di Golog, un piccolo centro della provincia di Qinghai, nel cuore di quei territori del Tibet annessi da mezzo secolo alle regioni nord orientali cinesi.
Tutto incomincia dopo il drammatico tentativo d’evasione di Tashi Sangpo, un monaco 28enne fermato nell’ambito della vasta campagna repressiva avviata per evitare proteste e dimostrazioni nel primo anniversario degli scontri di Lhasa dello scorso marzo e del 50° anniversario della rivolta del 1959 conclusa dalla fuga in India del Dalai Lama.
La protesta di sabato mattina si sviluppa intorno alla stazione di polizia di Ragya, un villaggio a poca distanza da un santuario di monaci tibetani. Qualche giorno prima gli agenti hanno fatto irruzione nel monastero per catturare Tashi Sanpo accusato d’aver issato sul tetto del santuario una bandiera tibetana al posto di quella cinese imposta dalle autorità. Sabato mattina alla centrale di Ragya è previsto l’interrogatorio del sospettato, ma il monaco non si dà per vinto. Dopo un primo duro faccia a faccia chiede di venir scortato al bagno, guadagna con un balzo l’uscita e fugge inseguito da una torma di poliziotti. Secondo alcuni testimoni il giovane monaco, braccato dagli agenti, punta verso il Fiume Giallo, salta nelle sue acque e scompare alla vista.
Nessuno sa dire se sia morto annegato, se sia riuscito a fuggire o se sia invece stato ripescato più a valle, ma il disperato tentativo d’evasione accende la rabbia tibetana. Ancora una volta l’incubatrice della protesta, l’alveo in grado di propagare rancore ed indignazione è il monastero. In poche ore l’intera comunità dei monaci si dà appuntamento davanti al commissariato di Ragya per chiedere notizie del confratello disperso. La popolazione tibetana non tarda a schierarsi al fianco dei monaci. In meno di un’ora più di duemila dimostranti infuriati scendono a dar man forte ai religiosi , innescano un’ondata di rabbia collettiva che travolge l’esile cordone di poliziotti, assalta il commissariato, dà il via a una vera e propria caccia ai funzionari governativi.
Non appena la protesta si placa scatta la repressione. Gli agenti di Pechino entrano nel tempio, arrestano sei capi religiosi accusati di aver organizzato la manifestazione e fermano 87 monaci. Alla fine della giornata soltanto due dei 95 arrestati sono normali cittadini mentre tutti gli altri provengono dalle stanze del santuario. Per le autorità gli 87 fermati sono monaci e cittadini pentiti presentatisi spontaneamente alla centrale di polizia per ammettere le proprie colpe e consegnarsi agli inquirenti. L’ennesimo quanto inutile tentativo di nascondere la voglia di rivolta che, da oltre un anno, agita le province tibetane.
Thousands protest in Ragya, monastery prefect among 5 arrested
Dharamsala March 22 – Phayul [Sunday, March 22, 2009 16:36; Kalsang Rinchen; Monastery prefect (Tib:Gekoe) of Ragya monastery, Palden Gyatso, and 4 others have been arrested today by Chinese authorities, sources said.
Around two thousand Tibetans came out on the streets of Ragya yesterday immediately after the news of a Tibetan monk’s death spread among the residents. Protest demonstrations were carried out in front of the local police station and government offices. The angry protesters managed to snatch from police the Tibetan national flag that was earlier confiscated by the Chinese officials. click here for a poor quality video of the protest taken from a cellphone
The protest was sparked by the death of Tashi Sangpo, aged 28, who took his own life by jumping into Machu river yesterday after authorities allegedly found leaflets and the banned Tibetan flag from his room. Tashi was a monk of Ragya monastery which has remained under complete lockdown since March 10 when leaflets containing political messages were circulated in the monastery and the banned Tibetan national flag was hoisted atop the monastery’s main prayer hall.
Voice of Tibet radio reported, citing sources in exile with contacts there, that seven military trucks of troops have arrived in Ragya from Golok and more troops have been called from Xining.
Meanwhile, sources told phayul that Chinese authorities had arrested one more Tibetan named Golok Kunga Tsangyang along with Golog Jigme, the monk who assisted the filmmaker Dhondup Wangchen of “leaving fear behind”, on the night of March 17. (Phayul earlier reported the arrest only of Golok Jigme)
The two were Tibetan writers who allegedly wrote politically sensitive writings, according to sources.
http://www.phayul.com/news/article.aspx?id=24257&article=Thousands+protest+in+Ragya%2c+monastery+prefect+among+5+arrested