di Carlo Buldrini (da Il Secolo XIX, 10 Marzo 2009) – …
Dieci marzo: per i tibetani in esilio è la data della loro festa nazionale. Ricordano l’insurrezione di Lhasa del 1959, la fuga in esilio del Dalai Lama e l’inizio della diaspora. In quel mese di marzo di cinquanta anni fa, nella capitale del Tibet, regnava la tensione. Centinaia di profughi continuavano ad arrivare dalle province orientali dell’Amdo e del Kham. A Lhasa, da mesi, scarseggiavano i viveri e i generi di prima necessità. Le truppe cinesi presenti nella capitale tibetana erano stimate superare le ventimila unità. Le famiglie di profughi erano più di quindicimila. Il 1° marzo 1959 due giovani ufficiali dell’esercito cinese si recarono nel Jokhang, la Cattedrale centrale. A nome del generale Tan Guansan, il facente funzione del rappresentante del governo cinese a Lhasa, invitarono il Dalai Lama ad assistere a uno spettacolo teatrale organizzato in suo onore a Silingpu, la sede del comando militare cinese. Tenzin Gyatso, il ventiquattrenne Dalai Lama del Tibet, accettò l’invito. Il 5 marzo, tra due ali di folla festante, il Dalai Lama si trasferì dal maestoso palazzo del Potala, al Norbulingka, la sua resdenza estiva. Per la prima volta, dal 1950, le autorità cinesi non avevano preso parte alla parata. Il 7 marzo il generale Tan Guansan rinnovò l’invito al Dalai Lama ad assistere alla rappresentazione teatrale. La massima autorità temporale e spirituale del Tibet confermò la sua partecipazione e la data: il 10 marzo. Il brigadiere Fu, l’addetto militare cinese, fissò allora il protocollo della visita: nessun uomo armato avrebbe dovuto accompagnare il Dalai Lama e nessun soldato lo avrebbe dovuto scortare oltre al “Ponte di pietra”. La sera del 9 marzo migliaia di tibetani, uomini, donne e bambini, si radunarono fuori dalla cinta muraria del Norbulingka. Gridavano slogan: “Il Tibet ai tibetani” e “Tibet libero”. I manifestanti volevano impedire al Dalai Lama di recarsi nel quartier generale dell’Esercito popolare di liberazione cinese. “I cinesi lo vogliono rapire e portarlo a Pechino” dicevano i dimostranti. Il 10 marzo un contingente di duemila uomini dell’esercito tibetano lasciò il quartier generale per spostarsi a sud, nei pressi del fiume Kyichu. A tutti i membri dell’Esercito dei volontari per la Difesa nazionale, presenti all’interno del Norbulingka per proteggere il Dalai Lama, vennero date armi e munizioni. I dimostranti all’esterno del Palazzo d’estate erano ormai più di 30.000. La sera del 10 marzo il generale Tan Guansan dichiarò che, se il governo tibetano non avesse ristabilito immediatamente l’ordine nella capitale, “verranno prese drastiche misure per schiacciare l’opposizione al regime cinese”. Il 13 marzo spie tibetane riferivano di una intensa attività militare da parte dell’esercito cinese. Venti cannoni pesanti erano stati trasportati a Lhasa da un piccolo centro situato a una ventina di chilometri a est della capitale. Il 16 marzo, Phala, il capo del protocollo del Dalai Lama, aveva emesso un’ordinanza con cui si vietava l’uso di torce elettriche durante la notte. Continuava intanto il presidio del Norbulingka da parte della popolazione di Lhasa. Il 17 marzo, alle 5 del pomeriggio, l’esercito cinese sparò due colpi di mortaio contro il Norbulingka. L’oracolo di Nechung aveva detto che rimanere all’interno del Palazzo d’estate “non offriva più garanzie di sicurezza”. Alle 20,30 la madre del Dalai Lama con la figlia maggiore e il figlio tredicenne lasciarono il Norbulingka travestiti da soldati dell’esercito tibetano. Alle 10 di sera fu la volta del Dalai Lama. Tenzin Gyatso uscì dal Norbulingka con indosso un chuba color marrone, un berretto di pelliccia e una sciarpa che gli copriva buona parte del volto. Portava in spalla un fucile e si era tolto gli occhiali, per non farsi riconoscere. Il 18 marzo ci fu un massiccio dispiegamento di truppe cinesi lungo l’asse nord-sud della città. Anche gli uomini dell’esercito tibetano si stavano preparando allo scontro. Una grande manifestazione organizzata dall’Associazione delle donne tibetane vide centinaia di donne gridare slogan e portare striscioni con la scritta “Il Tibet ai tibetani”.
Alle 16,30 del 18 marzo, dopo quasi venti ore di viaggio ininterrotto, il Dalai Lama e il suo seguito raggiunsero il monastero di Ra-me, dove avrebbero trascorso la notte. Il 20 marzo iniziarono i bombardamenti della città da parte dell’esercito cinese. Il primo obiettivo colpito fu il Norbulingka. Ci furono centinaia di morti tra i civili tibetani. Gli scontri si estesero poi a tutta la città. Più di venti donne tibetane furono uccise a colpi di mitragliatrice all’interno della sede dell’Associazione delle donne. Alcuni proiettili dell’artiglieria cinese colpirono la base del Potala, la residenza del Dalai Lama, l’edificio simbolo dell’intero Tibet. La notte del 20 marzo la capitale del Tibet aveva un aspetto spettrale. Dovunque c’erano i segni delle operazioni militari in corso: distruzione e morte. I cadaveri, abbandonati nelle strade, venivano mutilati dai cani randagi. Il 21 marzo il Collegio medico, trasformato in una roccaforte militare dagli uomini dell’esercito tibetano, capitolò. Per quasi dieci ore i cinesi lo sottoposero a un massiccio bombardamento. Tutti i soldati e i volontari tibetani che lo difendevano erano stati uccisi. Spie tibetane riferivano adesso che i cinesi stavano preparando l’assalto finale al Jokhang. La Cattedrale centrale era gremita di rifugiati tibetani. All’alba del 22 marzo un primo colpo di mortaio colpì i tetti dorati del Jokhang. A colpi di mitragliatrice, i soldati cinesi si fecero largo tra la folla accorsa a difendere il più sacro dei loro templi. Tre carriarmati cinesi comparvero nelle strade antistanti la Cattedrale centrale. La battaglia si protrasse per molte ore. Malgrado le ingenti perdite, i tibetani resistevano. Dai tetti delle case le donne lanciavano pietre e bottiglie incendiarie contro gli uomini dell’Esercito popolare di liberazione. Poi, i carriarmati cinesi, appoggiati dai veicoli blindati, abbatterono le ultime barricate e la resistenza tibetana venne soffocata nel sangue. Il 23 marzo la bandiera a cinque stelle della Repubblica popolare cinese sventolava sul Potala. Radio Lhasa ne diede l’annuncio con queste parole: “Mossa da una leggera brezza, la bandiera nazionale cinese, simbolo di luce e felicità, sventola sopra Lhasa. La Bandiera Rossa saluta così la rinascita di questa antica città”.
Proseguiva intanto la fuga del Dalai Lama. Il 28 marzo, subito dopo aver superato il passo di Karpo-la, nel Tibet meridionale, il Dalai Lama e il suo seguito furono avvistati da un aereo da trasporto cinese. Il drappello dei fuggitivi si disperse subito in tanti piccoli gruppi. Un’improvvisa tempesta di sabbia ridusse fortemente la visibilità e impedì così nuovi avvistamenti da parte degli aerei cinesi. Il 31 marzo il Dalai Lama, visibilmente malato, varcò il confine tra il Tibet e l’India in groppa a uno dzo, l’animale che nasce dall’incrocio tra una vacca e uno yak tibetano. Ad accogliere Tenzin Gyatso in territorio indiano c’era un arco di bambù e sei soldati gurkha schierati sull’attenti. Il loro comandante offrì al ventiquattrenne Dalai Lama un khata, la sciarpa cerimoniale di seta bianca.
Oggi, cinquanta anni dopo, a Lhasa regna ancora la tensione. Nella capitale del Tibet è in vigore una non dichiarata legge marziale. La città è blindata. I dissidenti sono stati incarcerati. Le frontiere del Tibet sono state chiuse. Le autorità di Pechino vogliono impedire una nuova insurrezione, come quella del 1959 e come quella, iniziata il 10 marzo dello scorso anno, che macchiò di sangue le olimpiadi di Pechino. Forse, quest’anno, il pugno di ferro del regime comunista cinese riuscirà a prevenire le manifestazioni di protesta. Ma la ribellione dei tibetani non si fermerà qui. “Continuerà – dice il noto attivista tibetano Jamyang Norbu – fino a quando i cinesi non riusciranno a spazzar via il popolo tibetano o i tibetani non riusciranno a riconquistare la propria indipendenza”.