le bimbe della scuola dharamsala
di Marco Pavan. Le nuove generazioni di esuli tibetani non vogliono più trattare coi cinesi e contestano il Dalai Lama
A Dharamsala. India del nord, qui nel 1959 si sono rifugiati gli esuli fuggiti dal Tibet e qui si trova la sede del governo in esilio presieduto dal Dalai Lama. La volontà di autodeterminazione del popolo tibetano, oltre che con la Cina, si scontra con le divisioni interne e con le meccaniche del passaggio generazionale. Oggi nuovi leader catturano l’attenzione dei giovani rifugiati e chiedono l’indipendenza del Tibet, come il poeta e attivista trentenne Tenzin Tsundue. Lo abbiamo incontrato quando la polizia indiana gli aveva appena impedito di muoversi dalla città di residenza, mentre il presidente cinese Hu Jintao visitava il Paese. Tsundue afferma che i giovani oggi credono sia possibile criticare l’operato del Dalai Lama e soprattutto come sia necessario agire in modo più incisivo. Un altro tibetano, l’ex-guerrigliero Lhasang Tsering, sostiene che quella del governo in esilio è una “in azione” che danneggia il popolo tibetano mentre lascia alla Cina la possibilità di comportarsi da potenza colonizzatrice. Il governo dovrebbe indicare chiaramente la méta da raggiungere ai giovani nati a Dharamsala che non conoscono la terra dei loro padri.Il buco sul tetto del mondo. «I cinesi stanno facendo un buco sul “tetto del mondo”, è un problema che riguarda tutti noi. L’identità culturale del Tibet è fortemente minacciata dal trasferimento di migliaia di cinesi. E quando il tetto è danneggiato, l’intera casa è in pericolo.» Così l’ex guerrigliero Lhasang Tsering esprime tutta la preoccupazione per il suo popolo. Attualmente vive vendendo libri usati a Dharamsala, nell’India del nord. Little Lhasa, così viene chiamata, è una cittadina di venti mila abitanti che si trova in quella parte del Paese stretta tra Cina e Pakistan, poco distante dalle tensioni che scuotono il Kashmir. Qui, nel 1959, si è rifugiato Sua Santità il Dalai Lama, fuggito dall’invasione cinese del Tibet del 1950. Dharamsala è divisa in due, geograficamente e culturalmente. La parte bassa è abitata dagli indiani, mentre a McLeod Ganj, la parte superiore distante qualche chilometro, vive la comunità tibetana, dove si trovano tempio buddista e residenza del Dalai Lama.
Per le strade di Upper Dharamsala si respira un’aria diversa, poco indiana. Lo sguardo viene catturato dai vestiti color ocra dei monaci buddisti. Oppure si sofferma sulla targa di una motocicletta con la bandiera tibetana e la frase “Time is running out, save Tibet” (il tempo sta scadendo, salvate il Tibet) Le colorate bandiere delle preghiere, appese sui tetti di molte case, si stagliano contro il cielo. Sullo sfondo, le nevi dei primi contrafforti himalayani ricordano che il Tibet non è molto lontano. E a tornare nella terra dei padri pensano i rifugiati di Dharamsala.
Indipendenza addio. Il Dalai Lama e il governo in esilio non lottano più per l’indipendenza del Tibet, ma chiedono che il loro Paese possa avere un’autonomia effettiva all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Il governo di Pechino, da parte sua, continua ad affermare che il “tetto del mondo” è sempre stato parte della madrepatria e che la Regione Autonoma del Tibet gode di una reale autonomia amministrativa. Ma dopo quasi mezzo secolo di esilio, una parte dei tibetani sta perdendo la fiducia nella capacità del Dalai Lama e del governo di sbloccare la situazione. Stanchi di questa immobilità i giovani della seconda generazione, nati in India, si affidano a nuovi leader, come il trentenne poeta e attivista Tenzin Tsundue.
Tsundue, nato a Dharamasala, aveva conosciuto il Tibet solo attraverso i racconti dei genitori e degli anziani. A ventidue anni, «se siete vicino a quell’età preparatevi – avverte – farete qualcosa di folle», ha deciso che doveva conoscere personalmente quello per cui voleva lottare. Da solo e a piedi, dopo aver attraversato la regione indiana del Ladakh, è entrato in Tibet. Senza pensare a ciò che stava rischiando, ha attraversato il confine, stupito della facilità con cui poteva farlo, per vedere la sua patria almeno una volta. Dopo alcuni giorni è stato arrestato dalla polizia di frontiera cinese, interrogato, picchiato e imprigionato per tre mesi prima di essere espulso e rimandato in India.
Tsundue è diventato un esempio da seguire in particolare quando, nel 2002, ha scalato fino al quattordicesimo piano le impalcature che circondavano un albergo di Bombay che ospitava l’allora primo ministro cinese Zhu Rongji in visita in India. Prima di essere arrestato dalla polizia ha fatto in tempo a srotolare uno striscione con lo slogan “Tibet libero: Cina vattene” e a sventolare la bandiera tibetana.
Contestatore delle autorità Tenzin Tsundue lo si può incontrare negli internet cafè di Dharamsala mentre mantiene i contatti con gli attivisti tibetani, sparsi in tutta l’India. Grandi occhiali scuri, una lunga treccia nera, porta in fronte una fascia rossa, simbolo della sua lotta, che non si toglierà finché il Tibet non sarà libero. Parla lentamente, misurando le parole. Lunghe frasi interrotte da pause pensierose. Afferma che l’unica soluzione accettabile è la totale indipendenza del Tibet. E per questo i giovani tibetani devono lottare, attivamente. La non-violenza è la strada da seguire e il Dalai Lama colui che deve guidare i tibetani, ma Tsundue sottolinea che vi è una frattura generazionale. I giovani di venti e trent’anni sentono ora di poter contestare il pensiero e l’azione politica di Sua Santità. Affermazioni, queste, che sono impensabili per i tibetani più anziani, per i quali la parola del Dalai Lama è da seguire alla lettera.
Ogni volta che le autorità cinesi visitano l’India, i giovani attivisti tibetani organizzano manifestazioni e proteste chiedendo l’indipendenza. Tsundue, ormai conosciuto dalla polizia indiana, è stato diffidato dal lasciare Dharamsala quando, a fine novembre, il presidente cinese Hu Jintao è andato a Delhi. Nella piazza principale i giovani attivisti hanno organizzato uno sciopero della fame a sostegno del loro leader e per protesta contro le autorità indiane che limitano gli spostamenti degli attivisti tibetani per non avere complicazioni durante le visite cinesi.Invasione Han Osservando il problema dall’altro lato del confine indo-cinese, la tradizione e il popolo tibetano sono minacciati direttamente dal trasferimento di migliaia di cinesi di etnia Han in Tibet. E la ferrovia di recente costruzione che raggiunge Lhasa è semplicemente una parte dell’invasione cinese. Lhasang Tsering lascia la sua libreria per incontrare gli occidentali e spiegare preoccupato come stanno le cose. «La Cina si comporta da colonizzatrice in Tibet.» Fuggito dal suo Paese nel 1959 all’età di sette anni, ha fatto parte del gruppo di guerriglieri del Mustang, finanziati dalla Cia e dal Nepal durante la guerra fredda. Nel 1974, con un messaggio registrato, il Dalai Lama ordinò alla guerriglia di deporre le armi. Tsering, tornato in India, è stato a capo del Congresso giovanile tibetano e ha lavorato per il governo in esilio, prima di dare le dimissioni per protestare contro la decisione del Dalai Lama di rinunciare all’indipendenza.
Il cinquantacinquenne libraio e ex militante oggi afferma che «la guerriglia è stata sbagliata e controproducente», ma che l’attuale leadership non fa nulla per aiutare il popolo tibetano perché ha perso di vista la méta. Si commuove pensando al Paese che ha lasciato quando era bambino, una nota di rabbia e sconforto traspare dalle sue frasi. Usa parole aspre contro il governo e Sua Santità che, secondo lui, dovrebbero capire che la strategia della via di mezzo, che cerca il colloquio con la Cina, ha fallito e deve essere abbandonata perché si è trasformata in una inutile e dannosa “non-azione”.
Tsering afferma anche che «la democrazia può attendere, ora serve agire. Inoltre, la morte di Sua Santità è un punto di non ritorno, non si può temporeggiare. Bisogna fare qualcosa subito, indipendentemente da quando passerà a miglior vita.» Tsering spiega che la chiarezza di ciò che si vuole raggiungere è fondamentale e questa è stata persa dall’attuale leadership quando ha rinunciato a chiedere l’indipendenza. Ancora una volta si ripropone il problema di spiegare ai giovani per che cosa devono lottare. Ai tibetani, mancherebbe dunque una vera guida in grado di mostrare la méta e infondere loro la certezza che questa sia raggiungibile. Nel frattempo il buco sul tetto del mondo si allarga.
Da tre generazioni lontano. Ormai gli esuli, si stima siano circa 120 mila in tutto il mondo, sono giunti alla terza generazione e la maggior parte non ha mai visto il Tibet, ma ne ha sentito parlare dagli anziani o da coloro che tuttora fuggono dall’occupazione cinese. I bambini che nascono a Dharamsala frequentano la scuola tibetana e nelle famiglie imparano la loro lingua, ma diventerà sempre più difficile far proseguire le tradizioni. Inoltre è complicato spiegare ai giovani che devono combattere per qualcosa che non conoscono. Le ragioni della lotta rischiano di affievolirsi e gli animi si placano nella tranquillità del rifugio indiano. Tsundue spiega che coloro che nascono in India possono richiedere la cittadinanza, ma lui non l’ha voluta. Preferisce mostrare un libricino cartonato coperto di timbri: il suo RC, certificato di registrazione rilasciato dal governo indiano da rinnovare ogni anno, che gli permette di viaggiare ma soprattutto gli ricorda la sua situazione di esiliato. http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=2&ida=2&idt=&idart=8673