Il monastero di Ganden che fu completamente distrutto.
Quel che resta della cultura tibetana, nei monasteri e nella vita dei monaci di oggi.
Il buddismo è stato per centinaia di anni il centro dell’identità culturale e nazionale dei tibetani. Per questo, dall’epoca dell’occupazione cinese ad oggi, la repressione religiosa è sempre stata strettamente collegata alla repressione del dissenso politico. La maggioranza dei prigionieri politici tibetani noti ad Amnesty International, infatti, sono monaci o monache buddisti. I monumenti e le istituzioni religiose distrutti durante l’invasione degli anni ’50 sono stati oltre seimila e, anche in tempi più recenti, la campagna di rieducazione patriottica del 1996 ha portato all’espulsione dai monasteri di circa undicimila monaci.
Prima dell’occupazione cinese del Tibet, i monasteri erano importanti centri di studio. Erano divisi nei collegi delle varie discipline con le relative residenze e venivano retti, secondo una struttura piramidale, da un abate cui erano subordinati i capi religiosi preposti ai culti rituali. Entro le sue mura si svolgevano una moltitudine di attività e gli abitanti non erano solo religiosi, il monastero spesso controllava anche grandi ricchezze e terreni, gestiti in modo feudale, imponendo tasse ai contadini. Shigatse e Lhasa, le più importanti città tibetane sono sorte attorno ai complessi monastici che, al tempo del loro splendore, ospitavano migliaia di monaci. Proprio i monasteri conferivano la loro importanza capitale e ne facevano meta di pellegrinaggi e traffico commerciale da tutto il Tibet e dall’India. Ancora oggi, nonostante gli enormi mutamenti che queste due neo-metropoli hanno subito, si può vedere come il cuore della città tibetana si sia sviluppato attorno al monastero.
Come se nulla fosse cambiato. II contingente militare cinese in Tibet conta circa 300 mila uomini. Controllano la vita nelle città e, dalla metà degli anni ’90, hanno assunto il controllo anche nei monasteri. Non ve n’è più uno accanto al quale non sventoli la bandiera rossa. Oggi la maggior parte dei monasteri è spopolata e convertita ad attrazione turistica a pagamento, anche gli introiti di offerte e biglietti d’ingresso finiscono per lo più nelle casse del partito. Insieme ai turisti occidentali e cinesi, per le cappelle e nelle sale stipate di statue buddiste, gli unici tibetani che si incontrano sono i pellegrini: pastori nomadi o contadini che affrontano lunghi viaggi dalle aree più remote del Tibet o dalle regioni orientali, ex tibetane, ora annesse alla Cina. Abbigliati secondo la loro immutabile tradizione che li rende misteriosamente simili ai pellirosse americani, quando li si incontra per le strade di Lhasa sembrano appartenere a un’altra epoca: camminano in senso orario attorno ai luoghi sacri, si prostrano a terra sussurrando i mantra, cospargono i candelabri di burro di yak e infilano compulsivamente banconote di piccolo taglio sulle statue e nelle urne. Proprio come se nulla fosse cambiato.
Rimozioni. E invece oggi l’istituzione monasteriale oltre alla funzione ha anche cambiato volto. Molti templi sono soggetti a restauri estensivi che non mirano a ricostruire con accuratezza quanto perduto, piuttosto, sono spesso delle vere e proprie ricostruzioni in stile cinese. Degni corollari di queste opere sono i piazzali, un elemento urbanistico sconosciuto alla tradizione tibetana. I cinesi, per ragioni di controllo, ne hanno costruiti in gran numero e li hanno messi proprio di fronte ad importanti monasteri. Come in quello di Tashilumpo a Shigatse, di fronte a cui sono state erette statue di bronzo raffiguranti un turista dai tratti occidentali in sella ad una moderna mountain bike mentre mostra ad un tibetano il segno dell’okay. O in quello di Pelchor Chode a Gyantze, dove è stato eretto un obelisco contro l’imperialismo britannico. Persino a Lhasa davanti al monumentale palazzo del Potala, ex residenza del Dalai Lama, è stata costruita una piazza in riproduzione di quella di Tien an Men, e gli si è pure parcheggiato sopra un aereo da caccia dei tempi dell’invasione.
Dov’è Panchen Lama? Il monastero di Tashilumpo fu fondato dal primo Dalai Lama e divenne sede della seconda autorità spirituale del Tibet, il Panchen Lama. Ha superato la Rivoluzione culturale senza subire gravi danni. Le guide turistiche raccontano che il Panchen, designato dal Dalai Lama quando era un bambino, un giorno scomparve misteriosamente per poi riapparire sotto nuove sembianze, altrettanto misteriosamente, in Cina. In realtà il giovane Panchen è attualmente uno dei prigionieri politici più giovani al mondo ed è stato sostituito da un’autorità designata dai cinesi. E’ una falsità dunque, ma assomiglia così tanto alle leggende buddiste di mistici che spariscono dall’India e riappaiono in Tibet, da entrare senza sforzo a far parte dell’agiografia locale. Una copertura perfetta tanto per i turisti quanto per i pellegrini meno avveduti, specie se i tibetani consapevoli non hanno il coraggio di contestarla.
Restauri e Contraddizioni. Il monastero di Ganden, arroccato sui monti a nord est di Lhasa, fu fondato nel 1409 da Tsong Kapa, fondatore dell’ordine Gelugpa. Godeva di grandissima influenza politica e prima dell’invasione ospitava oltre duemila monaci, ma è anche stato quello che ha subito maggiori danni dalla rivoluzione culturale, in particolare sono visibili quelli subiti dalla struttura durante i bombardamenti nel ’59. Nel ’96 fu sede di manifestazioni di protesta contro la proibizione delle immagini del Dalai Lama e venne chiuso ai turisti. Attualmente è stato riaperto al pubblico nonostante sia in corso un intenso lavoro di restauro che coinvolge alcuni templi, cappelle e statue. Balzano all’occhio le nuove facciate degli edifici ricostruiti. Per decorare queste ultime, si sono adottati motivi assai vistosi e caratterizzati in stile cinese.
Anche nel monastero di Sakya sono in corso dei restauri. Il tempio mostra ancora i segni della distruzione e montagne di macerie attendono ancora di essere rimosse. Tra le attività in corso c’è la decorazione murale di una piccola cappella lungo la cinta muraria. I decoratori sono un cinese e un tibetano, nella penombra disegnano sulle pareti le immagini sacre da dipingere. Sono immagini che attingono, rielaborandole liberamente, a campionari di arte buddista e cartoline di vario genere e provenienza, ammucchiate su un tavolino insieme ai colori. I due sono particolarmente orgogliosi di mostrare come ai due angoli della stanza, abbiano inserito tra le icone del pantheon buddista anche un personaggio nuovo: Mao tse Tung. Mao pensava che la religione fosse oppio per i popoli, e probabilmente non avrebbe gradito la compagnia dei bodhisattva e degli illuminati. Ironicamente però, con una simile trovata promozionale potrebbe forse conquistare quello che con l’oppressione non è riuscito, l’amore e la devozione dei tibetani.