Il genocidio che l’Occidente finge di ignorare
di: Domenico Vallario // 9 febbraio 2012 // Internazionale
Lhasa, 3650m, Regione Autonoma del Tibet. Nella spianata di cemento antistante il Potala, uno dei palazzi più belli del pianeta, che fu dimora dei Dalai Lama dal 1649 al marzo del 1959, campeggiano due bandiere altissime della Repubblica Popolare Cinese e un obelisco raffigurante dei lavoratori che ricordano al popolo tibetano chi è che comanda sul Tetto del Mondo. E’ solo uno dei drammatici risvolti dell’occupazione (o liberazione come usano chiamarla gli han di Pechino) della culla del buddhismo incastonata tra l’Himalaya e laghi sacri che va avanti da ormai 62 anni.
Tutto ebbe inizio nel 1949 quando Mao Zedong proclamò la fondazione della Repubblica Popolare di Cina, che aveva come primo obiettivo quello di riprendersi i territori che erano stati da sempre sotto l’influenza dell’impero cinese. Un tentativo di accordo stipulato nel 1951 tra il sedicenne Tenzin Gyatso (XIV ed attuale Dalai Lama) e i rappresentanti di Pechino, che riconosceva la sovranità cinese in cambio dell’autonomia interna e religiosa, venne disatteso, e fu così che nel 1959, la rivolta del popolo di Lhasa contro le violenze e la barbarie dell’esercito cinese nei confronti dell’etnia tibetana divenne guerra civile. Le resistenze di un popolo abituato a vivere di tsampa e tè al burro di yak, che non conosceva armi né automobili, vennero represse nel sangue dai militari rossi, che uccisero circa 90.000 tibetani e ne deportarono un numero non definito nelle carceri. Il Tibet divenne così una provincia dell’immensa Repubblica Popolare, alla quale venne riconosciuto statuto speciale nel 1964.
La Rivoluzione Culturale negli anni ‘70 assestò il colpo di grazia alla storia e alla cultura di un popolo pacifico che aveva sempre vissuto di pastorizia e religione: la politica di azzeramento culturale sponsorizzata da Mao portò alla distruzione dell’80% dei monasteri secolari, delle scritture e di tutto quello che poteva avere un legame con la storia millenaria della regione. E oggi cos’è cambiato?
Si potrebbe dire nulla, ma il problema è che nessuno ne parla. Il Governo cinese oramai è abituato a reprimere nel sangue le proteste che periodicamente avvengono nel Barkhor, il cuore della capitale tibetana. E non suscitano più scalpore le decine e decine di persone che ogni anno si danno fuoco per gridare al mondo la propria voglia di indipendenza.
Mentre a Shanghai si costruiscono grattacieli di oltre 400m e si allestiscono musei sul futuro più che sul passato della città, a Lhasa e Xigaze imperversa la prostituzione, betoniere cinesi arrivano da ogni parte del paese per sversare cemento e costruire periferie simili a quelle di Beijing o Canton per distruggere tutto ciò che è rimasto del Tibet rurale. Mentre gli uomini di affari di Shenzen o Nanchino volano in USA o in Germania per fare affari, il contadino di Gyantse non ha diritto a nessun tipo di passaporto, non può recarsi nel vicino Nepal amico, e può girare solo all’interno della Cina (ma se confrontiamo gli stipendi dei cinesi han e dei tibetani e i diversi costi della vita, possiamo facilmente capire che un tibetano medio potrà recarsi a Pechino non più di una volta nella vita) . Ad ogni angolo della strada del capoluogo tibetano c’è un drappello di 4-5 militari cinesi tra i 18 e i 21 anni, un’altra violenza, stavolta perpetrata su giovani ragazzi han che vengono mandati a fare leva ai confini del paese. Dai tetti delle case, tra cani che scorrazzano e bandiere della preghiera soppiantate dalla bandiera rossa a stellette gialle, ti scrutano attenti soldati con carabina ed elmetto, attenti ai movimenti di ogni uomo, cittadino o turista che sia. Le facce dei tibetani, così diverse da quelle dei cinesi invasori, quegli occhi molto più sudamericani, quasi da inca, con quelle gote rosse, bruciate dal sole dei 4-5000 metri, sono tristi e rassegnate. Le statistiche del governo ci dicono che a Lhasa l’80% della popolazione è ancora quella originaria; la realtà è tutt’altra: si parla addirittura di 40-60(tibetani-han).
Nei monasteri semidistrutti di Sera, Dreprung, Tashilunpo, veri e propri pilastri dello stato, la sicurezza è ai massimi livelli; controlli di passaporti, di documenti, delle mille autorizzazioni che si devono richiedere al governo cinese per entrare nell’altopiano. Telecamere nascoste scrutano ed osservano il lavoro delle guide tibetane, che non possono parlar male del governo cinese e ovviamente non possono e non devono ricordare con nostalgia i tempi del Dalai Lama. Le pene sono severissime, e si possono beccare sei anni solo perché magari si sta cantando una canzone che parla del guru della religione buddhista.
Sì, perché i tibetani che vogliono indossare la classica tunica rossa (sull’altopiano è tradizione che il primo figlio di ogni famiglia sia destinato alla vita monacale), devono rinnegare la supremazia ed il dominio spirituale del Lama supremo (un po’ come se un giovane sacerdote rinnegasse il Papa), in quanto non riconosciuto come autorità dal governo cinese, e, arrivati ai 18 anni, devono recarsi in una scuola cinese per studiare la storia di Mamma Cina (ovviamente dal ’49 in poi, quello che c’era prima non esiste per gli han lobotomizzati del postguerra)
Ma chi sono i Lama?
Figure mistiche, sono i monaci più “alti” della religione tibetana, reincarnazioni viventi dei vari Buddha; il Dalai Lama in particolare, è la reincarnazione di Chenresig, il Buddha della Compassione. Viene scelto tramite l’intercessione di oracoli e lama di altissima esperienza, che, tramite visioni e sogni, riescono a individuare solitamente in piccoli bambini la reincarnazione dei predecessori. Sottoposti a prove durissime per verificare la corrispondenza del sogno con la realtà, vengono poi eletti e issati a supremi capi temporali e spirituali del paese, che ha sempre avuto un apparato teocratico, non conoscendo nella storia alcuna forma di democrazia o apparato politico.
Tutto questo fino al ’59, quando l’invasione cinese determinò la fuga da Lhasa, sotto mentite spoglie, del XIV ed attuale Dalai, Tenzin Gyatso, già Nobel per la pace nel 1989, individuato come reincarnazione del Grande Tredicesimo e di Chenrensig nel lontano 1937, all’età di due anni, grazie ad una visione di un oracolo di stato.
Costretto a fuggire, costituì il Governo Tibetano in esilio a Dharamsala, in India, da dove diffonde messaggi di pace e giustizia in tutto il mondo. Per la Cina non è nessuno, è solo un signore che parla e diffonde messaggi falsi e sovversivi.
Alla sua morte, che purtroppo, Buddha o non Buddha, non arriverà troppo tardi, il destino del Tibet e la speranza dei 5 milioni di suoi concittadini verrà meno e sarà cancellata per sempre. Il governo cinese infatti, si arroga il diritto di nominare tutti i maggiori Lama del paese, e si dà il caso che Tenzin Gyatso sia l’unico Lama vivente nominato a suo tempo dai tibetani. Lo scandalo più grande in questo senso si ebbe nel 1989, quando, alla morte del decimo Panchen Lama (la seconda carica del paese), ci fu l’elezione contestuale di due successori: uno nominato dal governo di Dharamsala secondo le antichissime tradizioni della reincarnazione, e uno dal governo cinese, figlio di cinesi funzionari del governo, cresciuto nell’amore per il partito comunista.
Nel ’95, il Panchen tibetano fu arrestato dai cinesi a soli sei anni, e da allora non se ne hanno più notizie.
Potrei raccontarvi decine e decine di altre storie, di mail bloccate, di controlli ogni 50km con perquisizioni, di siti inaccessibili o di militari che bloccano la scalata al monte Everest, tutte esperienze vissute in prima persona nei miei 7 giorni in Tibet (ah, dimenticavo, Brad Pitt e attori vari dei Cast di 7 anni in Tibet, Piccolo Buddha e similari non possono recarsi in Cina perché ospiti non graditi e qualsiasi copia del libro di Harrer o guida Lonely Planet del Tibet viene requisita e distrutta dai funzionari doganali all’arrivo in Oriente)ma credo che questo sia bastato per muovere un minimo le vostre coscienze, visto che quelle dei grandi paesi sono di ghiaccio, silenti e omertose da 50 anni.
Non sono bastati i roghi né le proteste in occasione di Pechino 2008: nessuno si è permesso di boicottare i giochi dei cinesi. Non capisco cosa abbia di diverso il massacro perpetrato da Pechino nei confronti di un popolo rurale e innocente rispetto alle dittature estirpate con tanta ferocia in Medio Oriente e in Africa mediterranea. E non vedo cosa ci sia di differente con il genocidio cambogiano per tanti anni ignorato, con quello del Ruanda o con quello Bosniaco, anch’essi dimenticati per lungo tempo dalla comunità internazionale. Finché siete in tempo, partite, e visitate quel magico mondo di gente sorridente, di yak e di laghi ghiacciati incastonati tra le vette più alte del pianeta.
http://www.inveritatidico.it/blog/2012/02/09/il-genocidio-che-loccidente-finge-di-ignorare/