La rivolta tibetana ora punta su Lhasa; di Piero Verni, Il Riformista – 29 febbraio 2012
Nelle ultime ore hanno cominciato a circolare voci incontrollabili su un presunto attentato fallito il 26 febbraio di fronte a un edificio governativo di Rinchenling, un villaggio nella prefettura autonoma di Garze della provincia cinese del Sichuan. L’attentatore avrebbe perso la vita.
Secondo fonti più attendibili, si tratterrebbe invece dell’ennesima auto immolazione di un giovane tibetano. E con quest’ultima salirebbe a ventiquattro il numero delle torce umane che negli ultimi mesi hanno illuminato con i loro terribili bagliori il cielo sopra il Tibet. Una cifra impressionante che, indipendentemente da ogni altra considerazione, dovrebbe far comprendere a Pechino quale sia il livello di frustrazione e disperazione del popolo tibetano dopo oltre sessanta anni di occupazione del Tetto del Mondo. Questo nuovo rogo sarebbe dunque avvenuto durante le celebrazioni del Losar, il capodanno lunare, iniziato il 22 febbraio. Capodanno che molti in Tibet avevano deciso di boicottare in segno di lutto per le recenti auto immolazioni e per le numerose vittime causate dalla repressione cinese delle manifestazioni svoltesi recentemente nelle aree tibetane del Sichuan e del Qinghai.
Le autorità cinesi hanno tentato in tutti i modi di costringere la popolazione a celebrare questa importante festività e scongiurare il boicottaggio. Membri del Partito Comunista e funzionari governativi hanno fatto a gara nell’intimidire la gente e obbligarla a festeggiare la ricorrenza con il risultato di accrescere ancor più il clima di tensione. E’ dell’altro ieri l’ispezione compiuta da Liu Qibao, segretario del Partito Comunista in Sichuan, nel monastero di Kirti uno dei punti caldi della protesta tibetana. Liu ha rivolto un minaccioso discorso ai monaci cui ha intimato di non dimenticare che il governo, “… Schiaccerà senza misericordia qualsiasi attività separatista”.
Ma non sono solo le zone etnicamente tibetane di queste due provincie a preoccupare Pechino. La situazione pare essere molto tesa anche a Lhasa e nell’intera Regione Autonoma del Tibet, da settimane chiuse chirurgicamente a qualsivoglia presenza straniera. Tutta l’area è rigorosamente off limits sia per i turisti sia, ancor più, per i giornalisti. Si tratta di una sorta di legge marziale non dichiarata segno di quanto Pechino sia spaventata dalla possibilità che lo stato di agitazione delle prefetture tibetane dello Sichuan e del Quingai, possa arrivare fino a Lhasa. E’ plausibile che il fantasma di una o più torce umane ardenti sotto il Potala turbi i sonni dei dirigenti cinesi i quali sono disposti a tutto pur di impedire l’avverarsi di uno scenario del genere.
La chiusura del Tibet è talmente ermetica che nei giorni scorsi l’organizzazione “Reporter Sans Frontières” ha emesso un duro comunicato in cui non solo accusa Pechino di avere trasformato il Tibet in un luogo peggiore della Corea del Nord per quanto concerne la possibilità di lavoro per la stampa, ma denuncia anche una grave “… campagna di disinformazione portata avanti grazie a giornali filo governativi quali Global Times, che minimizzano la situazione nel mentre accusano di interferenze la comunità internazionale”.
Nonostante questo stato di cose, il primo ministro dell’Amministrazione Tibetana in Esilio Lobsang Sangay (in questi giorni in Italia, vedi intervista), cerca di non buttare benzina sul fuoco e continua a dirsi sempre pronto a intavolare con le autorità cinesi un colloquio costruttivo per trovare una via di uscita al dramma del Tibet basato su quella Via di Mezzo che il Dalai Lama propone da oltre venti anni ma che non sembra aver trovato accoglienza alcuna a Pechino.
E questa mancanza di risposte da parte cinese, esaspera anche i tibetani della diaspora la cui principale ONG, il Tibetan Youth Congress, ha organizzato a New York uno sciopero della fame ad oltranza. Il 22 febbraio una tenda è stata eretta davanti alla sede dell’ONU e tre tibetani, tra cui Shingza Rinpoche un lama reincarnato di alto lignaggio, hanno iniziato il loro digiuno in puro stile gandhiano. Ma già il 24 la polizia ha fatto rimuovere la tenda e i tre hanno dovuto trasferirsi in un luogo più appartato ma sempre nelle vicinanze del Palazzo di Vetro.
I digiunatori chiedono all’ONU di inviare una commissione di inchiesta in Tibet e fare pressioni sulla Cina perché consenta ai giornalisti di entrare liberamente in Tibet, rilasci i prigionieri politici e ponga termine alla odiata campagna di “rieducazione patriottica”. Il Tibetan Youth Congress sembra molto determinato e tutt’altro che intimidito dall’intervento della polizia. Il suo presidente Tsewang Rigzin ha dichiarato che, “Né la pioggia né il vento né la polizia ci fermeranno… i tre digiunatori sono pronti ad andare avanti con la protesta fino a quando l’ONU non ci darà ascolto”.
Se a queste parole seguiranno i fatti, alle torce umane del Tibet potrebbero aggiungersi uno o più Bobby Sands tibetani in quel di New York. Una prospettiva poco entusiasmante anche per una Cina consapevole della propria forza e del proprio immenso potere.
Piero Verni
Il Riformista – 29 febbraio 2012
L’INTERVISTA
LOBSANG SANGAY, PARLA IL PREMIER IN ESILIO
Lobsang Sangay guida un governo che per la prima volta nella storia tibetana degli ultimi due secoli non deve rispondere a un Dalai Lama, dopo che quest’ultimo lo scorso anno ha rinunciato a ogni carica politica. Nato in esilio nel 1968 nella cittadina himalayana di Darjeeling (Bengala occidentale), dopo essersi laureato all’Università di Delhi Lobsang Sangay nel 1995 vince una borsa di studio per la facoltà di legge di Harvard dove attualmente fa parte in qualità di Senior Fellow Legal Studies Program.
Eletto in una democratica consultazione elettorale dalla comunità dei profughi, Lobsang Sangay è il premier (Kalon Tripa) della Central Tibetan Administration (CTA), una sorta di Governo tibetano in esilio con sede nella cittadina himalayana di Dharamsala (India settentrionale).
Lobsang Sangay è in questi giorni in Italia per una breve visita. Arrivato a Bolzano il 27 febbraio su invito della Provincia Autonoma, si è poi trasferito a Milano ospite del Centro buddhista Ghe Pel Ling e della Comunità Tibetana in Italia. E ha accettato di rispondere ad alcune domande del Riformista.
La politica della Via di Mezzo, la ricerca di un compromesso attraverso il dialogo con Pechino, non ha dato i risultati attesi. Pensa a una politica alternativa o ritiene di mantenere questa linea per tutto il suo mandato nei prossimi 4 anni?
La politica della Via di Mezzo è quella ufficiale dell’Amministrazione Tibetana in Esilio, che aspira ad una genuina autonomia sulla base anche dell’ordinamento giuridico cinese. La scelta comunque spetta al popolo tibetano. La mia campagna elettorale si è basata su questo approccio, quindi ora che sono stato eletto non intendo cambiarla. Se finora questa soluzione non ha trovato spazio non è per responsabilità dei tibetani ma della Cina. Noi stiamo facendo del nostro meglio. La Via di Mezzo è una richiesta molto razionale e ragionevole… la palla ora è nel campo della Cina. Per quanto ci riguarda siamo sempre disponibili a negoziare la questione tibetana in modo pacifico.
I gesti di estremo sacrificio che continuano a ripetersi in Tibet, sono segno di un’esasperazione tragica che denuncia tutta la durezza del regime cinese. Chi si immola lo fa inneggiando alla libertà del Tibet e chiedendo il ritorno del Dalai Lama nel suo Paese. Cosa pensa di queste richieste?
Da tanto tempo i tibetani in Tibet nelle loro proteste chiedono la libertà per il Tibet e il ritorno del Dalai Lama. La nostra responsabilità è sostenere queste aspirazioni e fare di tutto perché questi sacrifici non siano vani. Dobbiamo fare in modo che la perdita di queste vite perdute serva a qualche cosa. Dobbiamo far sapere a tutto il mondo della loro sofferenza e sollecitare il sostegno internazionale. Noi facciamo del nostro meglio perché la civiltà del Tibet continui a vivere e i tibetani possano mantenere la loro identità.
La sua Amministrazione pensa di appoggiare attivamente lo sciopero della fame ad oltranza che il Tibetan Youth Congress ha iniziato da pochi giorni a New York e che porta avanti delle richieste piuttosto simili a quelle da lei recentemente avanzate?
Ci sono attività che sono organizzate dalla mia Amministrazione come la preghiera di inizio di febbraio per ricordare i martiri che si sono immolati o quella con cui abbiamo chiesto ai tibetani di non celebrare il Losar. Ci sono poi iniziative di gruppi come il Tibetan Youth Congress o altri che contribuiscono anch’esse alla causa ed è poco importante che vengano appoggiate o meno a livello di Amministrazione Tibetana in Esilio. Forse è addirittura meglio che queste iniziative rimangano indipendenti dal nostro appoggio per risultare più efficaci.
Intervista a cura di Claudio Cardelli e Piero Verni
Il Riformista – 29 febbraio 2012