di Raimondo Bultrini http://bultrini.blogautore.repubblica.it/
Ciò che accade in Tibet mentre si assiste alle prove di democrazia in Birmania, rende ancora più grande il baratro che divide la Cina dal mondo. Pochi giorni fa, mentre assistevamo ai liberi comizi di Lady Aung San Suu Kyi nelle province meridionali del Myanmar, laici e monaci tibetani venivano uccisi e feriti (almeno sette vittime secondo fonti del dissenso) perché protestavano in massa contro la politica cinese sul Tetto del mondo, nella regione tibetana oggi assorbita dal Sichuan.
Molti sanno che la Cina è stata l’alleata principale dei generali birmani responsabili di una crudele e inefficace dittatura durata 50 anni, proprio come accade da un tempo ancora più lungo in Tibet. Oggi che i militari di Naypidaw e Rangon hanno ammorbidito la loro posizione a favore dell’Occidente, per non dipendere economicamente solo dal Grande Fratello cinese, l’isolamento ideologico dei comunisti dal resto degli stessi vicini asiatici si fa ancora più evidente. Ma i segnali che vengono dall’interno del grande gulag che va dall’Himalaya ai mari del Sud Est, non lasciano affatto sperare in un ravvedimento dei dirigenti del Partito. Anzi. Il capo comunista del Tibet Qi Zhala ha ispezionato ieri una delle aree più calde dei recenti scontri, seguiti ai numerosi suicidi di monaci e laici per autoimmolazione avvenuti nei mesi e nelle settimane scorse. L’occasione del suo viaggio è stata la celebrazione di una delle opere pubbliche più imponenti dell’amministrazione statale, una superstrada tra il Sichuan e Lhasa, presentata come un importante regalo fatto alle popolazioni soprattutto tibetane del Sichuan. Ma tutti sanno che le auto e i camion che viaggeranno su questa arteria porteranno altri coloni e altre merci cinesi, come già è avvenuto con la ferrovia Pechino Lhasa e altre vie di collegamento tra la “Madrepatria” e il Tibet centrale. Non è più un segreto che i tibetani sono oggi una sparuta minoranza nell’oceano di cinesi han da Lhasa ai capoluoghi degli altipiani dell’est, un tempo sotto il controllo del Dalai lama.
A Mozhugongka, uno dei distretti più remoti serviti dalla Superhighway, vicino ai luoghi degli ultimi scontri, Qi Zhala ha arringato diversi funzionari, dirigenti di polizia e soprattutto i capi dei “Comitati di monastero”, creati per “purgare” dall’interno i “sovversivi estremisti”. Nel discorso riprodotto sui siti web ufficiali, Qi li ha minacciati letteralmente di “licenziamento” e di altri provvedimenti ancora più seri se in futuro permetteranno “il verificarsi non solo di grandi, ma anche di medi o piccoli incidenti”. “Dobbiamo colpire duramente – ha detto – tutte le attività separatiste, distruttive e criminali della cricca del Dalai lama”, riferendosi chiaramente alle proteste dei giorni scorsi, attribuite come sempre alle direttive del leader tibetano in esilio.
La rabbia montante della autorità non è nuova, e dal giorno dell’occupazione definitiva del 1959, quando il Dalai lama fu costretto alla fuga, le misure repressive sono cresciute in maniera proporzionale all’odio della popolazione tibetana verso la presenza cinese. Non c’è mai stato un ripensamento di Pechino – come sembra accadere in Birmania – sull’efficacia reale della politica del pugno inflessibile. Le teorie sono analoghe a quelle usate in passato dai generali di Rangon: 1: la democrazia non può diventare anarchia; 2: Il governo porta il progresso a popolazioni incapaci di migliorare da sole le proprie condizioni; 3: senza un forte governo centrale il Paese si smembrerebbe indebolendosi specialmente ai confini.
Oggi che in questa fase politica di transizione la Birmania affida ad Aung San Suu Kyi il compito di tenere sotto controllo il risentimento della popolazione e dei gruppi etnici verso le angherie subite, in Tibet non esiste un’analoga figura. O almeno esisterebbe, ed è il Dalai lama, ma non è nemmeno presa in considerazione dai dirigenti comunisti. Più volte il leader esule si è offerto di mediare tra Pechino e la rabbia indipendentista di molti religiosi e laici del suo Paese, chiedendo in cambio del suo ritorno una “equa autonomia” del Tibet sotto il controllo economico e militare di Pechino. Ma solo Deng Xiao Ping si disse interessato a trattare su questa ipotesi. Dopo la sua morte non lo ha fatto nessun altro, se non uno dei suoi successori, a sua volta deceduto senza nemmeno poter avviare il processo.
Per questo i fucili sono ancora il rimedio considerato più efficace da Pechino per tenere a bada i ribelli, oltre alla collaborazione di un gruppo di religiosi tibetani che hanno dimostrato nel tempo la loro fedeltà al Partito. Il discorso di ieri del leader comunista Qi Zhala era rivolto soprattutto a loro, perché si “annidano” proprio nei monasteri – parole sue – gli estremisti, ovvero i fedeli del Dalai lama “aiutati dai governi dell’Occidente” per screditare l’immagine cinese nel mondo e favorire “la divisione della madrepatria”.
La sua osservazione sulla pericolosità degli istituti religiosi come centri di promozione del dissenso non è casuale, perché da tempo i “Comitati” monastici – formalmente legati al Partito – stanno preparando ufficialmente la successione all’attuale Dalai lama. Oltre a chiedere ai monaci l’abiura della guida spirituale del leader esule fin dal momento di entrare in convento, cinesi e lama pro-regime hanno ora un altro strumento per selezionare gli amici dai nemici. E’ infatti sempre più frequente la richiesta ai monaci di partecipare alle cerimonie religiose di venerazione di una controversa figura del pantheon tibetano, Gyalpo Shugden, considerato dal Dalai lama uno “spirito demonico” e “dannoso per la causa tibetana”.
E’ una storia complessa che da molti anni divide la comunità tibetana e gli stessi occidentali seguaci dei lama dell’Himalaya, anche se finora solo un piccolo gruppo di devoti ha rifiutato il consiglio del Dalai lama di abbandonare il culto. Ma grazie al finanziamento di Pechino e all’aiuto di numerosi lama residenti in Occidente, i templi dedicati a Shugden si stanno moltiplicando in numerose regioni degli altipiani, e i leader comunisti partecipano regolarmente all’inaugurazione delle nuove statue del controverso spirito.
Sebbene apparentemente questo metodo di coercizione sia meno cruento di un intervento armato dell’esercito, ha creato nelle piccole e grandi comunità monastiche e laiche tibetane una divisione profonda e un astio senza precedenti, oltre a vere e proprie persecuzioni contro quanti si dichiarano contrari al culto sconsigliato dal Dalai.
Viste le premesse, è difficile dunque immaginare una transizione su modello birmano negli anni e forse decenni a venire. Accomunati dalla stessa religione buddhista, i generali e Aung San Suu Kyi stanno cercando – e in parte trovando – un’intesa basata sulla fiducia. Sanno che in nome degli insegnamenti comuni del perdono e dell’eliminazione del rancore, ognuno cercherà di rispettare la promessa fatta per aprire una nuova fase di collaborazione verso il progresso e la democrazia, Non sarà facile come dirlo a parole, ma entrambi i contendenti sono quantomeno d’accordo in linea di principio.
Nel caso del governo laico cinese, invece, non esiste nemmeno questa premessa, vista l’ideologia anti religiosa che applica la regola del dividi et impera attraverso molti religiosi ai quali vengono affidati ruoli importanti nel Partito e nel Paese. Forse, come nel caso della Rivoluzione culturale degli anni ’60, un giorno Pechino si accorgerà degli errori e dei crimini commessi. Ma è difficile immaginare ciò che sarà sopravvissuto di questa antica cultura al termine del più lungo e rigido inverno della sua storia moderna.