Ultimamente i controlli della polizia cinese nelle case di tibetani si stanno intensificando.
di Railmondo Bultrini, La Repubblica. Mancano poche ore al Losar, il Capodanno tibetano che cade il 22 febbraio. Questa vigilia, fin dall’antichità considerata astrologicamente infausta, è stata funestata da una inedita serie di autoimmolazioni per protestare contro il trattamento riservato ai tibetani dal regime cinese, e per chiedere il ritorno del Dalai lama oggi esule in India. Il numero di suicidi tentati o riusciti nell’anno della Lepre appena passato ha superato i venti, una escalation senza precedenti mentre si appresta l’Anno del Dragone d’Acqua, con le solite incertezze di sempre, le solite tensioni, l’abituale e se possibile ancora più crudele repressione delle forze dell’ordine cinesi.
Eravamo stati a Lhasa alla vigilia di un altro Capodanno, nel primo anniversario dalle rivolte del 2009, a cinquant’anni esatti dalla occupazione della ex capitale e la fuga del Dalai lama con il primo nucleo di tibetani esuli che sono oggi oltre 100mila. Anche allora i soldati dell’Esercito del Popolo in uniforme verde erano dislocati in assetto anti sommossa sui tetti degli edifici che circondano il Jokhang, la sacra mèta finale dei turisti e specialmente delle frotte di pellegrini giunti a piedi e spesso in prostrazione da luoghi lontani come il Sichuan e lo Yunnan, ai confini con la Cina. Sul selciato della circuambulazione rituale, pattuglie formate da una dozzina di giovani soldati marciavano su e giù al passo dell’Oca lungo tutto il perimetro dell’area del tempio, tra la folla dei negozi dove si vendono carni, pelli, incensi, burro, oggetti sacri. Altri soldati erano fissi agli angoli delle strade più frequentate e di tanto in tanto fermavano qualcuno per un controllo.
In quel clima di perenne intimidazione, ben pochi celebrarono le festività del Nuovo anno, e anche oggi il Losar, anziché essere una ricorrenza di gioia per le famiglie che si riuniscono tradizionalmente a rendere omaggio ai propri vecchi e ai nuovi nati, è diventato uno dei tanti momenti di riflessione sulla difficile sorte che continua ad affliggere i tibetani sia dentro che fuori dal Paese delle Nevi. Per questo nessuno ha voglia di festeggiare, limitandosi alle cerimonie religiose tradizionali.
Per paradossale che possa sembrare, com’era già successo negli anni scorsi, anche durante questo Losar il governo cinese sta cercando però di forzare ogni tibetano a rispettare le antiche abitudini, specialmente le danze, i canti e i giochi di abilità, sia per fingere che sia tutto “normale”, sia per convincere i turisti che il bucolico Tibet è indifferente alle proteste di “pochi separatisti sobillati dal Dalai lama”, come ripetono le autorità. Ogni provincia, distretto e municipio ha ricevuto ordine di costringere la popolazione a partecipare alle cerimonie pubbliche e agli spettacoli, specialmente quelli organizzati dalle amministrazioni locali. Le conseguenze per chi non dovesse accogliere l’”invito” potrebbero essere molto serie, fino al licenziamento e la “schedatura” come dissidente.
E’ un fatto però che nonostante le possibili ritorsioni, molti tibetani continuano a manifestare il loro dissenso e in casi estremi a darsi la morte. Una tendenza che – a meno di un miracolo – sembra destinata a non interrompersi né in questo nuovo Anno del Drago né nei successivi. Le sole debolissime speranze di una svolta sono riposte nel cambio al vertice del Partito e del governo previsto a breve. Un’ipotesi considerata poco più che utopica. Ma anche se i segnali della vigilia sono come sempre poco incoraggianti, non possiamo non rivolgere un augurio a questo popolo che da 60 anni lotta per reclamare i propri diritti, tra i quali quello di non dover festeggiare il nuovo anno su ordine del Partito.
lunedì, 20 febbraio 2012
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