Articolo di Piero Verni pubblicato il 20.10.11 sul Riformista.
In un crescendo impressionante di avvenimenti tragici, due giovani tibetani sono stati ieri abbattuti… a raffiche di mitra da agenti della Polizia Cinese mentre dimostravano pacificamente per la liberazione del Tibet. L’episodio è avvenuto nel villaggio di Karze, una prefettura autonoma tibetana dello Sichuan, importante provincia della Cina Popolare. Poco ore prima della sparatoria Tenzin Wangmo, una monaca ventenne del monastero Dechen Choekhorling della contea di Nnegaba, sempre nello Sichuan, si era data fuoco dopo aver gridato per alcuni minuti slogan in favore della libertà del Tibet. Con la sua morte sono quindi ben nove le persone che quest’anno si sono immolate con il fuoco per protestare contro l’occupazione del Tibet. Cinque solo in queste prime settimane di ottobre. Di estrema prudenza è la posizione dell’Amministrazione Tibetana in Esilio che ha chiesto soprattutto l’intervento della diplomazia internazionale e celebrato ieri una giornata di preghiera. Più radicali sono invece le reazioni della società civile dell’esilio tibetano. Uno dei principali intellettuali della diaspora, lo scrittore Jamyang Norbu, si chiede anche se non sia venuto il momento perché la direzione della lotta di liberazione passi nelle mani della resistenza interna visto che di fatto l’ex Governo tibetano in esilio è stato dichiarato sciolto nei mesi scorsi dallo stesso Dalai Lama. Claudio Cardelli, Presidente dell’Associazione Italia-Tibet che ha lanciato in questi giorni una riuscita campagna su Facebook dal nome “Torce Umane in Tibet”, lamenta l’assordante silenzio dei media: “Cerchiamo con questa iniziativa, che ha già raggiunto oltre 2500 adesioni e non solo in Italia, di compensare il vergognoso silenzio della stampa italiana su quanto sta accadendo in Tibet”. In effetti il silenzio, o almeno il quasi silenzio, non è unicamente della stampa italiana. Nove immolazioni con il fuoco meriterebbero sicuramente un’eco molto più vasta di quanto non stia accadendo. Anche perché non è ben chiaro quello che questi avvenimenti possono innescare. Non a caso nel suo lucido intervento, Jamyang Norbu ricorda come le rivoluzioni arabe degli scorsi mesi partirono proprio dalla morte di Mohamed Bouazizi, che il 4 gennaio scorso si diede fuoco a Tunisi per protestare contro il regime tunisino innescando quel profondo sconvolgimento che ancora sta scuotendo il mondo arabo. Sconvolgimento che fin dall’inizio ha enormemente preoccupato la dirigenza cinese che è arrivata al punto di proibire per settimane l’uso del termine “gelsomino”, parola simbolo della rivolta, sulla stampa e su Internet. Infatti quella Cina che offre a un’Europa in profonda crisi economica e identitaria l’acquisto di buona parte del suo debito pubblico, non è la nazione forte e sicura immaginata da molti centri di potere politico ed economico. Oltre alla crisi tibetana, ci sono i mai risolti casi degli uiguri e dei mongoli. Così come all’interno della stessa popolazione han, Pechino deve affrontare i problemi causati dalle minoranze religiose che non si piegano alla sua repressione. Inoltre lo stillicidio di migliaia di piccole “rivolte del pane”, espressione rabbiosa della disperazione dei milioni e milioni di persone costrette a vivere in condizioni di autentica indigenza. Infine, forse lo scenario più inquietante, aleggia nel cielo sopra Pechino lo spettro dello scoppio di una bolla immobiliare che potrebbe avere effetti devastanti. Ecco perché la dirigenza cinese è così preoccupata dalle terribili fiamme che sempre più numerose illuminano gli sconfinati orizzonti del Tetto del Mondo. Però l’algida chiusura ad ogni ipotesi di mutamento potrebbe non essere la via migliore da seguire. Per non cambiare niente, i signori di Zhongnanhai rischiano di far crollare tutto, incapaci di vedere quella scintilla che secondo Mao era in grado di incendiare l’intera prateria.
Piero Verni