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Quando il buddismo diventa rivolta
Settembre 26th, 2011 by admin

Come in altre fasi della storia dei paesi dell’Asia i religiosi sfidano la dittatura e scendono in piazza. Dalle fiamme del Vietnam a Rangoon. Quando il buddismo diventa rivolta. di BERNARDO VALLI.

La folla di giorno in giorno sempre più gonfia (c’è chi ieri azzardava più di centomila persone) raccolta attorno a un plotone di teste rasate e a tuniche color zafferano nelle strade di Yangon. L’ex capitale del Myanmar (un tempo Birmania), ricorda a chi ha vissuto i drammi dell’Asia negli ultimi decenni tanti altri avvenimenti di cui i monaci buddisti sono stati i protagonisti. Il Buddismo conta da tempo numerosi fedeli in Occidente, ed è in netta espansione sia in Europa sia in America.Ma per il grande pubblico è spesso ancora una religione esotica che adora un saggio in meditazione, e, a volte, degli dei con tante braccia, in pagode con gli angoli dei tetti rialzati e dei guardiani severi. I più avveduti lo considerano una filosofia di rinuncia al mondo, o di serenità in un mondo senza dei. Rari, nel grande pubblico, nonostante la sua grande e rapida diffusione, non solo tra i giovani, sono coloro che considerano il Buddismo quel che esso via via è: vale a dire una regola di vita e un metodo di condotta del pensiero, una filosofia, un culto devoto, un rito, una gnosi di grande libertà, direi senza confini. C’è chi dice licenziosa. Ed è ancora di più.
Esso si interessa a tutti i grandi aspetti dell’attività umana: dall’arte alla logica. I suoi seguaci hanno scavato, costruito, scolpito, dipinto e cesellato. E pochi hanno ragionato più di loro e criticato l’esperienza e la ragione. Questa mezza predica, che suona ai nostri giorni un po’ semplicistica o antiquata, mi fu impartita anni fa in Viet Nam, a Saigon, quando alcuni bonzi si bruciarono sulla pubblica piazza. Io osservai i poveri resti, carbonizzati, con orrore. Un paio di monaci si erano cosparsi di benzina e avevano acceso un semplice fiammifero, appiccandosi il fuoco. Al momento giudicai quel sacrificio, quel suicidio, un atto di fanatismo. Ma quel che accadde poi mi indusse ad essere meno drastico. Il Viet Nam non era un paese buddista. I buddisti erano pochi. I colonizzatori francesi avevano diviso sbrigativamente per l’anagrafe la popolazione in buddisti e cattolici. In realtà la maggioranza era dedita al culto degli antenati, ispirato dal confucianesimo. Ma le grandi ricorrenze erano celebrate nelle pagode, tenute dai monaci buddisti. La cui forte influenza si opponeva a quella del potente clero cattolico, irrobustitosi all’ombra del colonialismo ma percorso da un autentico nazionalismo. Un nazionalismo che si scontrava a quello comunista di Ho Chi Minh. In quel febbraio del 1962 Kennedy era da poco diventato presidente degli Stati Uniti e nel Sud Viet Nam abbandonato dai francesi (sconfitti a Diem Bien Phu otto anni prima) i consiglieri americani si moltiplicavano. Ed era in discussione l’invio di reparti combattenti per contenere e respingere la guerriglia guidata dal regime comunista del Nord. I Viet Cong erano inseguiti nelle risaie e sulle montagne dell’Annam dai primi elicotteri della cavalleria yankee, che precedeva il non lontano arrivo dei marines. Al potere c’era il cattolico Diem, un nazionalista autoritario, che reprimeva gli oppositori, dedicando una particolare attenzione alle pagode, ritenute centri di sovversione, infiltrati dai comunisti. In realtà i monaci erano dei pacifisti, ma il loro pacifismo si scontrava con il clero cattolico, in gran parte fuggito dal Nord comunista e quindi ansioso di ottenere una rivincita. I bonzi si erano bruciati sulla pubblica piazza, in pieno giorno, per protestare contro le angherie subite dal regime di Diem. L’onnipotente cognata del presidente Diem, la signora Ngo Dinh Nhu, chiamò l’immolazione dei monaci buddisti “una barbecue”. Una definizione che scandalizzò anche la Casa Bianca, già inquieta per la corruzione e l’incapacità dei governanti di Saigon ai quali stava per dare un appoggio militare sempre più impegnativo. Cosi gli americani cominciarono a sostenere i generali sudvietnamiti che l’anno successivo avrebbero scalzato dal potere con un colpo di Stato il regime di Diem. Il sacrificio dei bonzi precedette l’assassinio di Kennedy, il quale provocò l’avvento di Lyndon B. Johnson alla Casa Bianca. E quindi l’inizio della vera guerra americana in Viet Nam, in sostegno dei generali golpisti che avevano cacciato dal potere il cattolico Diem. Quando Kennedy fu ucciso c’erano nel Sud della penisola indocinese 16.300 militari americani che in pochi anni arrivarono a mezzo milione.
Ho pensato a lungo che i fiammiferi dei monaci buddisti avessero contribuito ad accendere il conflitto. Mi è capitato di cercare, invano, negli anni successivi, sul selciato di Saigon, l’ombra scura dei corpi carbonizzati ormai cancellata dal tempo. Certo, forzavo un po’ il significato e l’importanza di quel sacrificio, che la storia considera un semplice episodio. E che io non giudico più da un pezzo un atto di fanatismo. Anche perché da allora, durante la lunga guerra, andavo spesso a trovare i monaci buddisti, i quali mi insegnavano con toni sommessi che la loro religione non è basato sull’orgoglio, sulla violenza e la potenza, ma sull’intelligenza e la concordia e la pietà. Budda, il fondatore scomparso venticinque secoli fa nel deserto villaggio indiano di Rumindei, dicevano, è ancora l’autore della rivoluzione spirituale e storica dell’Asia. Essi mi offrivano queste loro verità mentre il comunismo trionfava nella Cina di Mao e stava per sconfiggere il più potente esercito dell’Occidente nella Penisola indocinese. Pareva un dolce delirio. Il loro discorso mi sembrava in quegli anni molto simile a quello sul cristianesimo degli ultimi gesuiti ancora presenti in Viet Nam, prima del crollo del regime sudista e il trionfo di quello del Nord comunista. Quei discorsi, ripetuti nei nostri giorni, non sono più tanto deliranti nell’Asia del nuovo millennio. Vi furono altri sacrifici di monaci buddisti, in Viet Nam. Dopo quattro anni, i bonzi appoggiarono la rivolta degli studenti. E alcuni di loro scontarono lunghe pene di prigione. Prima in quelle sudiste e poi nei campi di rieducazione comunisti.
Il Tibet è il teatro della grande tragedia buddista. A Lhasa due anni fa, mentre osservavo i pellegrini prostrati davanti al tempio di Jokhang, la mia guida, un giovane bonzo nato dopo l’annessione del paese alla Cina, non ha risposto alla mia banale e inopportuna domanda: “Come va con i cinesi?” Nessuno ci ascoltava ma era di pessimo gusto, come ignoto visitatore straniero, che io gli ponessi un interrogativo tanto rudimentale. Quasi provocatorio. Sono stato punito. Mi ha guardato dall’alto in basso e ha continuato a illustrarmi la storia del santuario vecchio di mille trecento anni. Insieme alle condizioni di vita, certamente migliorate sul piano economico, dopo anni di privazioni e di umiliazioni, il Tibet ha cambiato faccia. Non è più il paese che era prima di diventare una provincia autonoma cinese. Il buddismo ha perduto quella che considerava la sua patria. I Lama, come tutti gli altri tibetani rifugiatisi in India o in altri paesi, hanno potuto conservare le loro convinzioni, ma nel nuovo ambiente stentano a mettere le radici. Per i tibetani è crollata una struttura secolare. Per i buddisti in generale è stato come smarrire un punto di riferimento.

Nella loro azione i bonzi birmani pensano al Tibet inghiottito dalla Cina? L’attivismo della grande comunità monastica non è nuovo. I monaci ebbero un ruolo determinante nella lotta per l’indipendenza dal colonialismo britannico, ottenuta nel 1948. E nel 1988 hanno partecipato ai cortei di protesta nelle strade di Rangoon, fino al colpo di Stato del 18 settembre. E hanno poi rifiutato le offerte dei militari alle pagode, dopo che i generali avevano ignorato la massiccia vittoria della Lega Nazionale per la democrazia (LND) di Aung San Suu Kyi, alle elezioni del maggio ’90. Consapevoli dell’enorme influenza dei religiosi, i generali hanno appesantito i controlli attorno alle pagode. E questo, insieme ai generosi regali, avrebbe ammansito non pochi vecchi monaci influenti. Non è dunque l’insieme della comunità religiosa che è scesa per le strade. Nel cuore della folla ci sono i giovani bonzi. Le cui rivendicazioni vanno ormai oltre le scuse chieste in un primo tempo al regime per gli atti di violenza commessi dai militari all’inizio del mese. Il movimento religioso si è saldato con quello politico e chiede un cambio di regime. Come in tanti altri momenti della storia asiatica, il buddismo non è più soltanto la religione della meditazione.  (25 settembre 2007)

http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/esteri/myanmar-editoriale/myanmar-editoriale/myanmar-editoriale.html

 


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