“Ricordare che dobbiamo morire è il miglior modo che conosco per evitare la trappola di pensare che si abbia qualcosa da perdere“. Steve Jobs a Stanford, 2005.
di Raimondo Bultrini
Steve Jobs ha lasciato questo mondo. Quantomeno con il corpo fisico, che non ce l’ha fatta a resistere al cancro. Virtualmente infatti resterà ben presente nella rete, dove sarà giustamente celebrato e citato finché esisterà una qualunque forma di comunicazione umana sulla terra. Già in vita è stato un guru, figurarsi in morte, con il frutto del suo lavoro che è ormai storia del mondo.
Uno degli aspetti che mette questo sito in relazione a Steve Jobs è il suo rapporto con l’Oriente, e specialmente con l’India e il Giappone buddhista. E’ una pagina finora ben poco raccontata della sua vita. Paul Freiberger e Michael Swaine ne accennano nel loro “Fire in the Valley: The making of the personal computer”. Per capire l’apertura visionaria del genio dei Mac e degli IPhone, gli autori ricordano tra gli altri il viaggio di Jobs e del suo amico Dan Kottke nel ’73 in India, quando l’inventore di Apple aveva appena 18 anni e cercava qualcosa in Asia che non trovava a San Francisco. Da sempre si era dedicato alla lettura della filosofia occidentale e orientale, e il suo itinerario nella terra dei Gandhi e della nascente High Tech di Bangalore fu soprattutto spirituale: si rasò la testa e finì in un ashram induista, il Kainchi sulle Kumaon Hills in Uttar Pradesh. L’amico Kottke ha definito quell’esperienza “un lungo pellegrinaggio interiore”. “Eccetto – ha aggiunto – per il fatto che fuori non sapevamo dove stavamo andando”. La storia dirà che Steve e Dan volevano incontrare nel suo convento dell’UP un celebre maestro induista, Neem Karoli Baba, che aveva già parecchi discepoli occidentali e oggi è ancora venerato da celebrità, come Julia Roberts. Ma all’arrivo dei due amici il sant’uomo se n’era appena andato all’altro mondo. Era il settembre del 1973.
Jobs tornò negli Stati Uniti e mentre continuava a cercare l’oltremondano anche nelle droghe sintetiche come l’LSD (“una delle tre esperienze più importanti della mia vita”, disse) si mise a seguire seriamente il buddhismo Zen, che insegna a concentrare e rilassare la mente sulla natura vuota e transitoria di tutti i fenomeni. Una drastica virata dalla direzione presa in India con una religione che crede nella esistenza di un Dio creatore eterno. Il suo maestro fu il giapponese Kobun Chino Otogowa, un discepolo diretto del celebre Shunryu Suzuki, tra i primi a rendere popolare il Soto Zen in California anche tra gli occidentali come Jobs, nato a San Francisco.
Steve Jobs prese a sedersi sempre più spesso davanti a un muro bianco in posizione di meditazione o zazen con Kobun Chino e altri giovani studenti americani della post beat generation. Fu probabilmente molto preso da questa scoperta, visto che si sposò con un rito giapponese celebrato da Kobun, e il suo maestro dovette faticare non poco per convincerlo a non diventare monaco. Gli disse di praticare Medit-Azione, ovvero agire riflettendo. Per Jobs voleva dire non sprecare in un monastero la sua idea già avanzata di applicazioni hardware e software basate proprio sui principi dell’essenzialità zen, dalle forme delle icone illustrative al logo della mela morsa.
Il creativo scomparso di certo non applicò solo il buddhismo, ma molte altre filosofie e sue personali attitudini meditative che aveva scoperto lungo il percorso. Però dicono che ogni mattina finché ce l’ha fatta, sia che piovesse sia che bruciasse l’asfalto, ha camminato a piedi nudi attorno al grattacielo di casa. Portava l’attenzione sui passi alla maniera zen, per lasciare che il corpo misurasse la terra e i movimenti. Poi rientrava e dopo una doccia via al lavoro su qualche nuova idea percepita anche grazie a quei piedi. Concentrandosi su di essi, impediva alla sua mente di volare troppo in alto col rischio di perdere contatto con i limiti delle tecnologie umane.
Dicono i suoi fratelli di fede che le azioni compiute in questa si svilupperanno nelle prossime vite sotto diverse forme. Di certo, per il bene che ha fatto semplificando la vita a milioni di persone, in alto saranno clementi e forse stavolta non lo rimanderanno di nuovo nel girone infernale del listino Nasdaq.
http://bultrini.blogautore.repubblica.it/2011/10/06/un-buddhista-virtuosamente-virtuale/?ref=HREA-1
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“Il mio modello sono i Beatles. Erano quattro ragazzi che tenevano sotto controllo le rispettive tendenze negative e si bilanciavano a vicenda. E il totale era più grande della somma delle parti”. Intervista a “60 Minutes” del 2008.
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“Questo è uno dei miei mantra: focalizzazione e semplicità. Semplice può essere più difficile che complesso. Bisogna lavorare duro per arrivarci. Ma alla fine ne vale la pena, perché così si possono muovere le montagne”. Intervista a Business Week, 1998.
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“Essere l’uomo più ricco del cimitero non mi interessa. Andare a letto ogni sera sapendo di aver fatto qualcosa di meraviglioso, questo è importante per me“. Intervista al Wall Street Journal del 1993.