Del Dalai Lama, l'ex padrone di casa, non c’è traccia. Nessuna immagine, nessun riferimento da parte dei monaci che accolgono i flussi di visitatori al Potala.
Pechino soffoca con turismo e soldi la spiritualità buddista. di Michele Esposito
Bandiere cinesi sul Potala. Sui tetti del cuore antico di Lhasa, capitale di un Tibet sempre più lontano dall’immagine di culla della spiritualità buddista che per secoli lo ha segnato. La regione autonoma himalayana oggi è saldamente nelle mani del governo cinese. Pronto a sedare qualsiasi focolaio di dissenso in nome del mantenimento dell’ordine e della stabilità. Oggi in Tibet non c’è spazio per le proteste. Quelle che nella primavera del 2008 incendiarono Lhasa scatenando la dura repressione di Pechino sono un ricordo sbiadito, visibile solo nei drappelli di militari che controllano le antiche vie del cuore tibetano della capitale.
LA SFILATA DEI PELLEGRINI BUDDISTI. Lì, sotto lo sguardo vigile di soldati in tenuta mimetica, sfilano nel silenzio i pellegrini buddisti che ogni giorno percorrono il circuito attorno allo Jokhang, l’edificio più sacro del Tibet. Al suo interno, gli autoctoni effettuano lentamente il rituale giro delle cappelle, dove campeggiano grandiose statue dedicate ora a Sakyamuni (il Buddha storico, detto del presente) ora ai diversi Bodhisattva (esseri che hanno raggiunto lo stato di illuminazione) che vigilano sulla sorte dei fedeli. Ai quali, in numero di giorno in giorno maggiore, si affiancano centinaia di turisti, cinesi soprattutto, che affollano le anguste sale dello Jokhang incuranti del religioso silenzio che la dottrina tibetana imporrebbe.La crescita esponenziale del turismo cinese
Effetti del boom economico della regione, su cui la Cina punta con decisione strizzando entrambi gli occhi al turismo. Solo nei primi sei mesi del 2011, sono stati 2,2 milioni i visitatori che hanno affollato i lussuosi alberghi di Lhasa e dintorni. Nel 2009, secondo le stime ufficiali, il flusso raggiunse quota 5,6 milioni, di cui 5,4 provenienti dalla Cina. Oggi il Tibet ha aperto le porte ai connazionali cinesi, mentre per gli occidentali è più complicato ottenere il visto per entrare in un territorio sottoposto al rigido controllo delle autorità.
ENTRATE PER 5,6 MILIONI DI YUAN. Di certo, il boom del turismo ha portato fondi insperati in un’area segnata da una povertà endemica. Nel 2009 le entrate del settore sono state pari a 5,6 milioni di yuan, con un tasso di crescita annuale pari al 147%. Una vera e propria svolta per l’isolata regione himalayana.
L’ONDATA DI RIFORME ECONOMICHE. «Non c’è alcuna possibilità che il Tibet torni indietro. È una parte inalienabile della Cina», ha assicurato il vicegovernatore locale Duo Tuo, parlando a Lettera43.it. L’annessione del territorio alla Repubblica popolare, ha ricordato, ha portato solo benefici, grazie «ad una serie di riforme economiche e sociali prima delle quali in Tibet vigeva un sistema di schiavitù personale» con pochi grandi latifondisti che detenevano tutte le risorse disponibili.
L’inarrestabile ascesa di Lhasa
Oggi i progetti di sviluppo collettivi messi in campo dal Partito comunista hanno reso la società tibetana più egualitaria e più ricca, sostengono le autorità. E in effetti Lhasa appare come una città in rapida crescita, puntellata da cantieri aperti e da edifici nuovi di zecca. Simboli di un benessere giunto quasi all’improvviso, così come la schiera di nuovi immigrati cinesi provenienti dalle regioni limitrofe.
LA DENUNCIA DEL PREMIER TIBETANO. Per la resistenza tibetana, sono queste le conseguenze della sinizzazione imposta da Pechino. Che però respinge ogni critica al mittente tacciando il Dalai Lama in esilio di «attività violente e separatiste, strumento della propaganda anti-cinese messa in atto da alcune forze occidentali», come spiegato da Duo Tuo. Per il quale la repressione delle libertà civili denunciata solo qualche giorno fa dal nuovo premier tibetano in esilio Lobsang Sangay sono solo atroci falsità che portano «instabilità, e quindi povertà».
LE TRACCE DELLA PROPAGANDA CINESE. Per le strade, tuttavia, i segni della propaganda cinese sono evidenti. Grandi manifesti ricordano i 60 anni della «liberazione pacifica» del Tibet, ovvero della sua annessione alla Cina. E nell’imponente museo locale una mostra ad hoc ripercorre i grandiosi progetti infrastrutturali (ferrovie ad alta velocità, strade asfaltate fino a pochi anni fa inesistenti) attuati dal governo centrale, sulle note della colonna sonora di Ritorno al futuro. Del Dalai lama, non c’è traccia. Nessuna immagine, nessun riferimento da parte dei monaci che accolgono i flussi di visitatori ora al Potala, ora al monastero di Tashilumpo, a Shigatse, a circa 250 chilometri dalla capitale.
LA GUIDA SPIRITUALE IMPOSTA DA PECHINO. Il complesso è il più grande della regione, residenza ufficiale del Panchen Lama, seconda guida spirituale del Tibet. O almeno di quello imposto dal governo cinese, che oggi ha 22 anni e si chiama Gyaltsen Norbu. La sua presenza nel monastero è stata però ridotta ai minimi termini: nel 1995 il Dalai Lama aveva infatti scelto un altro “reincarnato”, un bimbo di sei anni che fu immediatamente trasferito dalle autorità in un luogo sconosciuto.
POCHI MONACI, TROPPI TURISTI. Oggi Tashilumpo è soprattutto un’attrazione turistica, assediata da autobus di cinesi pronti a pagare 150 yuan per scattare foto anche all’interno delle sacre cappelle. E le poche decine di monaci rimasti si guardano bene dal fare cenno ai dissidi intercorsi tra l’ex Panchen Lama – il decimo, morto nel 1989 – e il goeverno centrale. La resistenza tibetana non ha spazio in Tibet. Prende vigore nei monasteri buddisti delle regioni vicine, come quello di Labrang, nella provincia del Gansu dove nei prossimi giorni è attesa la visita del Panchen Lama “cinese”, tra ferree misure di sicurezza. Alla regione autonoma non resta che crogiolarsi in un rinnovato benessere, in ossequio a un boom economico giunto assieme ad un forzato silenzio.
Domenica, 04 Settembre 2011 Fonti: Tibet Net – Phayul
fonte: http://www.lettera43.it/attualita/23581/tibet-il-silenzio-e-d-oro.htm