di Marco Del Corona, Corriere della Sera, 4 settembre 2011
Succedono cose nello strano limbo di Ai Weiwei. L’artista reinventatosi critico (del potere) sarebbe obbligato a tacere, condizione che ha accompagnato il suo rilascio, in giugno, dopo 81 giorni di detenzione. Né al momento è stato comunicato se e quando sarà processato per i reati fiscali che gli sono stati attribuiti insieme con accuse di pornografia e bigamia. Tuttavia i censori di Pechino sono tornati a occuparsi di lui. Le copie distribuite in Cina del settimanale americano Newsweek , infatti, sono state consegnate nelle poche rivendite (in centri commerciali e alberghi internazionali) senza la pagina che conteneva un articolo a firma proprio di Ai. Un testo «alla» Ai Weiwei. Nel quale, nell’inglese efficace metabolizzato durante la sua lontana scapigliatura newyorkese, parla di una Pechino città «della disperazione», di migranti «schiavi», di funzionari che «ci negano diritti basilari». Il pezzo è stato pubblicato una settimana fa e ha subìto, nella sua versione cartacea, un trattamento non infrequente quando si tratta di testi sgraditi. I giornali internazionali arrivano a Pechino e Shanghai da Hong Kong ed è nell’ex colonia, territorio speciale dotato di libertà non riconosciute nel resto della Repubblica Popolare, che ne viene esaminato il contenuto. Agli abbonati di Pechino possono non venir recapitati quotidiani internazionali o hongkonghesi se hanno articoli «sbagliati». In primavera, quando il Financial Times dedicò una pagina al revival maoista, quella stessa pagina era stata chirurgicamente fatta sparire dalle copie distribuite nella capitale. L’intervento forse più certosino risale invece al 14 aprile 2010. Una foto del presidente Hu Jintao sulla prima pagina del South China Morning Post (quotidiano di Hong Kong in inglese) era stata accompagnata da una didascalia in cui invece del suo nome in cinese era stato scritto quello di Hu Jia, un dissidente allora in carcere: ebbene, le copie distribuite agli abbonati avevano i due caratteri incriminati – Hu Jia – cancellati con un breve tratto di pennarello.
Nel suo articolo, Ai Weiwei non parlava direttamente della sua detenzione ma tratteggiava «una città di violenza», dove «la cosa peggiore è che non puoi avere fiducia nel sistema giudiziario». Una capitale dell’incubo, ha scritto. Pagine forti che nell’immediato non paiono aver avuto ricadute sulla sua libertà vigilatissima, prevista fino al 22 giugno 2012. Nel frattempo Ai ha di fatto sospeso i suoi messaggi su Twitter. Nell’ultimo, il 22 agosto, si chiedeva come la tv di Stato avrebbe dovuto definire Gheddafi dopo l’ultima offensiva dei ribelli visto che l’ aveva definito «straordinario colonnello». Nel limbo, Ai Weiwei ha preso a uscire dalla sua casa di Caochangdi. A fine agosto, per esempio, era in maglietta turchese e bermuda arancioni a giocare con il figlio tra i getti d’acqua del Village, un centro commerciale nell’area di Sanlitun, zona di shopping, locali e passeggio. Nel frattempo il governo cinese sta valutando una revisione della «legge di procedura criminale» che formalizzerebbe l’utilizzo delle sparizioni, come quella sperimentata da Ai e da decine di attivisti, una pratica ora relegata in un’ambigua zona grigia. Secondo le ipotesi rese pubbliche il 30 agosto, le autorità potrebbero detenere fino a sei mesi persone sospettate di terrorismo, grave corruzione o – categoria abbastanza generica – minacce alla sicurezza dello Stato. È bastato parlarne per allarmare dissidenti, critici e ong. Questo cova dietro il limbo di Ai Weiwei.