Dharamshala, oltre 500 tibetani protestano contro la repressione cinese
Nirmala Carvalho
I manifestanti chiedono la fine degli “omicidi” e ribadiscono l’intenzione di “non festeggiare il capodanno tibetano”. Pechino continua la repressione nella regione in vista del 50mo anniversario della rivolta anticinese. Attivista femminile denuncia aborti forzati e discriminazioni verso le donne.
Dharamshala (AsiaNews) – Oggi a Dharamshala più di 500 profughi tibetani in esilio hanno manifestato la loro solidarietà alla popolazione del Tibet, vittima della repressione voluta dal governo cinese. I dimostranti hanno urlato slogan contro “l’uccisione dei tibetani” e hanno ribadito l’intenzione di “non festeggiare il Losar” (il capodanno tibetano).
Alla vigilia del capodanno tibetano – 25 febbraio – e a pochi giorni dalla commemorazione del 50mo anniversario dalla rivolta anticinese – 10 marzo – Pechino ha aumentato i controlli nella regione. Nelle scorse settimane la polizia ha represso con la forza alcune dimostrazioni, arrestando almeno 24 tibetani. Il governo impedisce l’ingresso agli stranieri e ai giornalisti e promette di “stroncare” qualsiasi manifestazione di solidarietà al Dalai Lama.
Tenzin Choeying, direttore del movimento Students for a free Tibet (SfT), riferisce che i dimostranti riuniti a Dharamshala indossano “vestiti neri in segno di lutto” e brandiscono cartelli con la scritta “Fermate l’assassinio dei tibetani” e “No Losar”. Essi manifestano un sentimento diffuso di “cordoglio per i nostri fratelli e sorelle che sono stati uccisi in Tibet”. Il leader dei giovani studenti tibetani denuncia “l’invasione di migliaia di truppe dell’esercito cinese” per presidiare i villaggi: “Una intimidazione verso la popolazione del Tibet, perché non dia vita a proteste o ad altri atti di resistenza”.
Al coro di proteste contro la repressione imposta da Pechino si uniscono le denunce di un movimento femminile tibetano. B Tsering, presidente della Tibetan Women Association rivela che la “condizione delle donne è ancora peggiore di quella degli uomini”. Esse subiscono una “doppia discriminazione, di razza e sesso”. Le donne “che lavorano in centri governativi o nelle città devono sottostare alla politica del figlio unico” e quante rimangono incinte una seconda volta “sono costrette ad abortire”. “Questa è la politica avviata dal governo cinese – accusa l’attivista – per controllare la minoranza tibetana”.