Nonostante la morsa di ferro, i tibetani non intendono piegarsi. A più riprese hanno fatto sentire il loro urlo.
La storia spesso riserva sorprese: dopo 52 anni di resistenza i tibetani continuano a sperare
di Francesco Pullia (Il Secolo d’Italia, 9 marzo 2011)
Sono ormai trascorsi ben cinquantadue anni da quando, il 10 marzo 1959, i tibetani si ribellarono apertamente alle gravi conseguenze dell’invasione del 1950 da parte della Cina comunista. La “rivolta di Lhasa”, così come viene ricordata, finì nel sangue. La repressione compiuta dall’esercito cinese fu durissima e segnò una tragica svolta. Il Dalai Lama, non ancora quattordicenne, fu costretto a seguire la via dell’esilio in India dove, dopo un viaggio spossante tra gli insidiosi valichi innevati, trovò ospitalità insieme ad oltre centomila profughi. Lì diede successivamente vita ad un governo democratico, con sede a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh, nel Nord dell’India, con lo scopo di sostenere la lotta dei tibetani e la sopravvivenza al genocidio perpetrato da Pechino.
Come altrimenti definire, se non come genocidio, l’aggressiva, pesantissima, colonizzazione, attuata in Tibet nel corso di più di mezzo secolo dalla Repubblica popolare cinese? A causa della politica di sterilizzazioni e aborti forzati imposta dalla Cina, i tibetani si trovano, infatti, ad essere ridotti, nella propria terra, a malapena a sei milioni rispetto a dieci milioni di occupanti cinesi. Chi è tibetano non può avere in Tibet una propria cultura, una propria lingua, una propria bandiera, una propria religione, a meno che non voglia andare incontro a lunghe e penose detenzioni, a torture e vessazioni d’ogni tipo. L’antica capitale Lhasa, anche dal punto di vista d’assetto urbanistico, è stata stravolta. L’intero Tibet è sottoposto a cinesizzazione, allo sradicamento di un patrimonio culturale straordinario, al depauperamento delle risorse naturali, di un’inestimabile ricchezza anche in termini di biodiversità. Alcuni dei seimilacinquecento monasteri distrutti dalla furia delle guardie rosse nel periodo in cui impazzava il farneticante dettato maoista sono stati, è vero, ricostruiti ma solo con il fine di utilizzare i monaci come specchietto per allodole per occidentali ingenui e sprovveduti. Pechino non esita, in realtà, a intromissioni e controlli. Si pensi soltanto alla scomparsa nel 1995, del piccolo Gedhun Choekyi Nyima, riconosciuto dal Dalai Lama come reincarnazione dell’undicesimo Panchen Lama, e alla sua sostituzione con un altro bambino, figlio, guarda caso, di funzionari comunisti oppure alla recente campagna di discredito ordita nei confronti di un’altra figura importante nel buddhismo tibetano come il Karmapa, anch’egli esule, dopo una fuga rocambolesca, in India.
Eppure, nonostante la morsa di ferro, i tibetani non intendono piegarsi. A più riprese hanno fatto sentire il loro urlo. E’ ancora viva nella nostra memoria l’impressione per i fatti del 10 marzo del 2008 quando, nel giro di breve tempo, l’insurrezione popolare attraversò tutto l’altopiano. Anche, allora, la reazione cinese è stata durissima. Il paese fu chiuso agli organi d’informazioni e agli osservatori stranieri per meglio coprire centinaia di uccisioni, migliaia di deportazioni e arresti, cui hanno fatto seguito processi farsa culminati con sentenze di condanne a morte, in gran parte eseguite.
E tutto questo nonostante il Dalai Lama, premio Nobel per la pace nel 1989, tenace assertore della nonviolenza tanto da proclamarsi umile discepolo gandhiano, insista da un ventennio a chiedere a Pechino l’apertura di un dialogo che conduca ad un accordo per la definizione di un Tibet autonomo all’interno della stessa Cina. Non solo Pechino non ne vuole assolutamente sapere, ma continua nel suo atteggiamento refrattario a qualsiasi soluzione che non sia quella dell’assoggettamento, della prevaricazione, dell’annientamento di un popolo. Per il governo cinese il Dalai Lama resta sempre e soltanto un pericoloso “destabilizzatore”, un “reazionario” sobillatore e i paesi occidentali sono puntualmente diffidati dall’incontrarlo e dal perorare la sua causa. Guai a parlare di autonomia, figuriamoci di libertà o indipendenza.
Già. La storia, però, spesso e volentieri ci riserva sorprese come quanto sta avvenendo nel Nord Africa conferma. Chissà se la rivoluzione dei gelsomini non finisca per estendersi al Tetto del mondo e la muraglia cinese non cominci a sgretolarsi? Dipende anche da noi e dalla capacità che avremo di fornire sostegno politico a chi si batte, con la forza della nonviolenza, contro l’odierno Golia.
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