Carri armati a Lhasa, Pechino lancia un ultimatum ai tibetani.
Il governo cinese ha confermato la morte di 10 persone durante gli scontri degli ultimi giorni in Tibet, ma accusa i manifestanti della loro morte. Il governo in esilio parla di almeno 100 vittime; i tibetani in India riprendono la marcia per tornare a casa. Lhasa (AsiaNews) – Il governo cinese ha confermato nella notte la morte di almeno 10 persone nel corso degli scontri che si stanno verificando in questi giorni in Tibet ed ha lanciato un ultimatum ai manifestanti: entro lunedì, la protesta deve finire “se non si vogliono conseguenze ancora più gravi”. Il governo tibetano in esilio cita invece “fonti non ancora confermate” e parla di almeno 100 vittime.
Secondo la Xinhua – l’agenzia di stampa ufficiale cinese – la responsabilità delle morti è da attribuirsi “ai manifestanti, che con il loro comportamento violento ed anti-sociale hanno creato danni enormi al Tibet. Le vittime sono tutte civili innocenti, bruciati a morte nel corso dei roghi appiccati dai manifestanti”.
Secondo alcuni testimoni, le strade di Lhasa sono oggi presidiate da carri armati e blindati. Alcuni battaglioni dell’esercito cinese di liberazione popolare, in tenuta anti-sommossa, hanno circondato le mura dei maggiori monasteri della capitale. Secondo Radio Free Asia, diversi monaci sarebbero stati arrestati.
Le proteste sono nate lo scorso 10 marzo, quando centinaia di persone – divenute con il tempo migliaia – hanno manifestato a Lhasa e in altre località del Tibet per commemorare le vittime della sanguinosa repressione del 1959, attuata dal governo comunista contro la popolazione tibetana che chiedeva il ritorno dell’indipendenza. Durante quelle rivolte, il Dalai Lama – leader spirituale del buddismo tibetano – era stato costretto all’esilio.
Il governo tibetano, che da allora risiede in India, ha ricordato ieri la natura pacifica delle manifestazioni: “Guidati dai nostri monaci, i fedeli tibetani volevano soltanto ricordare le migliaia di vittime morte durante una sanguinosa repressione. L’atteggiamento persecutorio del governo cinese ha scatenato le violenze, che in ogni caso il Dalai Lama condanna con forza”.
Nel frattempo, una seconda ondata di tibetani in esilio ha deciso di opporsi agli ordini del governo indiano ed ha ripreso la marcia verso il Tibet. Mentre 102 tibetani sono ancora in carcere, un secondo gruppo di 44 persone è partito stamattina dalla località di Dehra.
Chime Youngdrung, presidente del partito nazionale democratico del Tibet, dice: “Le proteste coraggiose dei nostri fratelli in patria ci hanno reso ancor più determinati nel voler continuare questa marcia e portarla a termine. Poichè siamo testimoni di una escalation di violenze da parte del governo cinese a Lhasa, crediamo che sia importante per noi ritornare a casa per riunirci con i nostri fratelli e sorelle che stanno combattendo per sopravvivere sotto l’occupazione cinese”.