Myanmar, il regime stringe la morsa – …
Dalle rivolte del 2007, i prigionieri politici sono raddoppiati. La giunta militare vuole eliminare possibili oppositori in vista delle elezioni del 2010
scritto da Alessandro Ursic
C’è stata prima la fallita “rivoluzione di zafferano” del settembre 2007, e la scorsa primavera il ciclone Nargis che ha devastato il delta dell’Irrawaddy. Tra i due eventi, e successivamente, sulla Birmania è calato il solito buio. Niente apparentemente cambia, nel Paese governato da una giunta militare dal 1962: la paladina per la democrazia Aung San Suu Kyi è sempre agli arresti domiciliari, l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari continua con le sue visite periodiche senza ottenere progressi nella mediazione. Ma qualcosa si è invece mosso, e non per il meglio: la giunta ha data un’ulteriore stretta alla libertà di espressione, riempiendo le carceri di prigionieri politici. Secondo i calcoli dell’Associazione per l’assistenza dei prigionieri politici birmani (Aappb) – un’organizzazione con sede a Mae Sot, in Thailandia – dalla saffron revolution il numero di tali detenuti è più che raddoppiato, passando da un migliaio ai 2.136 attuali: 462 sono membri della Lega nazionale per la democrazia (Nld), il partito di Aung San Suu Kyi, 224 sono monaci. In carcere sono tornati prigionieri eccellenti come Min Ko Maing, uno storico leader studentesco della “generazione dell’88”, nonché il comico Zarganar, famoso in Birmania per la sua satira contro il regime. Sono aumentate anche le pene, talmente alte da togliere ogni speranza: Zarganar, per esempio, è stato condannato a 59 anni per aver parlato con i media stranieri a riguardo della situazione umanitaria dopo il passaggio di Nargis. Min Ko Maing, per aver guidato le proteste contro il carovita che precedettero le rivolte di un anno e mezzo fa, dovrà scontare 65 anni di reclusione.“Il regime vuole fare piazza pulita in vista delle elezioni del 2010: la giunta ha tutta l’intenzione di legittimare la sua posizione di potere e vuole togliere dalla circolazione potenziali leader alternativi”, spiega a PeaceReporter Khin Cho Myint, un’ex prigioniera politica fuggita l’anno scorso dal Myanmar, e che ora lavora per l’Aapp. Parlando nella stanza che l’associazione ha adibito a memoriale dei detenuti – quando uno viene liberato, la sua foto viene tolta dalla bacheca – Cho Myint descrive un clima sempre più repressivo in patria. Anche gli avvocati di alcuni prigionieri di alto profilo sono stati incarcerati, con l’accusa di “disprezzo per la corte”. Negli internet cafè, sempre più spesso capita che agenti della polizia segreta facciano irruzione e obblighino i giovani ai computer a fermarsi sulla pagina aperta, nel tentativo di sorprendere dissidenti all’opera. I detenuti, inoltre, vengono trasferiti in carceri distanti dalle loro città per rendere sempre più sporadici i contatti con l’esterno; per molti, da inizio anno è stata annullata la possibilità di ricevere le due visite al mese di prassi.
Nel frattempo, il Myanmar continua nella transizione disegnata dalla giunta, per riprendere parzialmente il processo democratico ma assicurando ai militari un ruolo preponderante. I partiti, e diverse comunità tra le etnie che compongono la Birmania, sono divisi tra il boicottaggio delle elezioni e la partecipazione a un voto considerato comunque una farsa. La settimana scorsa l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari, arrivato alla settima visitia, è ripartito un’altra volta a mani vuote. Stavolta ha incontrato Aung San Suu Kyi, ma è stato snobbato ancora una volta dal leader supremo Than Shwe. E le richieste della leader del Nld, che chiesto di liberare tutti i prigionieri politici e riconoscere i risultati delle elezioni del 1990 che la videro trionfatrice, sono state definite “non realistiche” dalla giunta.
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