Liu Xiaobo il dissidente cinese vincitore del Premio Nobel per la Pace 2010
Il premier del governo tibetano in esilio Samdhong Rinpoche dice che questo Premio “incoraggia i difensori della democrazia, in Cina e nel mondo”. Liu è un “sincero amico” dei tibetani, che ha sempre difeso contro la repressione comunista. Pechino governa con la repressione ma la gente chiede democrazia e diritti.
Dharamsala (di Nirmala Carvalho AsiaNews) – “Assegnare il Premio Nobel per la pace all’attivista detenuto Liu Xiaobo incoraggia tutti i difensori della democrazia in Cina e in tutto il mondo”. Samdhong Rinpoche, Kalon Tripa (primo ministro) del Governo tibetano in esilio, in un’intervista ad AsiaNews parla dell’importanza del premio assegnato ieri a Liu Xiaobo, democratico dissidente cinese, che sta scontando una condanna a 11 anni di carcere, in quanto tra gli autori del documento Charta 08 che chiede maggior democrazia e rispetto dei diritti umani in Cina.
Il prof. Rinpoche appare raggiante. “Vogliamo esprimere – dice – apprezzamento anzitutto al Comitato norvegese per il Premio Nobel, che non ha ceduto alla pressioni del ‘Grande Fratello’. Sono rimasti saldi e nonostante le pressioni contrarie hanno assegnato il Premio all’attivista per la democrazia cinese Liu Xiaobo”.
AsiaNews fa notare al prof. Rinpoche che il governo cinese ha molto criticato la scelta, dicendo, tra l’altro, che è caduta su un criminale condannato e che non corrisponde allo spirito per cui il premio fu istituito.
“Questo governo comunista cinese – risponde Rinpoche – non ha un ruolo legittimo e per questo governa usando la paura, la repressione e la soppressione. Il premio Nobel Liu Xiaobo è la ‘voce’ di cui il governo cinese ha paura, la voce che il Partito comunista cinese considera una minaccia e contro la quale userà punizioni, tortura e carcere, per farla tacere. Oggi, congratuliamoci con il Comitato del Nobel per avere dato voce a questa ‘Voce’”. …
“Libertà, giustizia e uguaglianza sono diritti congeniti di ogni persona e questo è stato confermato con l’assegnazione del premio per la Pace”.“La popolazione tibetana in Tibet è repressa, ma non ha perso il proprio spirito nonostante la politica del governo cinese che attua un sistematico genocidio culturale”.
“Questo premio è un incoraggiamento per i tibetani, che presto o tardi in Tibet si otterrà giustizia. Liu Xiaobo è anche un sincero amico del Tibet. Nel passato ha invitato il governo cinese a cambiare la sua politica verso il Tibet e dopo le proteste del 2008 in Tibet [represse dall’esercito cinese con centinaia di morti e migliaia di arresti e con una legge marziale nella regione che è ancora in atto, n.d.r.] ha contribuito a scrivere ‘Dodici suggerimenti su come affrontare la situazione tibetana’, che dice che in Tibet devono essere rispettati la libertà di espressione e altri diritti”.
Circa le notizie che indicano che Liu si sia convertito al cristianesimo, Rinpoche dice che “noi vogliamo la libertà religiosa, la libertà di scegliere la religione secondo la propria coscienza è un diritto umano fondamentale. Noi auspichiamo e sosteniamo la libertà religiosa”,
“Questo grande onore attirerà l’attenzione mondiale sul movimento democratico cinese. Noi speriamo che questo Premio spinga i capi dei governi e i leader mondiali a non penare soltanto ai guadagni economici e al commercio, ma a fare pure attenzione all’aspirazione dell’umanità per la libertà spirituale, la libertà religiosa e la democrazia”.
Quei giorni di “Carta 08″ quando il dubbio spaventò il Regime
di Federico Rampini
Era il 10 dicembre 2008, lo choc della novità a Pechino fece sperare che poteva aprirsi un’altra Tienanmen: stavolta una transizione pacifica, in una Cina più ricca, più moderna, matura per la democrazia. Era il giorno del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Ricordo l’effetto-bomba che ebbe l’apparizione in simultanea su diversi siti Internet cinesi dell’appello di Carta 08, rimasto visibile per diversi giorni prima che intervenisse la censura.
E’ quell’appello che in seguito Liu Xiaobo pagò con la condanna a undici anni di carcere di massimo isolamento, deportato a 500 chilometri da casa sua. Sotto la sigla “Difensori cinesi dei diritti umani” quel 10 dicembre di due anni fa c’era una lunga lista: più di 300 intellettuali. Non i “soliti noti”, non solo cioè i dissidenti isolati e sorvegliati a vista, agli arresti domiciliari o costantemente pedinati dalla polizia. Quella volta tra i primi firmatari vidi apparire tanti “insider” del regime: professionisti stimati, avvocati di grido, scrittori e artisti non in odore di eresìa. Oltre a Liu c’era il noto giurista Mo Shaoping che disse: “Tutto quello che chiediamo, sta già scritto nella Costituzione della Repubblica Popolare”. C’erano il professor Xu Youyu, docente all’Accademia delle Scienze sociali di Pechino; un celebre avvocato di Shanghai, Zheng Enchong; il giornalista Li Datong. E soprattutto c’era un ex dirigente della gioventù comunista: Zhang Zuhua, che vent’anni prima era stato coinvolto nella primavera democratica di Tienanmen, ma poi si era rifatto una “verginità” politica, era stato riabilitato, aveva legami forti con il partito. Perciò il dicembre 2008 sembrò aprire una fase nuova.
Non più un dissenso “di testimonianza”, eroico e consapevole del proprio isolamento, votato alla sconfitta. Un pezzo di classe dirigente usciva allo scoperto e diceva: questo paese è pronto per il cambiamento. L’agenda del movimento si voleva riformista, usava il linguaggio dell’evoluzione graduale, non destabilizzante. “I valori di Carta 08 – aggiunse il giurista Mo – sono la libertà di stampa e di associazione, una giustizia indipendente, la libertà religiosa, la protezione dell’ambiente”. Un ventaglio ampio di obiettivi, per tentare di unificare le variegate anime del dissenso cinese che in passato non erano mai riuscite a marciare unite: le minoranze etniche e religiose come i tibetani del Dalai Lama, gli uiguri guidati da Rebiya Kadeer, i cattolici della chiesa clandestina dai tanti vescovi e sacerdoti detenuti; gli intellettuali in esilio come gli scrittori Gao Xingjian e Ma Jian o gli ex di Tienanmen come Xiao Qiang; gli ambientalisti come la giornalista Dai Qing, i reporter impegnati nel giornalismo d’inchiesta. Liu Xiaobo sembrava in grado di ricomporre questo mosaico. Una sfida che per vent’anni tutti avevano fallito.
L’appello del 10 dicembre elencava 19 proposte dettagliate: per la separazione autentica dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; per superare il monopolio di potere del partito unico. Sempre echeggiando letteralmente il dettato costituzionale. Per questo si diffuse la speranza, per la prima volta dopo vent’anni, che si stesse aprendo una breccia ai vertici della nomenklatura comunista. La data era cruciale. Era la vigilia del “Natale della recessione”. L’America e l’Europa erano sprofondate nella grande crisi, le esportazioni cinesi stavano crollando. Dai tempi di Deng Xiaoping e delle sue riforme di mercato, mai la Cina era stata così vulnerabile: ormai completamente integrata nell’economia globale, ne scopriva l’altra faccia, con la violenza di una tempesta finanziaria che rischiava di travolgerla. Gli ordinativi della vigilia di Natale si assottigliavano, decine di fabbriche da Shanghai a Canton chiudevano i battenti e licenziavano gli operai, iniziava un contro-esodo dalle città verso le campagne. Fu un momento di grande fragilità, poteva spezzarsi di colpo il grande patto sociale su cui si regge il paternalismo autoritario del regime: la rinuncia alle libertà politiche e di espressione in cambio di un costante arricchimento materiale diffuso a vasti strati della popolazione. Liu e gli altri promotori di Carta 08 avevano scelto quella crisi per uscire allo scoperto.
La reazione del governo fu durissima: decine di poliziotti in casa sua, la linea del telefono tagliata, i suoi computer sequestrati, l’arresto immediato con l’accusa di sovversione dello Stato. Tutto questo mentre il portavoce degli Esteri, interrogato da noi corrispondenti, fingeva di ignorare l’operazione di polizia: “Sono scettico, la libertà di espressione è garantita e nessun cinese verrebbe punito per l’esercizio di un diritto”. Eppure, un mese dopo che su Liu si era accanita la repressione, nel gennaio 2009 i firmatari di Carta 08 si erano moltiplicati per venti: 7.000 in tutto, tra cui non pochi funzionari di governo. L’appello era apparso, sia pure furtivamente e per periodi brevi, su 300.000 blog. Ma l’apparato della censura continuava il suo lavoro. A gennaio il Dipartimento centrale di propaganda diramava a tutti i mezzi d’informazione l’ordine tassativo di ignorare quel manifesto, più il divieto di ospitare articoli da parte di chiunque lo avesse sottoscritto. Il blog Bullog veniva silenziato, due blogger popolari, Ran Yunfei e Bao Zuitun, venivano sanzionati.
Il seguito è stato amaro per i promotori di Carta 08. La macchina del capitalismo di Stato ha retto la prova della crisi occidentale, la Cina ha schivato la recessione, 500 miliardi di euro di nuovi investimenti hanno rilanciato la crescita. E nel mondo dei dissidenti sono riaffiorate per inerzia le antiche divisioni. A poche ore dalla decisione di Oslo, quando ormai filtravano le prime indiscrezioni, alcuni dissidenti cinesi all’estero tra cui Lu Decheng (noto per avere scagliato uova sul ritratto di Mao a piazza Tienanmen) hanno firmato un appello contro la premiazione di Liu Xiaobo. Lo accusano di non avere difeso i diritti di Falun Gong, la setta religiosa perseguitata dal regime. La guerra intestina è ricominciata, i regolamenti di conti tradiscono la debolezza del dissenso. Il clamore internazionale del Nobel non basta finché l’opposizione interna non ha una cabina di regìa. Quello doveva essere il ruolo di Carta 08, pareva a portata di mano appena due anni fa, ora sembra passata un’eternità.
Federico Rampini
www.repubblica.it
9 ottobre 2010
La casa-simbolo circondata dagli agenti. La morsa di Pechino: decine di fermi, tv e web oscurati
di Marco Del Corona
Pechino – Erano davanti al caseggiato dove la moglie di Liu Xiaobao vive senza di lui, mescolati agli agenti in borghese. Gli amici di Liu si guardano in giro. Avevano firmato Charta 08, alcuni la pensano come lui e nelle università provano, con prudenza, a lasciarlo capire. Altri si sono ritrovati alla spicciolata in sale da tè, per festeggiare, il passaparola – telefonate veloci, sms, Twitter – indirizzava poi a una celebrazione con numeri pirotecnici, nei sobborghi. “Ci arresterebbero legittimamente, niente fuochi d’artificio in città”. Location provocatoria, dalle parti della sede della Scuola centrale del Partito comunista. E invece no. Alle 9, un’ora prima dell’appuntamento, tutto rimandato. “Ne hanno fermati almeno due”, diceva nella notte al Corriere uno dei partecipanti mancati, mentr l’agenzia di stampa Efe citava l’avvocato Teng Biao: “Una ventina di arresti”. Anche se leggi e nuove direttive spingono per prassi giudiziarie e di polizia meno violente e arbitrarie, chi entra in rotta di collisione col potere sa di doversi aspettare la visita notturna, gli oggetti confiscati, il “venga con noi” (e magari si prepara a sparire per mesi, come l’avvocato Gao Zhisheng, ricomparso dopo un anno in un monastero e poi scivolato ancora nell’ombra).
La rabbia delle autorità cinesi per il caso Liu fermentava da tempo. Ancora la settimana scorsa la viceministro degli Esteri, Fu Yin, alla vigilia del viaggio europeo del premier Wen Jabao non aveva confermato né smentito di avere ammonito in estate il comitato del Nobel. A Oslo avrebbe avvertito che non sarebbe stato opportuno per la Norvegia che il premio andasse “a un criminale”, secondo dichiarazioni del presidente del comitato stesso. La signora Fu, diplomatico esperto e sorridente, aveva spiegato ai giornalisti 10 giorni fa di non ricordare: certo, “va fugata la reciproca sfiducia tra Cina e Occidente”, ma aveva ribadito durissima che Liu “resta una persona condannata per aver violato la legge”.
Ancora meno sorrisi hanno distribuito ieri i poliziotti che hanno costretto in casa Liu Xia, la moglie del neo-Nobel. Telefonate, e sms, e messaggi su Twitter, per dire della sua felicità e di come il premio “vada a tutti coloro che lavorano per i diritti umani e la giustizia in Cina”. Fuori, intanto, un viavai di agenti, i nastri tesi davanti alla Ann Jema Spa per allontanare dal cancello giornalisti e curiosi, questi ultimi ignari – come la stragrande maggioranza dei cinesi – della semplice esistenza di Liu Xiaobo.
Mentre Liu Xia preparava le sue cose per essere portata fuori città – prassi abituale per dissidenti e voci critiche nell’imminenza di date sensibili, che siano congressi o anniversari tabù – dirette e servizi delle grandi tv internazionali, Bbc e Cnn, sono stati oscurati e una censura selettiva bloccava notizie e pagine web dedicate a Liu. L’arsenale informatico di controllo ha dispiegato il suo abbraccio. E al telefono, Shi Yinhong – professore della Scuola di studi internazionali dell’Università del Popolo, vicino alla leadership di Pechino – riassume al Corriere il fastidio dell’intellighenzia ufficiale: “Questo Nobel produrrà antipatia tra i cinesi per il premio, la Norvegia, forse l’intera Europa. Se pensano che questo serva´a mutare la linea politica della Cina, guardiamo cos’è successo dopo il Nobel al Dalai Lama: Pechino ha cambiato qualcosa riguardo al Tibet? No. Liu Xiaobo in Cina non rappresenta la pace ma la turbolenza”.
E c’è persino la brutta sorpresa. Nei giorni scorsi diversi dissidenti storici, ormai tutti all’estero e sradicati dalla realtà cinese e dalla sua nascente società civile, hanno criticato preventivamente l’ipotesi di un Nobel a Liu: “Non è deglo, è un collaborazionista”. Ieri, poi, Wei Jingsheng, decano del dissenso dal ’97 negli USA, ha speso parole che grondano astio: “È diverso da noi, criticava gli altri che soffrivano, parlava con il governo”. Come dire: quasi un collaborazionista. Fuoco amico. Ma a Pechino c’è chi preferisce preparare per Liu i fuochi d’artificio, costi quel che costi.
Marco Del Corona
Corriere della Sera
9 ottobre 2010
Nobel pace a Liu Xiaobo Uno schiaffo alla Cina E Obama: ora liberatelo
di Orlando Sacchelli
Intellettuale da anni attivo nella difesa dei diritti umani, tra i leader della protesta studentesca di piazza Tienamen, è in carcere dal 2008. La motivazione del premio. Guarda: le foto – il video. Il governo cinese: “Un’oscenità”. Obama: “Scarceratelo”
Oslo – Tutto come previsto. Il premio Nobel per la Pace va al dissidente cinese Liu Xiaobo “per la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti umani in Cina”. Se l’anno scorso a prevalere erano state le buone intenzioni di Obama quest’anno viene premiata la battaglia di un uomo che ha deciso di spendere la propria vita per la libertà e la democrazia. Cinquantacinque anni, scrittore, da tempo è attivo nella difesa dei diritti umani nel suo Paese. Per ovvie ragioni è inviso al regime di Pechino. Dal 2008 è in carcere. E’ stato condannato a undici anni per “incitamento a sovvertire il potere dello Stato”. Una motivazione scontata per un uomo che si batte per la democrazia in Cina. Non a caso nei giorni scorsi Pechino aveva ammonito il Comitato a non assegnare il premio né a lui né ad altri dissidenti o fautori della democrazia. Dopo la notizia dell’assegnazione del premio – secondo un messaggio diffuso su Twitter – alcuni poliziotti si sono recati nell’abitazione di Liu Xiaobo a Pechino. E la trasmissione in diretta della rete televisiva Bbc sull’annuncio del Nobel è stata interrotta in Cina. I cinesi non devono sapere. La risposta di Pechino non si è fatta attendere: “Una oscenità”. Così il governo cinese ha definito l’assegnazione del premio al dissidente.
Diritti umani violati “Per oltre due decenni Liu Xiaobo è stato un convinto sostenitore per l’applicazione dei diritti umani fondamentali in Cina”, ha spiegato il presidente del comitato norvegese, Thorbjoern Jagland, nel leggere le motivazioni del Nobel. Lo status della Cina, divenuta “la seconda economia mondiale, impone al paese maggiori responsabilità”.
La rabbia di Pechino: oscenità “Il Nobel per la pace”, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri di Pechino, “dovrebbe andare a chi lavora per promuovere l’armonia etnica, l’amicizia internazionale e il disarmo e a chi partecipa a riunioni di pace, questo era l’intendimento di Alfred Nobel”. Nel comunicato del portavoce Ma Zhaoxu si ricorda che Xiabao “è stato condannato per la violazione delle leggi cinesi dagli organi giudiziari della Cina”. Per Pechino “le sue azioni sono contrarie all’obiettivo del premio Nobel per la Pace” e, “concedendo il Nobel a questa persona, il comitato per il Nobel ha violato e profanato il premio, è stata un’oscenità contro il Nobel”. E questa decisione, si avverte con tono minaccioso, “danneggerà i rapporti sino-norvegesi”.
Il manifesto dei dissidenti Liu Xiaobo fu imprigionato perché ebbe l’ardire di diffondere il documento “Carta 08″, in cui si chiedevano riforme politiche, compresa la libertà di riunione, di stampa e di religione. Un manifesto mai digerito da Pechino.
L’avvocato di Xiaobo Teng Biao, avvocato, è amico personale di Xiaobo e firmatario di Carta08. Racconta di essere “molto felice ed entusiasta” per il premio. “Liu Xiaobo lo ha meritato. Spero che il premio lo aiuti a ritornare presto in libertà. Questo premio – ha aggiunto – incoraggerà sicuramente la società civile della Cina e sempre più gente si batterà per la pace e la democrazia. È un aiuto per la Cina nella costruzione di una società pacifica, democratica e basata sulla legge”. Teng Biao è uno dei fondatori del “movimento degli avvocati” che da sei anni si batte per il rispetto delle leggi e la democrazia in Cina.
Difenderemo la scelta Il presidente del comitato Nobel, Thorbjoern Jagland, prima della comunicazione ufficiale del vincitore aveva lasciato intendere che il premio Nobel per la Pace 2010 sarebbe stato oggetto di controversia. E così è stato.
Il premio Sarà consegnato a Oslo, secondo la tradizione, il 10 dicembre, anniversario della morte del fondatore del Premio, il filantropo svedese Alfred Nobel. Assieme alla medaglia e a un diploma viene assegnato un assegno di 10 milioni di corone svedesi (circa un milione di euro).
http://www.ilgiornale.it/esteri/nobel_pace_liu_xiaobo_uno_schiaffo_cina_e_obama_ora_liberatelo/laogai-premio_nobel_pace-liu_xiaobo-pechino-dissidenti-cina/09-10-2010/articolo-id=478848-page=0-comments=1
Oslo e la rivoluzione pacifica, il Nobel che cambia la Storia
La scelta per il prestigioso riconoscimento è spesso una dichiarazione politica. L’Urss attaccò più di una volta il Comitato, che premiò molti dissidenti sovietici. Nel ‘35 vinse un giornalista tedesco, poi arrestato: denunciava il riarmo di Hitler. Da Boris Pasternak che con “Il dottor Zivago” scatenò uno scontro con l’Unione sovietica fino al britannico Robert Edwards, padre della fecondazione in vitro
di ANAIS GINORI
“Vorrei condividere l’onore che mi fate con tutti i prigionieri dell’Unione Sovietica. Il comitato del Nobel ha avuto coraggio, non è facile sfidare un paese grande e potente come il mio”. In quel 1975 Andreij Sakharov era rimasto bloccato dal regime a Vilnius, mentre sua moglie volava ad Oslo per ritirare il Nobel per la Pace. Sulla copertina di Time, Sakharov appariva in primo piano col colbacco. Sfondo rosso, titolo a caratteri cubitali: “Dissidenti, la sfida a Mosca”. Sembra un copione che si ripete. Oggi è una fotografia in bianco e nero di un dissidente cinese. E la “sfida” che si è spostata a Pechino. Ancora una volta, un Nobel che sembra un tentativo di salvacondotto per un oppositore politico, la compagna che cerca di far arrivare la sua voce, un governo che giudica “osceno” il premio e grida all’interferenza “negli affari interni”, rafforzando la censura. Cancellerie in subbuglio, tentativi di mediazione in extremis. Un uomo che diventa il simbolo di una battaglia più grande di lui.
Sakharov come Liu Xiaobo. Passano i regimi, le dittature, le violazioni dei diritti umani, ma non la guerra dei Nobel. Qualcosa più di una semplice medaglia. Un’arma politica e diplomatica. Un’onorificenza che può cambiare la storia. Davvero? Sakharov, almeno lui, ci credeva.
“Spero che anche quelli che oggi giudicano il mio premio con scetticismo e irritazione – aveva scritto il dissidente – un giorno potranno trovarsi sulle nostre posizioni”. All’epoca i dirigenti comunisti non rilasciarono dichiarazioni, avevano da tempo aperto le ostilità con i Nobel. Antipatia reciproca, basta scorrere l’elenco dei vincitori. Nel 1958 c’era stato il premio a Boris Pasternak e nel 1970 aveva vinto Aleksandr Solgenitsin con il suo “Arcipelago Gulag”. Per mesi il Kgb aveva mandato dispacci che allertavano il regime sulla possibile “bomba” proveniente dalla Norvegia. Diventò presto un terreno minato. Dopo Sakharov, arrivarono nuovi Nobel a disturbare: quello a Lech Walesa nel 1993 e infine a Mikhail Gorbaciov nel 1990.
Ogni nomina, una deflagrazione. Ancor più imprevedibile perché il massimo riconoscimento umanitario dipende da un piccolo paese ai margini dell’Europa, con una politica estera quasi ininfluente. Tutto merito di Alfred Nobel, non a caso l’inventore della dinamite, che per ironia del destino chiedeva nel suo testamento di premiare “il migliore contributo per la fratellanza tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti e per la promozione della pace”. Nessuno sa perché lo scienziato svedese decise di affidare il premio per la pace alla Norvegia, diversamente dagli altri quattro Nobel gestiti da Stoccolma. Forse fu una scelta provocata dall’innamoramento per una femminista norvegese, Bertha von Suttner. Forse Alfred Nobel ripagò così l’amicizia con il pacifista Bjornstjern Bjornson. La giuria svedese che assegna gli altri premi, dalla letteratura alla medicina, riesce ogni tanto a creare casi politici e diplomatici. E’ successo per esempio quest’anno con le critiche del Vaticano al Nobel per il britannico Robert Edwards, padre della fecondazione in vitro.
Ma in prima linea, quasi sempre c’è il quintetto di giurati norvegesi che si riuniscono al secondo piano della fondazione Nobel, a due passi dal palazzo reale di Oslo. I membri, tutti ex professori o parlamentari, sono nominati per sei anni dallo Storting, il parlamento. Spesso, il laureato è un pretesto per lanciare un messaggio politico, rafforzare una causa, illuminare qualche battaglia solitaria. “Nel 1901, quando è nato il Nobel, si pensava che guerra e pace fossero in mano ai governi” ricorda al telefono Geir Lundestad, memoria storica del premio. “Ma nel corso del Novecento – aggiunge il segretario del comitato norvegese – anche singoli individui hanno dimostrato di poter cambiare la Storia”. Martin Luther King e il movimento per i diritti civili (premiato nel 1963), Nelson Mandela e la lotta contro l’apartheid (1993). Aung San Suu Kyi e la “Lega per la Democrazia” in Birmania (1991) scelta per “il coraggio civile con cui combatte con metodi pacifici contro un regime caratterizzato dalla brutalità”.
Anche lei, come Liu, era in prigione mentre veniva nominata al Nobel. Solo oggi, a 63 anni di cui 15 passati da reclusa, Aung San Suu Kyi potrebbe ritrovare la libertà. Una vittoria a metà. Come per Shirin Ebadi. Nel 2003 il governo riformista di Mohammad Khatami non volle andare allo scontro, almeno ufficialmente. Si congratulò con la giurista iraniana insignita del Nobel “per la difesa dei diritti delle donne e dei bambini”. Da allora, Ebadi ha potuto girare il mondo e cercare di farsi portavoce delle lotte democratiche in Iran. Ma lei e i suoi famigliari sono ancora vittime di persecuzioni.
Un Nobel non cambia il mondo, è già tanto se riesce a farlo discutere per qualche giorno. Lundestad non è d’accordo con questa tesi, che definisce riduttiva. “Gli effetti si vedono sul lungo periodo. E comunque, è un premio che serve a risvegliare le coscienze, innescando quindi effetti che verranno”. A suo parere, la prima “nomina esplosiva” risale al 1935 quando il Nobel per la pace andò a Carl von Ossietzky, il giornalista tedesco che aveva denunciato con un’inchiesta il riarmo della Germania, in violazione del trattato di Versailles. Il Fuhrer decise allora che nessun tedesco avrebbe più potuto partecipare alla selezione per il Nobel. Arrestato dalla Gestapo, Carl von Ossietzky morì nel 1938, in un campo di concentramento. “Non abbiamo potuto scongiurare la guerra – continua il segretario della giuria norvegese – ma quel premio lanciò l’allarme sull’ascesa del nazismo in Europa”.
Le pressioni politiche della Cina sulla Norvegia per impedire il riconoscimento a Liu non sono certo una novità. Lundestad cita il caso di Mahatma Gandhi, simbolo mondiale del pacifismo che non ha mai ricevuto il Nobel per la pace. Solo adesso si è saputo, rileggendo i verbali delle riunioni della fondazione, che il governo di Oslo aveva chiesto prudenza ai giurati, temendo una ritorsione della Gran Bretagna di Winston Churchill. “Il nostro errore più grande” lo definisce Lundestad.
Altri errori sono stati fatti. Il 1973 fu un anno terribile. La nomina di Henry Kissinger è stata una delle più contestate nella storia del Nobel e il vietnamita Le Duc Tho si rifiutò – caso unico – di venire ad Oslo per ritirare il premio. L’ultimo episodio di frattura grave all’interno della giuria, ricorda Lundestad, è stato nel 1994: il premio ex equo tra Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Le trattative per la pace in Medio Oriente si sono poi bloccate. “Ma è stato importante dare un segnale di incoraggiamento”. Per la guerra in Nord Irlanda ci sono voluti ben due premi e qualche decennio prima di arrivare a un felice epilogo. Nel 1977 a Mairead Corrigan e poi ancora nel 1998 a John Hume e David Trimble, escludendo Gerry Adams.
Con la Cina il contenzioso è antico. Nel 1989, Pechino gridò al “complotto dell’Occidente” quando venne assegnato il Nobel al Dalai Lama. Il leader buddista continua a vivere in esilio in India, La causa del popolo tibetano è però diventata famosa nel mondo. Anche grazie a quella medaglia norvegese. Chissà se per Liu e per la Cina di oggi ci sarà un altro “effetto Nobel”, come fu per l’Urss. “Un comitato non può rovesciare un governo, è evidente” conclude Lundestad. “Non abbiamo nessun potere né intenzioni particolari, siamo solo cinque membri indipendenti e non prendiamo ordini da nessuno”. In attesa della prossima deflagrazione.
http://www.repubblica.it/esteri/2010/10/13/news/nobel_storia-7994231/?ref=HREC1-9
Xiaobo, l’attivista senza paura nato dal sangue di Tienanmen
di Giampaolo Visetti
“Non ho nemici: è la mia ultima dichiarazione”. Dopo vent’anni di persecuzioni Liu Xiaobo, simbolo della dissidenza cinese, ha moralmente vinto il premio Nobel per la pace il 25 dicembre 2009. Era il giorno di Natale, la stampa occidentale non sarebbe uscita per due giorni.
Pechino era svuotata di giornalisti stranieri. Il tribunale della capitale chiuse un anno di istruttorie segrete con la sentenza-farsa che si è rivelata ieri il peggiore passo falso del regime: undici anni di prigione per “incitamento alla sovversione ai danni dello Stato”. L’oppositore più imbarazzante del Paese, cristiano, colpevole di aver promosso “Charta 08″, affidò alla moglie Liu Xia il suo messaggio per gli amici: “Inizia oggi la corrosione finale della nostra patria. Nel dolore, per noi è un giorno di speranza”.
Liu Xiaobo è quindi scomparso fino al 13 febbraio, segregato in un luogo ignoto, irraggiungibile anche per moglie e avvocato. È riemerso dal nulla alla vigilia di un’altra festa, il Capodanno cinese. Pechino di nuovo deserta, i cinesi in casa a mangiare e a sparare botti. E ancora una condanna, l’ultima, del tribunale supremo: ricorsi e appelli mondiali respinti, undici anni di carcere nell’indifferenza collettiva. La censura quel giorno ha impedito ogni commento del condannato. “Mi si spezza il cuore”, l’unica frase affidata dalla moglie a Twitter.
Pochi, lo scorso inverno, hanno compreso che con la condanna di Liu Xiaobo la Cina si illudeva, vent’anni dopo, di aver chiuso i conti con il massacro di piazza Tienanmen. Ma per i dissidenti la metafora era chiara. La rivolta studentensca del 1989 è scaduta, ma a Pechino la brutalità disumana dei metodi polizieschi, contro qualsiasi forma di dissenso, resta in vigore. Liu Xiaobo, 55 anni il prossimo 28 dicembre, la conosce bene. La violenza del potere è la malattia cronica che segna la sua vita già consumata e la resistenza passiva contro gli abusi delle autorità è l’antidoto del suo destino. Ha 34 anni quando sceglie e da quel giorno non vedrà più i vecchi genitori, operai di Changchun, città industriale nella regione di Jilin, nel nordest della Cina. Una sorte pressoché segnata.
A scuola è sempre il migliore e i funzionari comunisti locali lo notano. Lo iscrivono nella sezione giovanile del partito e gli pagano gli studi che la famiglia non si può permettere. Destinato all’insegnamento universitario, sceglie la letteratura cinese. Laurea a Jilin nel 1982, master nella capitale due anni dopo e dottorato alla Normale di Pechino nell’88. E’ il più giovane e brillante docente dell’ateneo, quando il comunismo implode nell’Est Europa e Asia centrale. Non ha dubbi. “Nel 1989 – ha raccontato – studenti e professori erano uniti dalla speranza che il crollo dell’Urss percorresse la Siberia e che il cambiamento superasse la Grande Muraglia. Pensavamo che diritti umani, democrazia e indipendenza della giustizia erano l’unica strada per salvare il popolo cinese. I carri armati di giugno ci hanno colto impreparati”. Quel maggio il professor Liu Xiaobo si schiera dalla parte delle riforme. Assieme a Wang Dan e Wu’er Xi, suoi allievi, fonda la Federazione autonoma degli studenti, cuore delle proteste di Pechino.
Negli ultimi giorni del mese, e fino al 4 giugno, anima il disperato tentativo di dialogo con l’ala riformista del partito, guidata dal segretario Zhao Ziyang. Si spinge fino ad accettare un rinvio della libertà e ad iniziare lo sciopero della fame, pur di salvaguardare la possibilità di cambiare la Cina pacificamente. “La notte del 3 giugno 1989 – ha confidato agli amici – capii che tutto era perduto. Deng Xiaoping aveva scelto la repressione e vedevamo l’esercito che si ammassava attorno alla città proibita. Pensai che la priorità era salvare la vita dei miei ragazzi”. Convince centinaia di studenti e intellettuali ad abbandonare piazza Tienanmen, ma la maggioranza degli insorti decide di restare. Lui è tra questi, davanti ai carri armati, nelle ore in cui il massacro si compie.
Si può dire che Liu Xiaobo, come ricorda la moglie, sua collega di insegnamento, “è nato da quel sangue”. Accusato dal partito comunista di essere una delle “mani nere” che “manovravano gli studenti per destabilizzare lo Stato e distruggere la Cina”, viene arrestato, proclamato “controrivoluzionario” e condannato a 18 mesi di prigione. Due anni dopo, altra condanna per “propaganda e istigazione controrivoluzionaria”.
Nel 1996 la terza pena: critica il partito e viene punito con tre anni in un “laogai”, i campi di rieducazione ideologica fondati da Mao, per “disturbi alla quiete pubblica”. Viene liberato nel 1999, dieci anni dopo Tienanmen. Il partito lo licenzia dall’università e Liu Xiaobo, disoccupato, emigra. “Per vivere e scrivere liberamente – ha spiegato – ho insegnato alla Columbia University, in Europa e alle Hawaii. Con mia moglie ci siamo rassegnati a non avere figli, per non condannarli a condividere la nostra sorte”. Torna a Pechino nel 2004 e continua a battersi per riforme politiche, diritti umani e libertà di espressione. Fino all’8 dicembre 2008. Le Olimpiadi di Pechino sono finite e la repressione dei monaci in Tibet consumata. Scrive e promuove “Charta 08″, l’ultimo manifesto per la democrazia del dissenso cinese.
Viene arrestato, ancora una volta alla vigilia di Natale. Il popolo cinese è stato costretto a dimenticarsi di lui e nessuno viene a sapere del quarto ritorno in prigione. Da quel giorno vive nel carcere di Jinzhou, nella provincia di Liaoning. Condivide una cella di trenta metri con altri cinque detenuti. E’ costretto a lunghi periodi di isolamento. Mangia solo riso, verdura e panini al vapore. Indossa l’uniforme grigio-bianca del condannato, ha un’ora d’aria e passa il tempo a leggere gli autori consentiti dalla censura: le poesie di Paul Celan, “Il Castello” di Kafka, saggi di storia e filosofia.
Ogni giorno spedisce una lettera d’amore alla moglie, che consegna una volta al mese, quando possono incontrarsi per un’ora. Si abbracciano e, alla presenza delle guardie, parlano di “cose senza importanza per evitare di essere puniti”. Per questo Liu Xiaobo, nelle scorse settimane, non ha potuto discutere del “pericolo” di vincere il premio Nobel. Il suo avvocato, in febbraio, lo aveva avvisato della candidatura proposta da Havel, da Tutu e dal Dalai Lama. Aveva sorriso, dicendosi “indegno ma onorato”.
Questa notte, dopo oltre vent’anni di lotte e di sconfitte, ignaro di essere diventato in pochi istanti una celebrità mondiale, è andato a dormire tranquillo, come sempre. Pensa ancora di essere solo “uno dei tanti condannati cinesi dimenticati, che cercano di rendere migliore la loro patria”. Anche il popolo cinese continua a non sapere chi sia Liu Xiaobo. Ma da ieri la Cina sente che i conti con il professore di piazza Tienanmen non sono saldati: e che qualcosa di profondo è cambiato per sempre.
Giampaolo Visetti www.repubblica.it 9 ottobre 2010