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La Lunga Marcia dei lavoratori cinesi
Luglio 5th, 2010 by admin

di Claudio Tecchio 

“But safeguarding your own rights is always legitimate … if people are oppressed they must rebel. This is only natural.”

a worker at Foshan Fengfu

Da alcuni anni nella Repubblica Popolare Cinese si registrava un costante aumento dei conflitti sociali, tanto nei centri urbani quanto nelle campagne.

Gli espropri generalizzati di terreni coltivati da contadini poveri e le sempre più frequenti demolizioni su aree da lottizzare avevano infatti provocato rabbiose reazioni sfociate spesso in violente manifestazioni contro i simboli locali del potere comunista. …

Ma soltanto oggi con l’ingresso in fabbrica di una nuova generazione di lavoratori, più istruiti dei loro padri e quindi anche meno inclini  a subire uno sfruttamento intensivo nelle officine lager, assistiamo alla nascita di una vera opposizione sociale.

Sono giovani che non vogliono più dover scegliere tra morire di fame e morire di sfruttamento .

Sono ben consci del fatto che in alcuni distretti industriali comincia a scarseggiare la manodopera e quindi decidono di sfruttare questo potere contrattuale per costringere le aziende a ridistribuire parte degli enormi profitti realizzati negli ultimi anni ; profitti conseguiti anche grazie agli enormi sacrifici fatti dai lavoratori migranti.

Incuranti dei rischi connessi all’organizzazione di attività illegali decidono di dare vita a scioperi spontanei che colgono di sorpresa tanto il management quanto il sindacato comunista.

Chiedono aumenti salariali,sicurezza sul lavoro, orari meno disumani e, quel che più conta, di poter organizzare sindacati liberi.

Ai primi di Giugno a Suizhou, nell’azienda tessile Tieshu, 400 lavoratori scendono in sciopero  e presidiano i cancelli.

Alla Simaibo Sports Equipment Corporation di Jiangxi, dopo il linciaggio di un lavoratore da parte della security aziendale, 8.000 operai incrociano le braccia ed escono dalla fabbrica in corteo. Attaccati dalla polizia verranno feriti a decine negli scontri seguiti all’aggressione.

Alla Meilu Electronics Factory di Shenzhen il 6 Giugno scendono in sciopero tutti i 10.000 dipendenti che decidono di manifestare all’esterno bloccando le arterie attorno allo stabilimento.

Migliaia di lavoratori scioperano e manifestano anche a Pudong e alla Xian Brother Industries di Xian.

 

Il 7 Giugno alla Merry Electronics centinaia di manifestanti bloccano i cancelli e dopo essersi concentrati davanti all’ingresso dello stabilimento partono in corteo verso la strada principale del distretto di Dalang. Innalzano cartelli che chiedono l’aumento dei salari e la riduzione dell’orario. Interviene la polizia che carica i manifestanti ferendone gravemente una decina.

Scioperi con blocchi dei cancelli anche alla  Foshan Fengfu Autoparts e alla Yacheng Electronics Factory di Huizhou.

A Shanghai scendono in sciopero i 2.500 lavoratori della Kunshan Shuyuan Machinery che decidono di manifestare all’esterno. Vengono subito attaccati da centinaia di agenti delle forze speciali e 50 operai rimangono gravemente feriti negli scontri .

Infine il 9 Giugno Alla Honda di  Zhongshan 1700 lavoratori scendono in sciopero rivendicando aumenti salariali e diritti sindacali. Gli operai, che rifiutano la mediazione del sindacato comunista, eleggono per la prima volta propri rappresentanti in ogni reparto.

L’azienda offre 100 yuan (12 Euro) di aumento mensile ma il consiglio di fabbrica lo giudica assolutamente inadeguato e decide di organizzare un corteo nelle strade di Zhongshan.

Nei giorni successivi a Jiujiang si registrano scontri tra lavoratori e polizia privata aziendale.

Dopo questa prima ondata di proteste il regime ,che aveva persino accolto con favore i primi scioperi nelle aziende della concorrenza straniera sperando di vederne così compromessa la competitività in un settore che rischia da tempo una crisi di sovrapproduzione,cerca di correre ai ripari.

Nel momento in cui le agitazioni si estendono alle aziende di proprietà cinese (e  statale) vieta alla stampa di continuare a riferire delle manifestazioni e quando vede ormai delegittimato il suo sindacato cerca di esorcizzare in qualche modo lo spettro della rivolta operaia.

Per evitare che il movimento si generalizzi il Partito Comunista Cinese decide  quindi di alzare il salario minimo e lanciare contestualmente una nuova campagna colpisci duro; campagna che, come in passato, con il pretesto di combattere la criminalità offre nuove occasioni di intervento repressivo a danno degli organizzatori della sedizione sindacale

 

La lotta paga

 

Ma, nonostante serrate ed arresti, violenze e licenziamenti, oggi il movimento si estende e si rafforza  riuscendo in alcuni casi a strappare significativi aumenti salariali e far riconoscere le rappresentanze sindacali liberamente elette.

Grazie ad un sapiente uso dei nuovi mezzi di comunicazione i giovani in lotta fanno proseliti tra quei lavoratori che non avevano ancora trovato il coraggio di ribellarsi a condizioni di lavoro disumane.

L’azione spontanea e diretta scuote dalle fondamenta l’apparato repressivo aziendale e statale mettendo in discussione l’intero sistema di potere comunista.

Negli stabilimenti dove i lavoratori sono riusciti ad eleggere propri rappresentanti si costituiscono infatti consigli operai che cercano di dare anche vita a prime forme di coordinamento a livello di distretto per denunciare la natura liberticida e antioperaia del regime.

Si gettano così le basi per la nascita di un sindacato libero la cui affermazione dipenderà, in larga misura, dalla capacità di estendere e generalizzare la rivolta operaia.

 

Patto scellerato

 

Le miserevoli condizioni di vita e di lavoro mettono già oggi in discussione il contratto sociale che ha consentito ad un regime gangsteristico  di sopravvivere ad ogni sfavorevole congiuntura.

Il popolo cinese per anni ha rinunciato a rivendicare libertà e democrazia in cambio dell’impegno del partito a ridurre le disuguaglianze  ,a ridistribuire reddito.

Ma la tregua che si reggeva sullo scambio tra sviluppo e libertà fondamentali oggi è stata violata ed il conflitto potrebbe riesplodere assumendo forme che potrebbero minare definitivamente la stabilità del regime.

Infatti la recessione in atto ,e la maturità dei consumatori occidentali, rischiano di compromettere definitivamente i piani di rilancio dell’economia cinese .

La contrazione dell’export cinese registrata nel primo semestre del 2010

sembra infatti essere foriera di ben più gravi sconvolgimenti sociali.

Come ben sanno i gerarchi, una crescita inferiore al 10% annuo non consente di dare una qualche occupazione ai milioni di giovani e migranti che ogni hanno si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro cinese.

E già nel 2009 , nonostante le ingenti risorse investite nella creazione di nuove infrastrutture destinate a consolidare il dominio coloniale nei territori occupati del Tibet, del Turkestan Orientale e della Mongolia del Sud , il PIL è cresciuto soltanto  dell’8%. Mentre le previsioni per il 2010 non vanno oltre un modesto 6%. Inoltre queste previsioni non tengono ancora conto della rapida crescita dell’inflazione,della possibile esplosione della bolla immobiliare e delle conseguenze devastanti che anche una pur  modesta rivalutazione dello yuan avrà sulle esportazioni del Paese. Uno scenario da incubo per i membri del politburo.

 

Uno spettro si aggira per la Cina

 

La conferma viene dal China Daily che il 18 Giugno ha pubblicato un rapporto dell’International Capital Corp Ltd (CICC) secondo il quale nel 2011 sul mercato del lavoro cinese arriveranno altri 39.000.000 di persone in cerca di occupazione. Le fonti governative stimano che ci saranno 25.000.000 di lavoratori che per effetto della scadenza dei contratti a termine dovranno essere ricollocati, a cui andranno ad aggiungersi circa 7.000.000 di diplomati e laureati in cerca di prima occupazione. Inoltre il regime stima in non meno di 7.000.000 (ed è una stima davvero prudenziale) il numero di contadini che si trasferiranno nei centri urbani per trovare un lavoro. Le stesse fonti sostengono che nello stesso periodo i posti di lavoro effettivamente disponibili non supereranno gli 8.000.000 ,con l’ovvia conseguenza che ben 31.000.000 di persone rimarranno senza lavoro ed andranno ad ingrossare le fila dei disoccupati che raggiungeranno quindi la cifra record di 200.000.000.

E questo nuovo,imponente esercito industriale di riserva questa volta potrebbe anche decidere di “sparare sul quartier generale”.

 

Business as usual

 

In queste settimane nessun governo,nessun organismo internazionale si è sentito in dovere di richiamare i dirigenti della Repubblica Popolare al rispetto delle convenzioni internazionali che,almeno sulla carta,dovrebbero garantire l’esercizio del diritto di sciopero.

Le multinazionali ,in affari con il regime cinese,dal canto loro hanno fatto il possibile per stroncare sul nascere la protesta operaia.

La stessa Confederazione Sindacale Internazionale balbetta,incapace persino di

esprimere lo sdegno per la feroce repressione delle lotte sindacali.

Mentre i lavoratori cinesi venivano licenziati per rappresaglia ( su precise indicazioni dei quadri del sindacato comunista) alcuni dirigenti presenti al II° Congresso della Confederazione invocavano l’apertura di “un dialogo costruttivo” con il sindacato di stato cinese schierandosi così ,de facto,con il sindacato di regime.

Questi burocrati,culturalmente subalterni al mercatismo imperante,non hanno evidentemente ancora capito che le sorti del movimento operaio internazionale,che le condizioni di vita e di lavoro di tutti i lavoratori, sono oggi nelle mani degli eroici operai cinesi.

 

Lavoratori di tutto il mondo unitevi

 

Le speranze di riscatto del popolo cinese e le sorti del movimento operaio internazionale dipendono dalla capacità dei giovani operai di assumere la guida di una protesta che dilaga e coinvolge ormai tutti i settori della società cinese.

Mentre l’opposizione politica è indebolita dai continui arresti,da un controllo sociale spietato, la nascente opposizione sociale potrebbe coagulare il malessere diffuso provocato dalla corruzione dei dirigenti comunisti e dalla violenza degli apparati repressivi.

Questi giovani,tanto coraggiosi quanto isolati,hanno però bisogno del sostegno convinto del movimento operaio internazionale e dell’opinione pubblica dei paesi liberi. A loro deve andare la fattiva solidarietà sia del movimento sindacale ,che deve intraprendere iniziative globali a sostegno delle loro rivendicazioni,sia dei consumatori, che possono boicottare le merci delle aziende che licenziano in massa gli operai in sciopero.

Tutti devono mobilitarsi per favorire la nascita di un sindacato libero in Cina che incarni il bisogno di libertà e di giustizia sociale del popolo cinese .

Anche da questo dipende la possibilità di fermare la crescita militare e politica del Partito Comunista Cinese.

Prima che sia troppo tardi!

 

 


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