Passata la festa, il villaggio dei bambini tibetani di Dharamsala è tornato nella sua routine, mentre qualche chilometro più in basso, tra le strade di McLoad Ganji, un clima di malinconico abbandono segue i giorni dell’eccitazione e della speranza. Poco alla volta si sono dileguati i 500 delegati giunti da tutto il mondo in questa cittadina dell’India per discutere il futuro della lotta contro il nemico cinese. Quello che resta sono i crocicchi di giovani tibetani locali da troppi anni abituati a convivere con l’idea di una vita da esuli lontani dalle loro montagne e dalle loro famiglie. Svanito è anche il carrozzone mediatico con i riflettori puntati sull’Assemblea convocata dal Dalai Lama per sentire cosa intende fare il suo popolo di rifugiati ora che lui stesso ha definito “sempre più sottile” ogni speranza di trovare un accordo con Pechino. Anche il leader spirituale del popolo delle Nevi ha già lasciato Dharamsala per riprendere il suo tour mondiale interrotto dopo l’operazione di calcoli biliari che aveva allarmato sei milioni di devoti.
Resta il bel ricordo della ritrovata unità tra componenti autonomiste a lui fedeli (rimaste in maggioranza) e la massa critica degli indipendentisti, usciti per la prima volta allo scoperto nel quartier generale del governo in esilio, senza temere rappresaglie, anzi, cresciuti in percentuale. … Emblema di questi irriducibili nemici di ogni trattativa, che hanno ottenuto quantomeno la fine dell’invio di inutili delegazioni in Cina, è uno scrittore di successo residente negli Stati Uniti, ex guerrigliero anti-cinese sulle montagne del Mustang e oggi fondatore di un movimento chiamato Rangzen Revolution, Rivoluzione indipendentista. Jamyang Norbu è stato il primo a lasciare Dharamsala senza nemmeno recarsi a offrire la tradizionale sciarpa augurale al Dalai Lama durante l’incontro finale con i delegati. Nonostante la calorosa accoglienza che gli è stata riservata anche dai fedelissimi della Via di Mezzo nei cinque giorni del dibattito, i suoi passati contrasti con il leader tibetano lo hanno convinto che fosse meglio evitare ogni fraintendimento sul ruolo che ha scelto di giocare. Un ruolo più laico che buddhista: “Non posso accettare”, ci ha detto, “che le critiche alla Via di Mezzo siano considerate un sacrilegio. La richiesta d’indipendenza nasce dal fatto che il nostro era un paese libero prima dell’arrivo delle truppe di Pechino e questo è il primo passo per dare un segnale alla Cina. Di certo il Dalai Lama simboleggia l’unità e la libertà del nostro popolo, ma i nostri rappresentanti qui a Dharamsala non hanno compreso davvero cosa sia la Cina, mentre io sono sicuro che il suo sistema non può durare a lungo. Possiamo contribuire ad abbatterlo senza usare violenza e non perché sia nello spirito buddhista, ma perché è inutile attaccare la Cina nel suo punto forte, l’esercito, quando, invece, si può aggredire quello debole, la sua volontà di ottenere il rispetto morale del mondo. Sono dipendenti dal giudizio dell’Occidente, vogliono essere amati, come hanno dimostrato con le loro sfarzose Olimpiadi”.
Secondo Norbu, i tibetano non possono comportarsi come le piccole tribù degli indiani d’America, visto che sono gli eredi di un grande impero. “I nostri giovani lo capiscono meglio dei nostri politici”, aggiunge, “e vogliono mantenere la loro cultura e la loro lingua. Magari lavano i piatti in qualche ristorante di New York, ma quando possono, vanno a manifestare per l’indipendenza, si sentono eroi di una causa giusta e grazie a questo non cedono all’alcol e alla disperazione, studiano duro e rafforzano il carattere”.
Che Norbu non sia un caso isolato lo dimostra non solo la valanga di mail di adesione al suo Rangzen blog su Internet, ma lo stesso successo della più importante organizzazione indipendentista in esilio, il Tibetan Youth Congress, guidata da un altro intellettuale laico, Tsewang Rigzin. L’attività del suo Congresso giovanile, che conta 30 mila aderenti in tutto il mondo, è stata definita senza mezzi termini “terrorista” dalle autorità cinesi che accusano il TYC di essere stato, su ispirazione del Dalai Lama, il principale fomentatore delle rivolte di Lhasa del marzo scorso. Ma i suoi attivisti hanno fatto notizia soprattutto per le campagne di boicottaggio dei prodotti made in China e per gli assedi alle ambasciate cinesi in giro per il mondo, compresa quella degli Stati Uniti, oltre alle decine di scioperi della fame organizzati in India. “Sebbene Sua Santità definisca anche i nostri digiuni una forma di violenza”, ci ha spiegato Rigzin, “non vediamo forme di lotta più efficaci per manifestare la profonda sofferenza del popolo tibetano costretto a sottostare a un regime che nega la nostra identità, ci rende minoranza nel nostro stesso Paese, costringe a corsi di rieducazione politica i monaci nei templi, impedisce lo studio e l’uso della lingua nelle scuole e nei posti di lavoro”.
Tra i gruppi indipendentisti più attivi e vicini allo spirito del Congresso giovanile, c’è quello degli Studenti per un Tibet libero, occidentali e tibetani insieme che nel giornale “Vietato in Tibet” hanno pubblicato richieste di donazione per “azioni dirette e non violente di alto profilo in Cina”, com’è accaduto prima e durante le Olimpiadi, quando diversi gruppi hanno issati cartelli sulla Grande Muraglia, finendo arrestati. Eroe di questa organizzazione, anche se si considera un “cane sciolto”, è Tenzin Tsundue, protagonista della Marcia da Dharamsala al Tibet, bloccata più volte dalla polizia indiana e a sua volta detenuto con altri partecipanti. Alla tesi secondo la quale la Via di Mezzo sia l’unica a poter ricevere il sostegno della comunità internazionale e degli stessi governi, Tsundue risponde che in realtà “tutto il sostegno ottenuto in questi anni è dovuto alla linea non violenta del movimento” e che lo stesso appoggio resterebbe “anche se chiedessimo formalmente la totale indipendenza”.
Tsundue non commenta iniziative proposte da un ex presidente del Congresso giovanile, Lhasang Tsering, riservato portavoce di un movimento ribattezzato “i mosquitos”, le zanzare, che ha deciso di non partecipare all’assemblea degli esuli perché “priva di una qualsiasi agenda concreta”. “Se paragoniamo la Cina a un uomo muscoloso e armato fino ai denti”, ha aggiunto, “sappiamo che non potrà mai uccidere nugoli di zanzare pronte a colpirlo in tutto il suo corpo: piccoli sabotaggi nel loro paese possono mettere in ginocchio il sistema idrico, elettrico, telefonico, alimentando la rabbia verso il regime”. A chi li accusa di estremismo e insensibilità, Lhasang risponde paragonando il Tibet a una ragazza violentata: “Se vedi qualcuno che la sta stuprando che fai? Ti volti dall’altra parte o cerchi di intervenire, anche se il violentatore è forte e muscoloso”?
Tra i gruppi più importanti di tibetani esuli fedeli alla Via di Mezzo autonomista del Dalai Lama, c’è la Tibetan Women Association, che ha partecipato a marce e manifestazioni. Rinche Kandro, ex ministra dell’Educazione, è una delle sostenitrici esterne e rispetto alle azioni eclatanti degli indipendentisti preferisce “soluzioni più lente ma efficaci”, come l’educazione dei giovani, grazie anche ai tibetani esuli che hanno studiato nelle università occidentali e asiatiche. “Creatività, inventiva, conoscenza, sono le nostre armi migliori e tutti i tibetani con esperienza dovrebbero contribuire a formare i nostri giovani. Anche la specializzazione negli affari cinesi può aiutarci ad avvicinarci a questo popolo, non ai suoi governanti insensibili, ma alla massa che spesso diffida di noi per ignoranza e per la nostra stessa mancanza di disponibilità a incontrarli”.
Finito il dibattito si torna in azione. Con l’incognita di un mondo forse troppo distratto dalle sue crisi per continuare a occuparsi di un “popolo gazzella” capitato, come ha detto il Dalai Lama, tra le grinfie della più potente tigre del mondo. Perfino la sua reincarnazione, come è già successo al numero due del buddhismo tibetani, il Panchen Lama – potrebbe finire infatti fagocitata. A meno che il regime di Pechino non resti vittima della legge di impermanenza cosmica alla quale credono tutti i buddhisti dell’Himalaya.
(da L’Espresso, 4 Dicembre 2008) Raimondo Buldrini