Repubblica — 04 maggio 2008 pagina 16 sezione: POLITICA ESTERA
Federico Rampini PECHINO – Hanno varcato la frontiera cinese ieri sera arrivando all’ aeroporto intercontinentale di Hong Kong: uno in provenienza dalla Svizzera, l’altro dagli Stati Uniti. Poi sono sbarcati sulla terraferma a Shenzhen, la città-boom cresciuta dal niente a dodici milioni di abitanti in meno di vent’anni, un simbolo della potenza economica cinese. E oggi a Shenzhen i due esuli tibetani, rappresentanti ufficiali del Dalai Lama, avranno un incontro con le autorità cinesi. Si apre così quello che è stato battezzato il “dialogo” tra il regime di Pechino e il Dalai Lama, un termine che rischia di rivelarsi ottimista e prematuro. L’ incontro di oggi, che catalizza l’ attenzione internazionale, è il primo contatto tra le autorità cinesi e il governo tibetano in esilio dopo l’ insurrezione divampata a Lhasa il 14 e 15 marzo. Ma non è quella novità clamorosa che il governo cinese ha “venduto” alle diplomazie occidentali come un segno della sua buona volontà.
In realtà i contatti tra Pechino e gli emissari del Dalai Lama hanno una storia lunga e ingloriosa. Solo nell’ epoca più recente si sono consumati ben sei cicli di consultazioni bilaterali, dal 2002 alla fine del 2007, senza alcun risultato. Quei precedenti rendono scettici i tibetani. «Non abbiamo grandi aspettative – ha dichiarato ieri il premier del governo in esilio Samdhong Rinpoche – ma siamo contenti che ci si parli». Più secco il comunicato della Gioventù tibetana, un’ organizzazione radicale che continua a rivendicare l’ indipendenza dalla Cina (obiettivo più volte sconfessato dal Dalai Lama). «Le nostre esperienze passate non ci ispirano fiducia – è stato il commento dell’ associazione giovanile – perché i cinesi non sono mai stati sinceri». Il sospetto che i due portavoce del Dalai Lama possano essere strumentalizzati è avvalorato dall’ atmosfera che si respira a Pechino. Mentre l’ incontro è stato pubblicizzato all’ estero, a uso e consumo dei governi occidentali, in Cina nessun mezzo d’ informazione ne ha dato notizia. Al contrario i mass media governativi continuano a lanciare contro il Dalai Lama bordate di accuse a cadenza quotidiana. Ieri il Quotidiano del Tibet ha pubblicato un editoriale di fuoco: «Il popolo patriottico del Tibet condanna duramente e denuncia con vigore la catena di crimini commessi dal Dalai Lama e dai suoi seguaci». Nella migliore delle ipotesi, la tattica cinese punta a intimidire gli interlocutori per avviare il negoziato da posizioni di forza, e concedere il minimo possibile. Ma è azzardato pensare che il regime cinese sia intenzionato a negoziare e a fare concessioni. L’ incontro di oggi è la conseguenza del “gesto” che il presidente Hu Jintao ha fatto dieci giorni fa per allentare la tensione internazionale sul Tibet, e riparare i danni all’ immagine esterna della Cina. La tempistica non è stata lasciata al caso. Sono passate sette settimane dai violenti disordini di Lhasa, a cui è seguita una dura repressione militare che ha isolato il Tibet dal resto del mondo, con massicce retate nella popolazione e nei monasteri buddisti, condanne esemplari al carcere, deportazioni e campagne di «rieducazione» dei monaci. Mancano tre mesi ai Giochi di Pechino, minacciati dalle proteste che hanno accompagnato il percorso mondiale della fiaccola. Da oggi la fiaccola è tornata finalmente sulla terraferma cinese, dove ogni manifestazione può essere prevenuta con tutta la forza dell’ apparato repressivo cinese. Già ieri la tappa di Macao è stata tranquilla: a differenza che a Hong Kong, nella ex colonia portoghese non si sono registrate proteste. La Las Vegas d’ Oriente aveva preso precauzioni accorciando e spostando l’ orario della staffetta. Alla fine si ricorderà solo che tra i tedofori c’ era il settantenne Stanley Ho, uno dei miliardari più facoltosi dell’ Asia, magnate del gioco d’ azzardo i cui casinò nel 2006 hanno superato il fatturato di quelli del Nevada. Ora che la fiaccola sembra al sicuro e il governo “gioca in casa”, può alternare i toni intransigenti e le aperture. è una tattica che sembra efficace verso l’ Occidente. Hu Jintao ha annunciato l’ apertura del dialogo con il Dalai Lama solo dopo avere incassato le scuse di Nicolas Sarkozy per le manifestazioni di Parigi contro i Giochi. Dopo Londra, Parigi e San Francisco il governo cinese ha soffiato sul fuoco del nazionalismo, tra la gioventù in patria e nelle vaste comunità della diaspora. Si è arrivati alle manifestazioni xenofobe, alle minacce di boicottaggio del made in France, alle intimidazioni contro la stampa estera. Dopo il mea culpa di Sarkozy, il regime cinese ha cambiato i toni. Da Internet sono scomparsi d’ incanto alcuni blog che invocavano manifestazioni e rappresaglie. La polizia è andata a sorvegliare i supermercati Carrefour per contenere il patriottismo anti francese dei giovani. L’ incontro coi tibetani a Shenzhen sembra il tassello di un’ operazione d’ immagine. Il Dalai Lama non può rifiutare l’ offerta di dialogo. La diplomazia cinese può prolungare gli incontri moltiplicando le richieste di “garanzie” alla controparte: infinite volte sarà richiesto al Dalai Lama di rinunciare all’ indipendenza, di sconfessare i ribelli, di condannare le violenze anti cinesi del 14 e 15 marzo. Giocando sul tempo la speranza di Pechino è di placare l’ atmosfera in Tibet, e dissuadere i leader occidentali tentati dal boicottaggio della cerimonia inaugurale dei Giochi. Nel lungo termine si tratta di arrivare fino al giorno della morte del Dalai Lama, per controllare la successione e pilotarla verso un leader più malleabile. – FEDERICO RAMPINI
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