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La Cina nel cuore, ecco l’ altro Tibet
Novembre 5th, 2005 by admin

Repubblica — 18 novembre 2005   pagina 22   sezione: POLITICA ESTERA

LHASA – Per la foto Jia Lei si mette in posa con la moglie nel salotto buono di casa sua, davanti a una parete decorata secondo un criterio preciso. Da una parte è appesa una sorta di arazzo moderno che raffigura il palazzo Potala, l’ antica dimora dei Dalai Lama a Lhasa. A fianco c’ è un poster di Mao Zedong, il padre della rivoluzione comunista cinese. Jia Lei è uno di quei tibetani che con cattiveria si potrebbero definire i collaborazionisti. Per descriverlo in modo più neutrale, è uno di quelli che hanno trovato dei vantaggi nella sottomissione a Pechino. Esiste anche questo: un Tibet filocinese. Non si spiega altrimenti la moderazione del Dalai Lama, l’ abbandono da parte del leader in esilio di ogni slogan secessionista, i suoi omaggi ripetuti ai benefici economici creati dalla Cina. Incontrare questa parte del Paese serve a capire il pragmatismo del Dalai Lama e a farsi una rappresentazione più realistica della situazione, anche a costo di deludere i fan più “romantici” della causa tibetana in Occidente. Jia Lei, 47 anni, ha ancora lo stile del contadino-pastore di montagna, porta i baffoni, la giacca di cuoio nero e il cappellaccio a falde larghe come piace ai cowboy di queste zone. Ma è un contadino ricco, con un casa grande nel villaggio Baiding alla periferia di Lhasa e una piccola ditta di costruzioni edili. Parla tranquillo, anche se la presenza in casa sua di un giornalista straniero ha allertato le autorità locali provocando l’ arrivo improvviso di un arcigno funzionario di partito che sorveglia la conversazione. Dettaglio emblematico, l’ esponente comunista che si è piazzato in salotto per sorvegliarci è cinese e non capisce una parola di tibetano, ha bisogno dell’ interprete come me.Mentre la moglie silenziosa serve il tè al burro salato, Jia Lei descrive il Tibet dal suo punto di vista. «Quando ero bambino io da questa zona fino alla strada Barkor nel centro storico di Lhasa non c’ era neanche una strada asfaltata, le case erano misere e fatiscenti, vivevamo solo del raccolto dei campi. Da quando il governo centrale ha adottato la politica dell’ apertura (all’ economia di mercato e all’ immigrazione cinese, ndr) abbiamo strade nuove e case moderne. Prima del 1985 il reddito medio era di 40-50 yuan al mese, oggi la media guadagna fra i mille e i duemila yuan al mese (100-200 euro). Io sono ricco, quest’ anno guadagnerò forse 120.000 yuan, ma il nuovo benessere non è solo per quelli come me. Le cose vanno bene, basta guardarsi attorno per vedere che la gente ha più soldi. Il boom del turismo sta portando più affari, e a me nuovi palazzi da costruire». Per lui gli antagonismi con i cinesi etnici (Han) non sono un grosso problema, si capisce che con i governanti ha trovato un modus vivendi. Ma alla domanda su quel che resterà della cultura della sua nazione rimane perplesso, osserva la moglie che più di lui ha conservato l’ aspetto di una semplice montanara, tarchiata e goffa, coperta di strati di lana. Riflette a lungo e poi dice: «La cultura del Tibet non sarà mai dimenticata. Se uno guarda i giovani ha l’ impressione che stia cambiando tutto, che loro siano diversi: quello che mangiano, come si vestono, niente è come noi. Ma nel loro animo sono affezionati alle tradizioni». Il dirigente del partito comincia ad agitarsi e a suggerire le risposte quando il discorso tocca le ultime grandi rivolte anti-cinesi del Tibet, quelle esplose nel 1986 e nel 1989. Jia Lei è cauto («quelle cose succedevano in città, a Lhasa, noi contadini ne sapevamo poco, eravamo troppo occupati con i raccolti nei campi») ma evita la piaggieria, non pronuncia condanne. Puoi essere un cowboy arricchito, puoi fare i soldi con i cinesi, non per questo ti abbassi a parlar male della tua gente. La dignità del tibetano resta intatta anche di fronte alla domanda sul Dalai Lama. L’ interprete intimorita dalla presenza del funzionario cinese fatica perfino a trovare il coraggio di tradurla, quella domanda, ride nervosamente come se pronunciare quel nome fosse una pazzia. Jia Lei invece non si turba: «La mia generazione non ha potuto conoscerlo, non lo abbiamo mai visto. Quelli della vecchia generazione, di certo, vorrebbero vederlo tornare». Ha una casa bella e grande, ha tre scavatrici parcheggiate nel cortile, ha addosso gli occhi di un funzionario del governo che gli perforano la nuca, ma riesce a non dire una sola parola contro quello che per i cinesi è un nemico della patria. «Se vuole capire questo Paese – dice Jia Lei congedandomi – e se vuole capire noi, il modo migliore è sempre girare nei monasteri. Qui siamo tutti buddisti, è questo che ci tiene insieme». Il contadino arricchito è una buona sintesi delle contraddizioni di questo paese, a 55 anni dall’ invasione dell’ Esercito di liberazione popolare che lo ha annesso alla Cina. Alcune contraddizioni sono più antiche del dominio cinese. Andando per monasteri, come suggerisce Jia Lei, oltre alla forza della religione come cemento dell’ identità nazionale è impossibile non vedere l’ altra faccia del buddismo, quella arcaica e retrograda. I contadini magri, affamati e analfabeti che investono nei pellegrinaggi il raccolto di un anno. I loro poveri portafogli di pelle di animale riempiti vendendo il bestiame. I risparmi di intere famiglie che finiscono nelle urne stracolme dei lamasteri. I templi tappezzati di banconote, dappertutto: sopra e sotto le statue, negli altari, si cammina circondati dai soldi e sono le elemosine che questo popolo è abituato a fare da secoli alla sua casta sacerdotale. Il volto del Dalai Lama ha un fascino moderno, equilibrato e lungimirante, i suoi predecessori non erano tutti come lui. Il Tibet è vissuto sotto una teocrazia feudale che spremeva i servi della gleba, e contro lo sfruttamento clericale il comunismo di Mao ebbe per un attimo un ruolo liberatorio. Poi volle estirpare la religione stessa, e i tibetani capirono che l’ anima della loro nazione non sarebbe sopravvissuta a quella chirurgia spietata. Anche se il Dalai Lama non può più mettere piede nella sua terra dal 1959, ha conservato qui tanti amici e le informazioni che riceve sono attendibili. Sa il peggio e sa il meglio. Sa che a Lhasa la polizia è dappertutto, le divise sono visibili a ogni angolo della via Barkor percorsa dai pellegrini. Sa che i crimini contro i diritti umani continuano, perfino una delegazione delle Nazioni Unite si è vista rifiutare dalle autorità cinesi l’ accesso al carcere dove sono rinchiusi e torturati dei religiosi. Ma il Dalai Lama apprezza i frutti della modernità: «Il mio Tibet è arretrato – manda a dire dal suo esilio indiano di Dharmasala – siamo un grande paese ricco di risorse naturali ma del tutto sprovvisto di tecnologie o conoscenze per sfruttarle. Perciò se restiamo dentro la Cina potremmo ottenere benefici più grandi, a patto che rispetti la nostra cultura e il nostro ambiente naturale. La nuova ferrovia costruita dai cinesi, per esempio, è un’ ottima cosa, utile allo sviluppo, purché non la usino politicamente». Quale sia l’ uso politico di una ferrovia lo si indovina facilmente in una superpotenza che ha 1,3 miliardi di abitanti cinesi, e 5 milioni di tibetani. Lo scenario che angoscia il Dalai Lama è già realtà nei quartieri ricchi di Lhasa monopolizzati dai commercianti di etnìa Han. Lo si vede dagli uomini dell’ amministrazione che non fanno neppure lo sforzo di imparare la lingua locale, nonostante che ufficialmente i tibetani etnici siano ancora il 90% della popolazione locale. Sul valore di questa statistica governativa il verdetto finale lo esprime il negozio di souvenir dell’ aeroporto di Lhasa, che ti saluta prima di ripartire per Pechino con un’ insegna che in inglese recita, beffarda: «Artigianato locale della minoranza tibetana». (3 – fine Le precedenti puntate sono state pubblicate il 15 e il 16 novembre) – DAL NOSTRO INVIATO FEDERICO RAMPINI

Nel cuore del Tibet religioso un finto leader spirituale

SHIGATSE – Appena lasciata la capitale Lhasa sali subito oltre i 4.000 metri, attraversando i passi di montagna incontri solo qualche pastore solitario con le rughe bruciate dal sole e la compagnia dei suoi yak dal pelo lungo, poi un gruppetto di contadine dalle gonne colorate che trasportano sulle spalle covoni di paglia molto più grandi di loro. Perfino nella natura selvaggia dei canyon tibetani, tra il ghiacciaio Kanorla e il lago Yamzhuo, spuntano le «impronte» della Cina: il traforo e l’ autostrada nuova, la diga della centrale idroelettrica, i tralicci dell’ alta tensione. Eppure, nonostante le tracce della modernità impresse da Pechino, questo paese rimane un deserto. Il Tibet amministrativo è grande quanto Germania e Francia insieme, quello etnico è vasto come l’ intera Europa occidentale, i tibetani però sono meno di cinque milioni, un minuscolo popolo disperso fra l’ immensità di queste vette. Non è chiaro a prima vista il perché dell’ accanimento cinese. Perché voler controllare una terra meravigliosa ma così desolata, resa aspra e inaccessibile dall’ altitudine. Abitata da montanari capaci di sfidare i crepacci per inerpicarsi a costruire qualche «stupa» dove pregare Budda su picchi alti quanto il nostro Monte Bianco. La scoperta di giacimenti petroliferi? Il business turistico? Sono attrattive troppo recenti per spiegare un’ occupazione cinese ben più antica. La chiave del mistero si trova nella targa di un museo di regime quando giungi in vista di Gyantse, avamposto verso l’ India, il Nepal e il Bhutan. Gyantse ha l’ atmosfera della cittadina di frontiera. I montanari scendono al mercato sui carretti trainati da robusti cavallini nani, gruppi di donne con le teste infagottate nei foulard festivi vendono piccole mele gialle raggrinzite dal freddo, i ristoranti sono di proprietà di nepalesi che parlano solo inglese e niente mandarino, ma i negozi di trattori agricoli o di televisori sono già tutti in mano ai cinesi. L’ antico fortino di Gyantse, con le sue torri candide appollaiate sulla cima di un colle, oggi è un monumento che la Repubblica popolare cinese presenta allo straniero, in una lingua approssimativa, come «The Memorial Hall Anti-British». E’ il 1903 quando questa roccaforte sperduta fra i monti diventa il teatro di una delle imprese più sconclusionate dell’ Impero britannico, le cui conseguenze vengono pagate ancora oggi dal popolo tibetano. Il vicerè dell’ India Lord Curzon si lascia convincere dal suo colonnello Francis Younghusband che la Russia zarista ha in pugno il Dalai Lama, una pedina negli equilibri geopolitici dell’ Asia centrale. Il colonnello britannico si mette alla testa di una piccola armata di mercenari indiani, oltrepassa il confine dal Sikkim, espugna il fortino di Gyantse massacrando tremila tibetani. Il suo exploit militare viene sconfessato da Londra che lo costringe alla retromarcia. Ma Younghusband ha ormai messo in moto una catena inarrestabile di conseguenze. La dinastia cinese dei Qing, già agonizzante e traumatizzata dalle umiliazioni subìte ad opera delle potenze imperiali (Gran Bretagna, Giappone, Russia), vede all’ orizzonte l’ incubo di una penetrazione inglese attraverso il Tibet, l’ apertura di un nuovo varco per minacciare la Cina dal subcontinente indiano. Anche se gli inglesi nel frattempo sono partiti, nel 1909 le truppe dei Qing occupano Lhasa per «liberarla dall’ invasore occidentale». Il tredicesimo Dalai Lama deve fuggire in esilio proprio come il suo successore farà 50 anni dopo di fronte all’ Esercito di Liberazione popolare di Mao Zedong. Da allora i termini della questione tibetana non sono mai cambiati. Sotto qualsiasi regime – imperiale, repubblicano, nazionalfascista, comunista – la Cina considera il Tibet come un cuscinetto strategico per proteggersi a Ovest. Pur di non mollare la presa Pechino inventa ogni sorta di legittimità, dalla lotta anti-imperialista all’ unità sino-tibetana ai tempi di Marco Polo. L’ Occidente finge di difendere i tibetani e in realtà non muove un dito: la storia dei tradimenti angloamericani va da Lord Curzon a Clinton e Bush, passando per Roosevelt e Nixon, tutti amici del Tibet a patto di non disturbare la realpolitik con Pechino. Così questo popolo mite che ha saputo costruire una raffinata civiltà sul «tetto del mondo», conquistandosi per 1.500 anni l’ ammirazione dei suoi vicini, da un secolo è trattato come un’ entità irrilevante, vittima di giochi troppo più grandi di lui. Da Gyantse dopo mezza giornata di viaggio si raggiunge Shigatse, la seconda capitale religiosa del Tibet dopo Lhasa, dove l’ arrivo in serata rivela subito uno dei progressi portati dai cinesi: un mini-quartiere a luci rosse, con signorine che si offrono vistosamente ai clienti sull’ uscio di casa, a pochi metri dal commissariato di polizia. Shigatse custodisce nel monastero Tashilhunpo tre meraviglie dell’ arte religiosa tibetana. La più alta statua di Budda nel mondo, un gigante dorato di 26 metri con un dolce viso indiano. L’ equivalente locale della «armata di terracotta» dei cinesi, in miniatura: un esercito di micro – statuine di Budda a perdita d’ occhio, l’ unica potenza che il Tibet è in grado di dispiegare. La regale tomba del decimo Panchen Lama con una piramide di pietre preziose. Un grande striscione autografo dell’ ex presidente comunista Jiang Zemin che invoca la benedizione per tutta la Cina, e l’ offensiva presenza di una jeep della polizia dentro il cortile sacro del tempio, rivelano però che questo è un monastero molto speciale. E’ la dimora ufficiale del Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano dopo il Dalai Lama. L’ attuale Panchen Lama è un povero quattordicenne la cui selezione, esattamente dieci anni fa, fu manipolata dal governo cinese. La regìa di Pechino ha la mano pesante. Le foto del giovinetto invadono tutto il Tibet, il suo faccione un po’ ebete spunta su migliaia di altarini, nel goffo tentativo di far dimenticare l’ altro, invisibile e innominabile, il Dalai Lama in esilio. Perciò il Panchen è considerato un burattino nelle mani della Cina. Nel 1995 qui nel monastero di Tashilhunpo i monaci si ribellarono contro la sua nomina, la polizia soffocò la loro rivolta con brutalità. Ora fra le mura di Tashilhunpo la menzogna regna insieme con l’ ordine e la pace. Il monaco Nyima Tsering, 38 anni, fa un’ amara ironìa: «Invece di dedicarmi al bene del prossimo devo occuparmi di management del turismo. Si direbbe che il progetto è trasformare noi tibetani in venditori di souvenir». Il monastero del Quattrocento è un magnifico deposito di tesori dell’ antichità, l’ ideale per attirare i visitatori. Ma le bellezze storiche hanno perso il significato originario, perché questo luogo è la dimora vuota di un finto leader spirituale. Per paura delle reazioni tibetane contro di lui, il governo tiene il Panchen Lama nascosto a Pechino quasi tutto l’ anno. Quando i suoi capi decidono di spedirlo a Shigatse, questo avviene con dei blitz improvvisi e segreti, scortati da una robusta protezione di polizia. Una di queste rare missioni pastorali del ragazzino è avvenuta a sorpresa proprio in questi giorni. Come sempre lo si viene a sapere a posteriori. A visita già conclusa la televisione di Stato cinese ha annunciato: «Il Panchen Lama ha passato in rassegna i 600 monaci radunati ad accoglierlo, e ha salutato la folla che lo applaudiva». Curiosa svista, perché in realtà i religiosi del monastero di Tashilhunpo sono ottocento. (2 – continua)

DAL NOSTRO INVIATO FEDERICO RAMPINI http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/11/16/nel-cuore-del-tibet-religioso-un-finto.html


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