Repubblica — 22 novembre 2004 pagina 17 sezione: POLITICA ESTERA
Shigatse (Tibet) – Jang Zi Nian Zha, custode delle sacre stanze di Tashilumpo, sorride cordiale. «Tutti gli amici del mondo sono i benvenuti nella residenza del Panchen Lama», annuncia, sottolineando che i turisti non danno fastidio a chi prega fra le statue del Buddha. All’ interno del monastero i religiosi in tonaca amaranto sopportano con pazienza richiami a voce alta, flash, conversazioni al telefonino. È un ordine arrivato da Pechino: porte aperte ai visitatori occidentali. Meglio ancora se i nuovi arrivati trattano i monaci come comparse in costume e sul buddhismo tibetano non sanno nulla. È una linea sgradita in molti eremi delle campagne, ma a Lhasa e soprattutto a Shigatse il diktat dell’apertura al mondo è ormai accettato. E proprio Tashilumpo, l’unico monastero lasciato integro dalla furia delle Guardie rosse, sembra diventato il punto di riferimento per i tibetani «collaborazionisti» con Pechino. Sulla tonaca di Jang Zi Nian Zha c’ è la conferma delle sue scelte politiche: una spilla rotonda, che ritrae un ragazzo con le insegne gialle del Panchen Lama. E Gyaltsen Norbu: il suo nome è stato estratto a sorte da un’ urna d’ oro nel novembre 1995. «è così che si è sempre fatto per trovare il Panchen reincarnato», dice aggressivo l’ unico monaco autorizzato a parlare inglese. In realtà prima della «liberazione pacifica» del Tibet, era sempre toccato al Dalai Lama dare il riconoscimento definitivo al nuovo numero due della gerarchia religiosa tibetana. Ma dopo la morte del decimo Panchen, Pechino ha voluto dire la sua. Nel maggio ’95, dopo un’ indagine clandestina dall’ esilio, il Dalai Lama aveva riconosciuto nel piccolo Gedhun Choekyi Nyima l’ undicesimo Panchen Lama. Poco dopo il governo cinese aveva fatto sparire il piccolo Gedhun e la sua famiglia, «per motivi di sicurezza», e aveva proclamato il «suo» Panchen Lama, appunto Gyaltsen Norbu, figlio di un membro del partito. …
La spilla del monaco, insomma, vale quanto un distintivo. Chi porta le insegne del «finto» Panchen Lama – che oggi vive a Pechino e rilascia interviste sul prezioso ruolo del partito comunista – ha di fatto abbandonato la speranza di un Tibet «diverso», se non indipendente quanto meno fedele alle sue tradizioni. Ai monaci addomesticati di Tashilumpo Pechino chiede proprio un aiuto a trasformare la regione: da scrigno chiuso in se stesso a vetrina – pazienza se un po’ dozzinale – della nuova Cina che si vuole multiculturale e rispettosa delle diversità. Il via libera al turismo di massa è il nuovo fronte del conflitto. La repressione – gli arresti per «separatismo» continuano, denuncia Amnesty International – non basta e rischia di attirare simpatie a quella che Pechino definisce «la cricca del Dalai Lama». Meglio le comitive e i tour «tutto compreso», per godere i panorami e lo spettacolo della cultura locale. Il misticismo tibetano, ridotto a folklore, perde ogni efficacia come collante politico e può persino rendere bene. «Prima del 1978 nessuno aveva provato a sfruttare le risorse naturali e di cultura», dice Tashi Norbu Tranor, vicedirettore dell’ ufficio Turismo tibetano a Lhasa. «Ora nel settore abbiamo 130 imprese, che con l’ indotto impiegano oltre ventimila persone. E se nel 2003 la Sars ha spaventato i turisti stranieri – ne sono venuti solo 60 mila – quest’ anno le cose vanno meglio. Raggiungeremo gli 80 mila». Il turismo “interno”, quello cioè dei cinesi, conta su cifre più robuste: «Arriveremo a 950 mila», dice Tranor. Ma non basta: Pechino sta investendo tre miliardi di yuan (circa 300 milioni di euro) per migliorare i trasporti. L’ obiettivo sembra a portata di mano: «Vogliamo 2,8 milioni di turisti l’ anno». La sera, a Lhasa, la mole del Potala resta buia. Il monastero che ospitava il Dalai Lama è vuoto: il suo inquilino è riparato in India, a Dharamsala, dopo la fallita ribellione del 1959. Ma sulla facciata austera rimbalzano riflessi verdi, gialli, rosa: sono i neon dei negozietti cinesi aperti nel cuore della vecchia Lhasa. Guidano l’ assedio attrezzature da montagna, jeans, elettronica di consumo, negozi di finta moda italiana. Per ora non ci sono i fast food: quest’ estate il Dalai Lama ha pubblicamente ringraziato Kentucky Fried Chicken, che su sua richiesta ha rinunciato a vendere pollo fritto nella capitale tibetana. Ma la strada è aperta: nei ristoranti l’ hamburger di yak, gradito agli occidentali, è la ricetta più diffusa. E gli hotel già propongono escursioni in fuoristrada e discese in gommone sui fiumi tibetani. In realtà un arrivo massiccio di turisti sembra prematuro per le strutture dell’ altopiano: nonostante le temperature rigide, gli alberghi non hanno riscaldamento. E molti non offrono nemmeno l’ ascensore: un dettaglio non da poco, in città come Lhasa (3600 metri sul livello del mare) o Shigatse (3900), dove anche pochi gradini tagliano le gambe a chi arriva da altitudini più modeste. Però il governo cinese progetta grandi aperture al turismo internazionale e vuole persino creare «punti di osservazione panoramica», cioè terrazze attrezzate, senza troppa cautela per l’ attuale struttura territoriale. Ma non c’ è da temere: «L’ arrivo dei turisti non danneggerà la natura», ribatte Zhang Yongzae, responsabile dell’ ufficio Protezione ambientale, ricordando che in alcuni casi – come nella visita al Potala – si ricorre già al numero chiuso dei visitatori. E sottolineando che Pechino ha persino vietato l’ uso di buste di plastica, per tutelare il Tibet. Normative ecologiche, apertura al mondo, la sterzata modernizzatrice imposta dal governo cinese alla «Regione autonoma» è a tutto campo. La strategia passa soprattutto sull’ inurbamento e sulla scuola. Prima della «liberazione pacifica» del 1950-51, 95 tibetani su 100 erano analfabeti. Adesso pochi bambini sfuggono all’ obbligo scolastico, anche se la scuola è a pagamento. Sul valore dell’ educazione, è proprio il vicepresidente Wu Ji Lie a fare chiarezza: «I bambini devono frequentare la scuola fino ai 18 anni. Tutti». Anche quelli che, come dice la tradizione, volevano entrare in monastero a 8 anni. A distoglierli ci penserà il contatto con il mondo. le vittime Sono un milione le persone morte per la repressione cinese in Tibet dal 1959 ad oggi, 150 mila vivono attualmente in esilio. – DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO CADALANU
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