Repubblica — 01 marzo 2008 pagina 51 sezione: POLITICA ESTERA
DHARAMSALA (Himachal Pradesh) Alcuni dei loro uffici sono poco più che baracche. Altri hanno computer e scrivanie dove giovani e giovanissimi tibetani si ammassano a dozzine per non sedere a terra. Formalmente sono Organizzazioni non governative, di fatto rappresentano l’altra faccia, la più politica e disperatamente nostalgica della comunità di profughi dal Tibet. Mentre a poche centinaia di metri il Dalai Lama trasmette insegnamenti religiosi a migliaia e migliaia di monaci e laici giunti da ogni angolo dell’ India e del mondo, loro lavorano mattina e sera a preparare una delle iniziative più clamorose da quando sessant’ anni fa il loro leader spirituale ha lasciato Lhasa per raggiungere l’ esilio indiano. Il prossimo 10 marzo, un anno prima del cinquantesimo anniversario della fallita rivolta contro le truppe d’ occupazione cinese, partiranno in cento da Dharamsala, destinazione Tibet. Contano di arrivare nella terra d’ origine dei loro genitori e nonni in occasione delle Olimpiadi fissate l’ 8-8-08, una data considerata fausta dalle autorità di Pechino nonostante ricordi tristemente il giorno del massacro di tremila studenti birmani (avvenuto l’ 8-8-88) ad opera del regime birmano alleato della Cina. E’ una marcia senza speranza di parecchie centinaia di chilometri, destinata a scontrarsi con le guardie di frontiera dell’ Esercito Popolare, le stesse che sparano quasi quotidianamente contro i profughi sorpresi a fuggire in senso inverso per raggiungere Dharamsala con i piedi affondati nella neve attraverso le impervie catene himalayane. Solo il giovane tibetano Tenzin Tsundue, nato in esilio e diventato l’ icona della utopica e drammatica lotta degli irriducibili indipendentisti, aveva rischiato prima un’ impresa simile. Tenzin marciò da solo nel 1977 con una fascia rossa legata alla fronte, la stessa che indossa ancora adesso mentre fa la spola tra un ufficio e l’ altro delle cinque Ong dove è richiesta la sua presenza e la sua esperienza per organizzare la spedizione. Undici anni fa venne fermato subito al di là del confine, picchiato, messo in una cella senza cibo, interrogato e trasferito per tre mesi nelle carceri di Lhasa e Ngari, prima di essere rispedito indietro. Lo incontriamo lungo le stradine caotiche a affollate del villaggio di McLeod Ganji trasformato in una Lourdes dei pellegrini buddisti, tra negozi di statue, dipinti, ristorantini dove si servono tortelloni di verdure o carne chiamati momo, templi e monasteri in perfetto stile tibetano zeppi da mendicanti indiani e occidentali giunti a incontrare il Dalai e le dozzine di altri lama e geshe vestiti d’ amaranto come la folla dei monaci che costituisce la maggioranza della popolazione locale. Anche Tenzin è buddista e riverisce il Dalai lama, ma dice di non riuscire “a provare la stessa compassione per tutti, cinesi inclusi”. “La compassione – spiega – è il compito di un leader spirituale, che per non creare troppa sofferenza agli altri può anche accontentarsi di una limitata autonomia per il Tibet. Ma non è così per me e per molti altri giovani cresciuti in esilio, privati di radici e d’ identità, senza la possibilità di mettere piede nella terra che ci appartiene, cresciuti in famiglie divise al di là e al di qua di confini senza nemmeno la lontana prospettiva di un Muro di Berlino da smantellare”. E’ – dice Tenzin – una marcia per l’ indipendenza, per il “ritorno a casa”, ma non vuole rivelare attraverso quale dei numerosi punti lungo i 4000 km del confine tenteranno di sfondare con la loro utopica e pacifica Satyagraha in stile gandhiano. Dei cento partecipanti iniziali aderenti al Tibetan Youth Congress, la Tibetan Women’ s Association, il Gu-Chu-Sum (ex prigionieri politici), il National Democratic Party of Tibet e gli Students for a Free Tibet, potrebbe diventare molto, molto più consistente se – come richiesto e promesso – altri si aggiungeranno cammino facendo: studenti, volontari, pacifisti, media. Sa che, idealmente, una manifestazione di sostegno si terrà anche nella lontana Italia, a Roma, dove numerose associazioni hanno promosso un sit in sotto la sede del Coni in via De Bosis e un corteo con fiaccolata da piazza Navona. L’ unica cosa certa è la prima tappa, la capitale Delhi. Poi si vedrà che cosa decideranno le stesse autorità politiche indiane, attualmente in ottimi rapporti con Pechino. Forse li fermeranno col rischio di indispettire il mondo. Forse li lasceranno andare fino al confine. Di sicuro avranno già ottenuto il risultato di rovinare nel loro piccolo la festa olimpica con una lunga marcia fuori programma e senza medaglie finali. per saperne di più www.tibet.com www.italiatibet.org www.dalailama.com il caso – RAIMONDO BULTRINI