Repubblica — 04 aprile 1999 pagina 18 sezione: POLITICA ESTERA
DHARAMSALA – Sebbene domini dalla cima di una collina la sconfinata valle indiana del Khangra, la residenza in esilio del Dalai Lama non è nemmeno l’ ombra del leggendario Potala di Lhasa, il Palazzo dei re divini che lo vide crescere e fuggire sotto i colpi dei cannoni cinesi quarant’ anni fa. Tra le mura della sua villa di cemento bianco, dove le misure di sicurezza sono sempre più strette, attendenti e segretari, traduttori e impiegati non hanno le vesti sgargianti del film di Scorsese ma semplici giacche di lana o le vesti color amaranto e zafferano dei monaci. La pace di cui lei, dopo il premio Nobel, è uno dei simboli sembra sempre più un’ illusione. Il Kosovo è solo l’ ultimo inferno sulla terra. “Tutto il mondo può vedere con i propri occhi quanta sofferenza provochi l’ incapacità degli uomini di comunicare e di trattare. Come per il Tibet: il problema è l’ autonomia di una minoranza da un potere totalitario. In generale, nel mondo moderno gli Stati, le razze, le singole persone, tutti siamo dipendenti gli uni dagli altri e dunque costretti a confrontarci. Anche tra nemici. Altrimenti trascineremo odio e inimicizia per tutto il tempo della nostra vita, quella dei nostri figli e ancora oltre”. Ma lei pensa davvero che in circostanze come quelle del Kosovo sia possibile un’ autonomia senza fucili? “Certo che è possibile. Pensate al Sudafrica. Nelson Mandela ha ottenuto il potere, in una condizione di divisioni tribali fortissime, di violenze secolari, e si è attenuto allo spirito della non violenza, della riconciliazione. Quindi quella che sembrava a tutti un’ utopia in Sudafrica è realtà. E potrebbe esserlo anche in Kosovo. Naturalmente c’ è bisogno di più volontà, di pazienza. Se una delle due parti è totalitaria, l’ alternativa alla violenza è solo la pazienza”. Lei pratica la pazienza da 40 anni. E molti, tra i suoi stessi fedeli, pensano che questa politica pacifica, che non rivendica più nemmeno l’ indipendenza in cambio di una parziale autonomia, sia stata un fallimento. “E’ vero, c’ è chi pensa questo. E i dirigenti cinesi dovrebbero riflettere”. In che senso? “Credo che l’ attuale politica del governo cinese verso il Tibet sia sbagliata e dannosa per la stessa stabilità interna e per l’ unità che il governo di Pechino considera la cosa più importante”. Paventa il rischio di una ribellione violenta? “Un certo tipo di stabilità e unità solo superficiale è il risultato della paura, non è genuina. La stabilità e l’ unità devono venire dal cuore, non dal terrore. Perciò dico che questa politica è controproducente”. Alcuni ritengono che i cinesi stiano solo aspettando che lei lasci questo mondo per risolvere i problemi. “Questa è un’ opinione. Secondo qualche altra persona, fino a quando il Dalai Lama ci sarà e lavorerà per risolvere i problemi del Tibet in modo moderato, tutti ne trarranno beneficio”. Vuol dire che senza di lei la lotta per l’ indipendenza non sarebbe più pacifica? “Se il governo cinese ci concederà un minimo di autonomia, io userò la mia autorità morale per convincere i tibetani a non lottare per la separazione, a valutare le cose con realismo. Ho delle ragioni fondate per portare avanti questa mia posizione. Anche se tutti i tibetani volessero tornare alla condizione del Tibet com’ era prima, senza mezzi di trasporto, nuovi sistemi educativi, rimanere cioè nel nostro mondo antico, non sarebbe più possibile. Abbiamo bisogno di molto sviluppo materiale e di un’ educazione moderna. Su questo i cinesi possono aiutarci. Hanno molti esperti e capitali finanziari. C’ è tanto di quel lavoro da fare che i tibetani da soli non potrebbero mai farcela. E se per lo sviluppo possiamo appoggiarci a uno Stato più grande questo sarà solo un vantaggio per noi”. Ma molti tibetani dicono che non si possono dimenticare il passato e il presente, parlano di persecuzioni religiose e politiche, lei stesso ha usato l’ espressione genocidio culturale… “E’ vero, ora la situazione è addirittura peggiorata. Ma voglio essere chiaro: come ho detto sempre, bisogna pensare ai problemi veri del Tibet. E anche se c’ è molta diffidenza da parte dei cinesi, la mia posizione non è cambiata. Quando a Pechino vorranno io sono pronto”. Jang Zemin aveva promesso a Clinton la ripresa del dialogo in cambio della sua rinuncia all’ indipendenza e di una dichiarazione sull’ appartenenza di Taiwan alla Cina. “Come ho già detto, nel mondo moderno il concetto di un’ indipendenza totale non esiste più. Nell’ economia e anche nella sicurezza le cose sono connesse e interdipendenti. Anche quando ero a Taiwan ho espresso questa idea. Quindi se a noi tibetani resta una completa indipendenza nei campi religioso, sociale, dell’ educazione, dell’ ambiente, possiamo fare certo meglio dei cinesi. Nella Difesa, negli Affari Esteri sono loro ad essere migliori. Questa è la mia opinione. Se il governo cinese, quindi, ci offre veramente questo tipo di autonomia, io posso cercare di persuadere il mio popolo convincendolo che è questo l’ unico modo per far sviluppare il nostro paese. Sono convinto: l’ attuale politica del governo cinese verso il Tibet è profondamente sbagliata”. Lei ha detto recentemente che il dialogo con Pechino si è interrotto. Com’ è la situazione? “All’ inizio dello scorso autunno le relazioni tra noi e le autorità cinesi sembravano svilupparsi positivamente e uno dei canali informali di dialogo stava cominciando a dare dei frutti. Quando Jang Zemin ha detto a Clinton che io avrei dovuto rispondere sui due punti dell’ indipendenza e di Taiwan, prima di rispondere pubblicamente avrei voluto parlarne attraverso i canali informali. Sono sicuro che in questo modo si sarebbe arrivati a un accordo. Ma durante lo stesso autunno abbiamo ricevuto dei segnali confusi da diverse fonti cinesi. Contemporaneamente anche i canali di dialogo che stavano funzionando si sono chiusi. E lo sono tuttora”. Cosa pensa del boom di tanti insegnamenti tibetani in Occidente, e del rischio che non tutti siano genuini? “Dico di non accettare subito i maestri, ma di riflettere, indagare, esaminare attentamente. Ci sono in giro molti cercatori di soldi, di dollari, di lire. Ci sono molte persone che parlano in nome del buddhismo, ma che invece cercano solo ricchezza. Altri che perseguono scopi meno chiari. Uno dei criteri potrebbe essere valutare queste persone dal riconoscimento che hanno ottenuto all’ interno della società tibetana. Per esempio ci sono individui che in India nessuno conosce, ma che in Occidente diventano Grandi Lama”. Lei sta per tornare in Italia e incontrerà il Papa, come ha fatto tante volte. Ma al di là delle relazioni formali, spesso c’ è diffidenza verso la sua e altre religioni non cristiane. “Credo che le società occidentali abbiano una base cristiana e principalmente cattolica molto forte. Dico sempre a chi me lo chiede che è meglio mantenere la propria tradizione. E’ complicato e può anche essere pericoloso cambiare fede. Però, se qualche individuo sente che per lui è più efficace una tradizione o una filosofia orientale, c’ è la possibilità che funzioni. D’ altro canto l’ individuo che fa questa scelta non può esimersi dal rispettare la sua religione d’ origine”. – dal nostro inviato RAIMONDO BULTRINI