Repubblica — 20 aprile 2008 pagina 42 sezione: DOMENICALE
Pechino – «Interferenza inaccettabile negli affari interni della Cina»: così il presidente della Repubblica Popolare Hu Jintao zittisce chi critica la repressione cinese in Tibet. Per i vertici del regime comunista e per la maggioranza della popolazione han (i cinesi etnici) il Tibet pur nella sua diversità è parte integrante della nazione. Come la Bretagna è francese o la Sicilia è italiana. Vista da Pechino la simpatia degli occidentali per il Dalai Lama cela l’ obiettivo di indebolire la Cina aizzando i separatismi regionali. Dietro gli striscioni “Free Tibet” che hanno accolto la fiaccola olimpica a Londra, Parigi e San Francisco i cinesi vedono la superbia delle potenze imperialiste che dall’ Ottocento attaccarono a più riprese la Cina. Gli inglesi sconfissero l’ Impero Celeste nella guerra dell’oppio (1842), si presero Hong Kong e interi quartieri di Shanghai e Canton; nel 1900 anche russi, francesi, tedeschi e italiani parteciparono alla spedizione punitiva contro la rivolta dei Boxer e si divisero il bottino di guerra; nel 1931 il Giappone occupò la Manciuria e da lì invase il resto del paese. In quelle umiliazioni affonda le radici il nazionalismo cinese moderno. Il fatto che quella memoria storica sia manipolata dal regime non toglie che il nazionalismo sia sincero, e ipersensibile. La questione dell’ integrità territoriale vi gioca un ruolo fondamentale. Hu Jintao ha ribadito che il Tibet è una parte inalienabile della nazione dai tempi della conquista mongola di Gengis Khan, nel Tredicesimo secolo. Può sembrare assurdo che il padre presunto dell’ unità fra Cina e Tibet fosse un invasore straniero. Ma la storiografia comunista ha “sinizzato” anche Gengis Khan, appropriandosene per inserirlo nella continuità imperiale. In quest’ ottica la Terra di Mezzo è un impero multietnico unito da millenni, anche quando a governarlo sono state dinastie straniere come i mongoli o i mancesi. Noi occidentali siamo accusati di ignoranza dai cinesi quando vogliamo ridurre la storia dell’Impero Celeste nella camicia di forza dello Stato-nazione, una categoria europea inventata da pochi secoli. Vista dai tibetani è ben diversa la storia del loro paese: una civiltà autonoma, culturalmente e religiosamente più vicina all’ India che alla Cina, con millecinquecento anni di indipendenza interrotti da due eccezioni: sotto la dinastia Yuan del Tredicesimo secolo, e quella Qing dal Settecento ai primi del Novecento. Ma anche gli imperatori Yuan e Qing lasciarono ai tibetani forme di autogoverno; i lama servivano da consiglieri spirituali per i sovrani cinesi; mai vi fu un’ annessione formale alla Terra di Mezzo. E dal 1912 al 1949 il Dalai Lama fu l’ unico potere a Lhasa. Sembra impossibile trovare un compromesso tra due ricostruzioni del passato diametralmente opposte. In base alla prima, la rivolta scoppiata a Lhasa il 14 marzo scorso è un problema interno come i disordini nelle banlieues parigine del 2005. In base alla seconda, è una lotta anticoloniale contro un oppressore straniero, è una intifada come quella palestinese nei territori occupati, è una battaglia anti-apartheid come quella dei neri sudafricani contro la minoranza bianca. Fare i conti con il passato è essenziale, ma quale passato? Tra queste visioni incompatibili, a indicare una “via di mezzo” è il Dalai Lama. In diciotto incontri e cinquanta ore di dialogo con il giornalista Thomas Laird, Tenzin Gyatso ha scavato nella sua memoria personale, nei suoi studi, nelle tradizioni del suo popolo, nelle ricerche degli storici locali, cinesi e occidentali, per illuminare la storia del Tibet: «Solo se il popolo cinese e il suo governo capiscono la natura della questione tibetana e come è nata, possiamo trovare una soluzione accettabile per entrambi». Il Dalai Lama avverte che la storia ha «sfumature di grigio, non è mai bianca o nera come spesso la dipingiamo». è con umiltà che nasce questo libro-dialogo, Il mio Tibet. è un viaggio attraverso migliaia di anni di storia e di mitologia, dalle prime leggende sulle origini di questo popolo alla nascita dell’ Impero tibetano nell’ Ottavo secolo, quando il paese si estendeva dall’ attuale Cina sudoccidentale all’ India settentrionale. La dimensione religiosa accompagna l’ analisi storica, la completa, ma il mito non prevale sulla ricerca della verità. Leader mistico, Tenzin Gyatso ha un atteggiamento laico e aperto verso la scienza: «Budda ha spiegato che ognuno deve giungere alla decisione finale attraverso la ricerca e la sperimentazione, non affidandosi soltanto ai testi religiosi. Quando la scienza contraddice chiaramente le convinzioni buddiste accetteremo la scienza, non le antiche credenze». Questo vale anche per la fede nella reincarnazione: per il Dalai Lama non entra in conflitto con il metodo storico, perché i buddisti non credono nell’ esistenza di un’ anima che migra da un corpo all’ altro. La loro reincarnazione è più complessa: «Se qualcuno mi chiede se sono la reincarnazione del Dalai Lama rispondo di sì senza esitazione. Ciò non significa che sono la stessa persona. Sento di poter dire di avere qualche tipo di legame con alcuni dei precedenti maestri, qualche relazione con le loro virtù». Fino all’ inizio del Novecento le due scuole storiche, quella occidentale e la cinese, sono concordi: la storia del Tibet non si può ridurre a un’ appendice. Quando emerge dalle nebbie della mitologia nel Settimo secolo dopo Cristo, il Tibet è «una potenza in lotta per un impero delle dimensioni di quello di Roma». Dal 620 all’ 820 sfida più volte la Cina, è la più grave minaccia straniera per la dinastia Tang. Gli innumerevoli conflitti tra tibetani e han s’ inseriscono nel conflitto millenario che oppone gli agricoltori sedentari delle pianure alle popolazioni nomadiche – oltre ai tibetani i mongoli, i turcomanni-uiguri, gli arabi dell’ Asia centrale. Almeno cinque imperi si contendono il controllo della Via della Seta. Il Tibet era uno di questi, e i suoi sovrani regnano a lungo su vaste zone della Cina. La storia narrata dal Dalai Lama non è apologetica. Sul ruolo del buddismo ha uno sguardo lucido, esprime giudizi severi. Laird gli chiede se il declino della potenza militare tibetana sia stato provocato dall’arrivo del buddismo che ammansì il cuore della gente. Tenzin Gyatso è più critico: «C’ era troppa devozione verso i monaci, molte terre furono donate ai monasteri danneggiando la ricchezza e lo sviluppo nazionale». I dirigenti comunisti cinesi descrivono il Dalai Lama come il difensore di una teocrazia feudale e parassitaria. Lui invece non è tenero con la religione. Quando analizza l’ annientamento del buddismo in India e l’ ironia della sua scomparsa dalla terra dov’era nato, rifiuta di attribuirne la responsabilità prevalente agli attacchi musulmani: «I monasteri buddisti e i monaci stessi divennero molto ricchi e accumularono parecchio oro in nome del tantra. Alcolici e sesso non mancavano. La stima dell’ opinione pubblica per i monaci diminuì, alcuni li disprezzavano o non si fidavano più di loro». L’ equilibrio dei suoi giudizi si applica all’ invasione cinese nel 1950. Il Dalai Lama attribuisce il crollo del suo paese a una chiusura autarchica e al rifiuto del progresso: «Da bambino sentivo ripetere che dovevamo seguire il modo tradizionale di fare le cose. Ciò mette in evidenza una sorta di stagnazione. Creare progresso non aveva senso. Se si diffondeva qualche abitudine creativa, veniva giudicata negativa. Si voleva mantenere la situazione com’ era, conservare il passato. è stato l’ errore più grande. In tal modo il Tibet si è indebolito e nessuno si è preoccupato di sapere che cosa stesse succedendo nel mondo intorno». Questa debolezza è la chiave per capire i tragici eventi del Novecento, il secolo fatale per l’ indipendenza del Tibet. Paradossalmente la dinastia che si accanisce per annettersi il Tibet è quella dei Qing, gli imperatori mancesi che hanno bisogno di arricchire le differenze etniche perché essendo loro stessi stranieri vogliono controbilanciare la superiorità numerica degli han. Ed è il declino dei Qing ad accelerare il destino dei tibetani. All’ inizio del Novecento l’ Asia centrale è il teatro del Grande Gioco, la partita geostrategica che oppone l’ imperialismo russo a quello britannico. L’ immenso Tibet è una preda ambita, una barriera montagnosa da cui si può insidiare l’ India o la Cina; la sorgente di cinque dei maggiori fiumi del pianeta, da cui dipendono le agricolture asiatiche: il Mekong, il Salween, il Brahmaputra, lo Yangze e il Fiume Giallo. Per la Cina decadente e accerchiata da potenze coloniali, Lhasa diventa un simbolo: l’ ultima roccaforte esterna che riesce a espugnare. Dal Vietnam alla Corea, altri paesi hanno un passato di relazioni antiche e complesse con la Cina; sono stati a turno suoi vassalli o rivali, autonomi o stati-satellite. Ma nel Ventesimo secolo nessun governo di Pechino ha la forza militare necessaria per legittimare un’ annessione del Vietnam o della Corea. Il Tibet è il ventre molle che altre potenze hanno abbandonato, lasciando che i leader cinesi riscrivessero la storia per negargli il diritto all’ autodeterminazione: sulla questione tibetana i Qing fanno scuola, ispirano il repubblicano Sun Yat-sen, il nazionalfascista Chiang Kai-shek, il comunista Mao. Svanito l’ effimero interesse che la Gran Bretagna aveva nutrito per le alture dell’ Himalaya, negli ultimi cent’ anni nessun governo occidentale ha avuto veramente a cuore la sorte dei tibetani. Pechino descrive il Dalai Lama come un servo dell’ America, ma sugli aiuti ricevuti dalla Cia alla fine degli anni Cinquanta il giudizio del leader spirituale è tagliente: «Il sostegno degli Stati Uniti al Tibet era dovuto non a principi morali o a solidarietà, ma alla loro globale politica anticomunista». L’ addestramento di guerriglieri tibetani durò poco perché quell’ area non rientrava tra le priorità strategiche di Washington. E all’ inizio degli anni Settanta anche i modesti aiuti finanziari furono tagliati per preparare il disgelo tra Richard Nixon e Mao. Con l’ invasione del 1950 Lhasa ha scoperto la doppiezza del maoismo. Mentre la propaganda comunista annunciava di aver liberato il popolo tibetano dallo sfruttamento feudale della teocrazia buddista, per anni l’ Esercito Popolare di Liberazione mantenne i diritti degli aristocratici sui servi della gleba. Oggi il regime di Hu Jintao proclama la libertà religiosa ma si arroga la facoltà di scegliere il prossimo Dalai Lama. Lui non mostra risentimento. Verso il comunismo e il capitalismo ha lo stesso distacco: «Parte dell’ ideologia marxista è meravigliosa: contrastare con la forza ogni sfruttamento e poi usare la distribuzione invece della realizzazione del profitto. Il peccato più grande in questo sistema è l’ assoluta noncuranza dei valori umani fondamentali, della compassione umana. E la deliberata promozione dell’ odio. Però il capitalismo non ha un obiettivo. Si tratta solo di guadagnare. Nessun profitto si preoccupa delle conseguenze. Nessun profitto si preoccupa della conoscenza». Tenzin Gyatso sa che i leader cinesi pensano di avere il tempo dalla loro parte, aspettano la sua morte per regolare definitivamente la questione tibetana nominando un leader-fantoccio come suo successore. La sua ricostruzione storica affidata a Thomas Laird arriva alla conclusione opposta: «Al momento alcuni possono ancora pensare che l’ unico problema sia il ritorno del Dalai Lama. Ma io credo che sia assurdo. È il popolo tibetano, con un passato e una cultura lunghi e ricchi, è la peculiarità della nostra comunità ciò che dev’essere riconosciuto. Quando il Dalai Lama non ci sarà più, il popolo tibetano e la sua storia continueranno a esistere». – FEDERICO RAMPINI
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