Repubblica — 14 giugno 2007 pagina 27 sezione: POLITICA ESTERA
PECHINO – È un errore cercare di «contenere» l’ ascesa della potenza economica e politica della Cina. Sbagliano gli Stati Uniti nel perseguire una strategia di accerchiamento di Pechino, costruendo attorno alla Repubblica popolare un «cordone sanitario» di alleati fedeli con il Giappone, l’ Australia, forse anche l’ India. L’ unico modo per favorire un’ evoluzione positiva in Cina è rafforzare i legami commerciali e il dialogo con Pechino. A proclamare con vigore questa linea di apertura è nientemeno che il Dalai Lama, il leader spirituale del popolo tibetano costretto all’ esilio dal 1959, dopo che la sua terra venne invasa dall’ Esercito Popolare di Liberazione di Mao Zedong nel 1950. La critica del Dalai Lama alla politica americana si inserisce in un copione di dialogo tra sordi che sembra surreale: da anni il leader tibetano parla un linguaggio di compromesso e invita alla moderazione verso il regime cinese; quest’ultimo invece risponde continuando a criminalizzarlo come un “secessionista”, e lancia pesanti minacce contro gli Stati che accettano di riceverlo in visita. L’ ultimo di questi è l’ Australia. È durante una visita ufficiale a Canberra che il Dalai Lama ha espresso le sue preoccupazioni per la strategia americana di accerchiamento della Cina, con i legami di cooperazione militare sempre più stretti fra Washington, il Giappone, l’ Australia, e di recente anche l’ India. «È assolutamente sbagliato isolare o anche solo contenere la Cina – ha detto il Dalai Lama – è un errore politico e morale. La Cina deve essere portata pienamente nell’ alveo della comunità internazionale, e per fortuna oggi è questo che vogliono anche i cinesi. Sono i benvenuti. È positivo». Il leader tibetano ha subito aggiunto che «nello sviluppare buone relazioni e un’ amicizia sincera con la Cina, bisogna tener duro sui principi dei diritti umani e della democrazia, difendere lo Stato di diritto e la libertà di stampa; questo significa essere veri amici della Cina». Il Dalai Lama sta ultimando la visita di dieci giorni in Australia che ha creato come al solito un incidente diplomatico. Da Pechino infatti sono giunte reazioni durissime contro il governo australiano, reo di aver concesso il visto al leader tibetano in esilio. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Qin Gang, ha dichiarato: «Il Dalai Lama non è un personaggio unicamente religioso; è un esiliato politico che si impegna attivamente per dividere la sua patria e sabotare l’ unione fra i diversi gruppi etnici. I problemi del Dalai Lama e del Tibet non sono problemi di diritti umani bensì di secessionismo». Il governo di Pechino ha quindi espresso «forte rammarico e protesta» al premier australiano John Howard per aver consentito al leader spirituale buddista «di svolgere le sue attività in Australia». Come di consueto il regime comunista cinese demonizza il «secessionismo», fingendo di ignorare che da decenni il Dalai Lama ha smesso di propugnare l’ indipendenza del Tibet. La linea del leader buddista da molto tempo ha preso le distanze dalle frange di esuli che sognano un Tibet sovrano: il religioso e premio Nobel per la pace sostiene che la sua terra dovrebbe ottenere una maggiore autonomia (idealmente all’ interno di una Cina trasformata in repubblica federale) per preservare la sua identità culturale; al tempo stesso egli riconosce i benefici economici portati dagli investimenti cinesi a Lhasa e dalla modernizzazione delle infrastrutture. Pechino ignora platealmente queste aperture e continua a vietare al Dalai Lama il ritorno a Lhasa. Inoltre il regime cinese moltiplica pressioni e ricatti sugli Stati esteri perché chiudano le loro frontiere al leader esiliato. Lo stesso Dalai Lama ha riconosciuto che per effetto della crescente influenza della Cina, per lui sta diventando sempre più difficile ottenere udienza presso i leader dei paesi democratici. – DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI
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